Eccoci arrivati a Torino, la città che ci vuole tutti stranieri. È straniero chi porta ancora negli occhi il colore che ha l'Atlantico quando bagna El Jadida, è straniero chi la notte sente ancora sparare e sparare lungo la Neretva, è straniero chi l'altroieri inseguiva un pallone per le strade polverose di Ayacucho, o annusava il vento a Valona, a Timisoara, a Ibadan. Tanto straniero da vivere braccato dalla polizia che, ad ogni angolo, pretende di trovargli nelle tasche il permesso di soggiorno e sulla faccia quello stesso sorriso docile e sottomesso che chiede ogni mattina il padrone in officina o nel cantiere.
Ma Torino trasforma in straniero anche chi è cresciuto nei suoi cortili e non riconosce più la città dei propri padri. La vecchia città che ha fatto incontrate i profughi delle campagne meridionali e delle valli alpine; che li ha rinchiusi nella stessa fabbrica e negli stessi quartieri, promettendo loro un futuro sicuro; che li ha obbligati a conoscersi, a sognare e lottare assieme - quella vecchia città non c'è più. È stata sbriciolata insieme a tutte le sue promesse, a tutte le sue garanzie. In fila sulla porta dell'Adecco o della Manpower, i figli di Torino intravedono un futuro incerto e precario, ancora più grigio di quello che offriva Mirafiori ai loro padri.
Tutti siamo oramai stranieri a Torino, stranieri perfino a noi stessi ed al nostro fare, assediati come siamo da macchine "intelligenti" che ci rendono ogni giorno più stupidi ed inutili, più dipendenti in ogni gesto da un apparato tecnologico che non potremo mai comprendere né controllare. Torino è il crocevia di un mondo che si sta decomponendo e che ci costringe a fuggire dalle mille catastrofi provocate dai padroni in giro per il pianeta. Che si scappi dal deserto o dalla guerra, dalla povertà o dalla dittatura, o che si sia nati dal suo ventre, Torino è il capolinea di un viaggio forzato attraverso la modernità.
Torino è la città che ci vuole fare nemici, che vuole scagliarci l'uno contro l'altro. Arabi contro albanesi, nigeriani contro slavi, italiani contro tutti - a scaricarci addosso il rancore per delle vite sempre più precarie e spossessate.
Ma Torino è anche una possibilità aperta che parla la lingua universale dell'odio verso i responsabili concreti della nostra oppressione, verso chi ci ha reso ovunque stranieri. E sarà proprio questo odio comune ad unirci, a parlarci di fratellanza, a determinare un incontro tra sconosciuti che sia festoso come quello di vecchi compagni che si ritrovano dopo un lungo viaggio attorno al mondo.
Con tutte le parole dell’odio, con tutte le parole dell'amore. Eccoci a Torino, dunque, partiamo.


Una domenica a Porta Palazzo

Porto Palazzo, una domenica mattina come tante: la polizia ad ogni angolo, i controlli e i fermi a danno di chi cerca fra le piccole vie laterali uno spazio di sopravvivenza, il consueto echeggiare della sirena che ci ricorda che dobbiamo guardare in basso, che essere poveri è il peggiore dei crimini.

Solo che, a guardarla bene, questa mattina ha qualcosa di particolare. In un angolo alcuni uomini e alcune donne si stanno radunando, discutono, agitano bandiere e, d'improvviso, i megafoni cominciano a dirci qualcosa.

Molte voci si susseguono e di colpo portano nelle nostre strade la realtà, in tutta la sua spietatezza: a Kabul stanno bombardando e sotto le rovine i corpi dei poveri, nostri fratelli, ci gridano che tutto questo è anche affar nostro. Mani alzate verso il cielo di Torino, quella domenica mattina, si sono unite ad altre mani nel mondo ad invocare o a pretendere la fine del massacro in Afghanistan, subito.

Una semplice manifestazione, indetta da un semplice imam, per dire che l'Islam non è sinonimo di morte, per dire che i caccia e i missili americani, questi sì, sono la morte.

Noi quella mattina eravamo lì, non perché condividessimo a priori le parole d'ordine dei promotori, ma per portare il nostro contributo alla lotta degli sfruttati, di Torino come di Kabul.

I giorni successivi abbiamo letto, senza grosso stupore, che quella domenica a Porta Palazzo si era svolta una manifestazione a favore del "terrorismo". Abbiamo letto che gli oratori, in particolare l'imam, erano apologi della strage dell’11 settembre. Noi eravamo lì ad ascoltarli, questi oratori, e non ce n'eravamo accorti...

Possiamo confermare che i media, rispetto alla faccenda, hanno detto e scritto un mucchio di menzogne: non è comunque la becera pratica giornalistica, ormai arcinota, che ci interessa criticare qui. La nostra urgenza non è nemmeno esprimerci rispetto alle parole dell'imam o degli altri partecipanti, per noi sin troppo concilianti con le istituzioni complici del massacro afghano. Il fulcro della questione è leggere, anche in questi piccoli episodi, quali basi i padroni stiano gettando per fortificare la guerra civile di già in atto ovunque: povero contro povero per il privilegio dei ricchi, questo vogliono.

Vedete, noi siamo persone semplici, e da persone semplici pensiamo che i nemici siano coloro che ti fanno vivere male. Ne consegue che i nemici dei poveri siano i ricchi, gli sfruttatori, e che al contrario i nemici dei ricchi siano i poveri che non si vogliono far sfruttare. Qualunque guerra che sfugga a questa evidenza nasconde un imbroglio: così, i nostri politici raