***Il nostro sguardo** fruga Torino. Di questa città conosciamo bene la fermata dell’autobus che ogni mattina ci porta al lavoro, conosciamo la voce del capo che ci dice di fare più in fretta. A memoria sapremmo tratteggiare i volti annoiati di chi ci vive accanto, tanto ci paiono scontati. Sappiamo vedere le piazze ed i cortili, le orme lasciate dai passi di chi ogni giorno calpesta lo stesso nostro selciato. Ma ad un certo punto lo sguardo è costretto a fermarsi.
Proviamo ad immaginare, per gioco, cosa potremmo vedere del mondo se avessimo passato la vita intera rinchiusi e d’improvviso ci ritrovassimo fuori, alla luce piena. Abituati alla penombra, i nostri occhi subirebbero la violenza del giorno e si socchiuderebbero infastiditi. Dalla stretta fessura delle palpebre riuscirebbero a cogliere, questo sì, qualche particolare di quel che ci circonda più da vicino. E se il nostro sguardo ritrovato fosse davvero curioso, a particolare si aggiungerebbe particolare, ed ognuna di queste schegge di realtà rimarrebbe lì, si affastellerebbe dentro ai nostri occhi ma non troverebbe lo spazio per darsi un ordine e per parlarci di quel che c’è intorno a noi. Finalmente liberi, potremmo vedere le fronde dell’albero scosse dal vento, le anse del fiume che scorre svogliato, potremmo vedere il colore che hanno i campi, è certo. Quel che non riusciremmo ancora a vedere, però, è la pianura che tutto questo contiene, e che dà un senso all’albero, al fiume, ai campi. Rimarremmo ipnotizzati dal particolare, incapaci di vedere il tutto; saremmo ciechi insomma di fronte all’orizzonte, di fronte all’insieme delle cose, non coglieremmo il disegno complessivo di quello che ci sta attorno.
Alla stessa maniera rimaniamo accecati ogni giorno di fronte a Torino: il nostro sguardo si ferma all’autobus della mattina, ai ritmi sempre uguali delle nostre giornate, ai volti annoiati di chi ci vive accanto. Non vuole vedere quel che c’è dietro, quello che lega tra loro tutti gli angoli conosciuti di questa città e della nostra vita che le scorre dentro. E questi angoli con le vicende del mondo.
Mille cose si frappongono tra il nostro sguardo indagatore e la città. Ma quel che più ci abbaglia, quello che davvero ci fa socchiudere gli occhi, è il senso della paura. Questa inquietudine nelle vene la avvertiamo perché in qualche maniera già sappiamo che — se potessimo vedere la realtà nel suo insieme — la nostra vita ci potrebbe apparire sempre meno nostra, sempre di più un ingranaggio di una macchina produttiva e di controllo troppo grande per noi: dovremmo dire addio al luogo comune democratico che ci descrive liberi, cittadini di un piccolo mondo generoso ed indulgente. O forse prevediamo che i nostri occhi aperti finiscano per accusarci, indicandoci come responsabili di sofferenze, di guerre e di fame, che tanto sono determinate anche dalla nostra incapacità di ribellarci. Vedere chiaro interroga i nostri cuori, e chiede di cambiare la vita. Vedere chiaro fa paura.
A noi la scelta, allora. Possiamo rassegnarci alla penombra, nell’attesa che un qualche dio del cielo arrivi a ridarci coraggio; oppure questa paura possiamo affrontarla, farla nostra. E cambiarci la vita nel mentre che guardiamo. Perché il nostro sguardo è la nostra vita. Perché non c’è più spazio al mondo per sguardi che non siano inquieti, ostinati, sediziosi.*


Solo l’altra faccia

Torino sta cambiando volto. Guardiamo le strade che percorriamo ogni giorno, osserviamone i muri: li troveremo tappezzati di manifesti della Lega Nord o di Fascismo e Libertà, di scritte razziste firmate da celtiche o da Forza Nuova. Cosa sta succedendo a questa città? Sembra che ovunque, ma specialmente nei quartieri popolari, i più poveri, il fascismo si stia velocemente insinuando, portando con sé un bagaglio fatto di diffidenza, di odio e di rancore soprattutto nei confronti degli immigrati. Fortunatamente, sono in molte ancora le persone che respingono questi discorsi e che non accettano di vivere accanto a chi li porta avanti giorno dopo giorno. Basti pensare a quando alcuni immigrati, con argomenti molto convincenti, hanno costretto alla chiusura una sede dell’estrema destra a S. Salvario o alla manifestazione di qualche settimana fa indetta per impedire lo svolgimento di un convegno di Forza Nuova. Quest’ultima in particolare, per una sera, ha sottratto i torinesi alla televisione facendoli accorrere ai balconi ed ha incuriosito chi si trovava a percorrere le stesse vie del corteo: era da tanto che gli slogan urlati nelle strade, gli scontri con la polizia ed il fuoco delle barricate non disturbavano la quiete serale di una città che troppo spesso chiude gli occhi davanti ad ogni genere di infamia.

Molti, leggendo questo articolo, potranno pensare che sia esagerato parlare con tanta preoccupazione del fascismo, perché pensano che questo sia morto ormai da tempo: mai come in questo caso si stanno sbagliando. Abbandonate le teorie antiquate che vedevano la superiorità di alcune razze sulle altre, il nuovo fascismo mette l’accento sull’esistenza di "etnie" e culture diverse. Discorso che all’apparenza sembra più morbido del vecchio razzismo, ma che prosegue sostenendo che queste supposte etnie non possano e non debbano incontrarsi, che le tradizioni di ogni "popolo" vadano mantenute ad ogni costo, compreso la segregazione e la violenza. Non parlano più di razze, i nuovi fascisti: semplicemente preparano le pulizie etniche del futuro.

Per fare un esempio, descrivono gli immigrati di religione islamica come un esercito che sta colonizzando l’Europa, come un insieme di terroristi e di fanatici che distruggono l’identità culturale italiana. Ma cosa c’è da distruggere? Quale identità possiamo avere da difendere, ora che i legami concreti che ci uniscono sono tanto labili da impedirci addirittura ogni dialogo diretto riguardo ai problemi reali che ci affliggono? L’unico filo che ci lega, l’unica identità che conserviamo è quella di consumatori. L’identità che ci propongono i fascisti, che ci propone la Lega, che ci propone tanta parte della Chiesa Cattolica, è una identità fasulla che si rifà ad un passato remoto, mitico ed irreale. Così come il vecchio fascismo ci parlava di romanità e di impero, i nuovi fascisti ci parlano della famiglia e dei valori cattolici minacciati dalla presenza degli immigrati, ai quali vengono addebitate tutte le disgrazie di questi nostri anni.

Giorno dopo giorno, così, sono sempre di più le persone che credono a quello che la Lega Nord e Forza Nuova raccontano loro, cioè che sono proprio gli immigrati la causa della disoccupazione, della criminalità, della miseria; è per questo che, giorno dopo giorno, nei quartieri crescono l’ostilità, la diffidenza, la paura e si moltiplicano le scritte razziste.

A cosa serve questo nuovo fascismo? Sono i potenti a distruggere interi paesi con le guerre o con lo sfruttamento economico, determinando le migrazioni; sono i governi a creare la condizione di clandestinità per poter sfruttare uomini e donne, costretti a lavorare legalmente o illegalmente a basso costo e senza nessuna garanzia; sono gli Stati, attraverso le riforme economiche che stanno spingendo verso la flessibilità in ambito lavorativo, ad avviarci — italiani e stranieri — verso un futuro sempre più incerto e precario. È per nascondere i veri responsabili di questo sfacelo che viene elaborato il discorso fascista, per incanalare la la rabbia dei poveri verso un nemico fittizio, mettendo gli sfruttati l’uno contro l’altro per fare in modo che nulla cambi, che si mantenga lo sfruttamento dei ricchi sui poveri.

Per questo il fascismo non è, come molti credono, l’opposto o il nemico della democrazia, quanto l’altra faccia della medaglia, uno dei tanti modi che il capitale ha per gestire il mondo, il suo aspetto più brutale. Essere concretamente contro il fascismo deve voler dire essere anche contro la democrazia, contro lo sfruttamento, contro la società divisa in classi. Solo con questa consapevolezza potremo opporci al fascismo. Opporci non solo alle sue manifestazioni più evidenti, come i convegni di Forza Nuova degli ultimi mesi, ma soprattutto a ciò che lo rafforza quotidianamente nei quartieri, alle sue piccole strutture economiche, di propaganda, di sostegno. Perché, ricordiamocelo, Forza Nuova, la Lega Nord, Alleanza Nazionale, Fascismo e Libertà, Fiamma Tricolore non rappresentano soltanto diverse sfaccettature dell’ideologia che fino ad ora ha rappresentato l’ultima risorsa del capitale; sono uomini e strutture concrete che abbiamo sotto casa ed ai quali possiamo, in ogni momento, chiedere il conto del loro operato.


Avviso ai plebei

I Romani sapevano benissimo che un plebeo se non ha la testa occupata è pericoloso, perché comincia a pensare autonomamente e pensa oggi, pensa domani, va a finire che si guarda attorno e scopre che in realtà vive una vita piuttosto insulsa, fatta solo di sofferenza. Lascialo pensare ancora un po’ e capirà che l’imperatore ed i senatori gli sono diversi solo per gli abiti preziosi che indossano e per i cibi abbondanti e raffinati che consumano. Dopo queste semplici riflessioni non credo che continuerà volentieri a spaccarsi la schiena per far fare la bella vita ad altri, ma insorgerà senza indugio.
Come però abbiamo detto i senatori sapevano il fatto loro e per evitare spiacevoli inconvenienti e per poter continuare i loro interessi, sussurravano all’orecchio del semplice che i cristiani sono dei pericolosi individui e che i barbari sono asserragliati lungo i confini dell’impero aspettando il momento buono per varcarli, saccheggiare e distruggere i villaggi. Così l’ingenuo ogni giorno lavorava alacremente, fiero della sua romanità ed i giorni di festa gioiva nel vedere nell’arena i gladiatori farsi a pezzi ed i cristiani lasciarsi divorare dalle fiere.
Non trovate alcuna somiglianza con quello che capita ai nostri giorni?
La creazione di un nemico e di un capro espiatorio sul quale riversare ogni genere di disgrazia è un fatto attuale anche se vecchio quanto l’uomo.
Infatti la storia ha sempre visto gli imperi, i comuni e le nazioni avere un qualche nemico. È per colpa di questo nemico che si è dovuto fare qualche sacrificio e mangiare un po’ meno o lavorare con più lena. È grazie a questo capro espiatorio che spesso le nazioni non si sono spaccate e che le rivolte dei poveri sono state scongiurate.
Guardiamoci attorno e rispolveriamo il vecchio libro di storia. Ricordate quell’ometto che urlando da un palco ed additando come responsabili della tremenda crisi economica gli ebrei è riuscito a riunire in maniera salda un paese profondamente diviso?
Oggi come sempre il dito è puntato su dei barbari contro i quali accanirsi. Ci dicono che è per colpa dell’immigrato che le paghe sono basse, c’è disoccupazione perché sono loro a rubarci il lavoro. Se le nostre città non sono più sicure i responsabili sono sempre loro che non avendo voglia di lavorare rubano e spacciano. Adesso possiamo stare buoni buoni dando retta ai suggerimenti che ci vengono continuamente dati dai giornali e dalla televisione, oppure cercare di scavare più a fondo, pensare che qualcuno forse non vuole che i nostri occhi vedano la tristezza della nostra esistenza ed allora devia lo sguardo contro una minoranza, i poveri più poveri, gli ultimi arrivati.


"Non avremo mai più la ricompensa dei cieli.
Non saremo che poveri uomini
che nascono e muoiono.
Dimenticheremo le vanità
della superbia e della speranza.
Ripeteremo entro di noi la vita di Cristo, ingigantendolo fino a farne un uomo.
Non daremo più un soldo al mendicante,
ma impiegheremo la vita
a distruggere il soldo che ha creato il mendicante.
Non diremo più, a chi soffre,
di morire per rifarsi della vita,
ma impiegheremo la nostra a consolarlo.
Infrangeremo la prigione,
la caserma e il lupanare..."


Un nome per ogni cosa

Qualche giorno fa, nel pieno centro di Bologna, un consulente del Ministero del Lavoro è stato freddato da quattro colpi di pistola. Sembra certo che a premere il grilletto siano stati dei militanti delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente.

Ad esser seri, questa è una di quelle notizie che non avrebbe bisogno di alcun commento, tanto sono scontate le cose che si possono dire in merito. Ma i nostri sono anni strani, e tante e tante sono le corbellerie che ci tocca legger sui giornali od ascoltare per la strada che ci pare doveroso dedicare una qualche riga sul nostro foglio a questo fatto. Togliamo spazio, così, a qualche considerazione che avremmo voluto fare sulla situazione in Palestina: avremo occasione di riparlarne, sempre ché i carri armati israeliani non ne demoliscano gli ultimi brandelli nelle prossime settimane. Non aspettatevi, sul fatto di Bologna, grosse tirate teoriche o fini argomentazioni morali: diremo ovvietà, come si conviene a persone semplici come noi.

Marco Biagi, così si chiamava il morto, era un consulente del Ministero del Lavoro. Era, cioè, uno di quei tecnici indispensabili all’elaborazione delle riforme in materia lavorativa che il governo sta cercando di far passare in questi mesi. Fra tutte, la riforma dell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Sull’argomento si sono espressi in tanti, e qualche cosa l’abbiamo detta anche noi il mese scorso. Non ci sembra il caso, in queste poche righe, di ripeterci; basterà dire che questi progetti governativi sanciranno subito un netto peggioramento delle condizioni di vita di quegli sfruttati che ancora sono inseriti nell’ambito del cosiddetto "lavoro fisso" e, con il tempo, di tutti gli altri. Marco Biagi, insomma, studiava qual era il modo migliore per prender alla gola i poveri. Aveva deciso di stare dalla parte dei ricchi e dei padroni, e giocava con la vita degli altri immerso nelle sue scartoffie. Quest’uomo, insomma, portava su di sé il peso di responsabilità sociali gravissime rispetto al futuro di tutti gli sfruttati. Forse aveva la faccia da brava persona, forse era un marito affettuoso ed un buon padre di famiglia: ma le sue responsabilità rimangono, e ci pare scontato che certe responsabilità prima o poi si debbano pagare. Il conflitto sociale non fa sconti a nessuno. I padroni ed i governi hanno ben dimostrato in questi anni di non voler farci alcuno sconto, e non si vede proprio perché sia così giusto farne a loro. L’avvenire degli sfruttati, secondo Marco Biagi, era quello di rimaner sfruttati, e sfruttati sempre di più. Ora che è morto, i padroni, i politici e i sindacati lo piangono: fanno bene, era uno dei loro. I poveri, i propri morti li piangono ogni giorno sul lavoro, nelle prigioni, nelle guerre, nelle manifestazioni, in mare. Non si può piangere insieme.

Non saremo certo noi a sindacare sul rapporto che ogni sfruttato, individualmente, possa avere con la violenza. Di fronte all’atto di uccidere, alla morte, ognuno è solo con la sua coscienza, col suo modo di sentire più intimo e segreto: è anche da questa solitudine che ogni povero deve saper scegliere i mezzi con i quali ribellarsi — quelli più congeniali a se stesso, alla propria indole — e non solo dal ragionamento freddo e calcolato. Su questo terreno noi stentiamo a dare giudizi stentorei, e ci fa imbestialire che i grandi quotidiani riempiano il cuore dei poveri con tanti disgustosi ricatti morali.

Tutti quelli che ora gridano impauriti al ritorno della barbarie e della violenza indiscriminata dicono delle bestialità, ma le urlano talmente forte da farle sembrare plausibili. È certo che l’altra sera a Bologna sia stata perpetrata una violenza. Ma è stata ben discriminata: qualcuno ha saputo scegliere (appunto, discriminare), all’interno della folta schiera di coloro che lavorano per peggiorarci l’esistenza, chi colpire, quando, e perché. Ha saputo scegliere e ha saputo colpire senza coinvolgere estranei. Si può non essere d’accordo sul ragionamento che ha portato all’uccisione di Biagi, si può non essere d’accordo su questo uso della violenza. Ma dire che si sia trattato di violenza indiscriminata, di terrorismo, è come sostenere che sui peri crescano banane. E poi, per dirla tutta, i discorsi nonviolenti di un governo che ha gestito il massacro estivo di Genova, che ha inviato truppe contro la popolazione civile afghana, che continua a costruire lager per clandestini, ci sembra che manchino fortemente di buon gusto e di pudore. La strage indiscriminata, il colpire gli innocenti nel mucchio, la violenza cieca — il terrorismo, insomma — continuano ad essere prerogativa quasi esclusiva degli Stati. La smettano quindi i politici, le dirigenze sindacali e i giornalisti di cianciare di unità del paese contro il terrorismo, e comincino per lo meno a chiamare le cose con il proprio nome.

Se abbiamo scandalizzato con queste righe i moralisti di regime, ci sembra dovuto scandalizzare un poco anche i truculenti ad ogni costo. Se è chiaro come il sole che le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente, che hanno rivendicato il gesto, non sono affatto terroristi, è altrettanto chiaro che mirino al potere. Non amiamo, e non abbiamo mai amato, chi lotta — anche in perfetta buona fede — per ritagliarsi una fetta di potere o l’intero governo di un paese. Rimaniamo convinti che il cambiamento sociale, la distruzione della società divisa in classi, non possa passare attraverso il controllo di uno Stato, anche se questo Stato lo si chiama Operaio. Non abbiamo nessuna intenzione di mettere da parte le nostre differenze, né limitare le nostre critiche, sol perché questa organizzazione ha ammazzato un nemico anche nostro.

Non ci indigniamo, dunque, per l’utilizzo delle armi o per l’attacco ad un uomo di potere, anzi: anche questo, come dicevamo, fa parte dello scontro sociale e della rivolta. Ma per farne parte fino in fondo deve essere cosa di tutti. Questo non vuol dire che si debba aspettare di essere tutti, materialmente, insieme. Vuol dire che anche quando si agisce da soli o in piccoli gruppi si abbia la consapevolezza di essere semplicemente una parte dello scontro sociale, non il suo direttivo, la sua avanguardia, o addirittura la sua coscienza. Chi desidera l’uguaglianza per il futuro, non può che cominciare ad applicarla nel presente: se si cominciano a stabilire gerarchie già da ora, ogni buona intenzione è vana. Eserciti "proletari", piccoli o grossi che siano, forse possono fare qualche cosa contro questa organizzazione statale, ma nulla possono contro lo sfruttamento e la divisione sociale che ogni gerarchia riproduce. Non solo. Ogni esercito, anche il più "libertario", può solo dire: "Fidatevi compagni, faccio tutto io. Voi potete applaudirci, entrare nelle nostre fila, o anche fischiare se volete". Gli sfruttati dovrebbero però rispondere di essere ben capaci di far da soli. Che si lotti in centomila in piazza, o in due nel pieno della notte, che lo si faccia con la penna o che lo si faccia con la pistola, gli sfruttati possono sperare in un cambiamento sociale veramente rivoluzionario solo quando lotteranno di persona, senza rappresentanti da applaudire o da fischiare. Tutto qui.

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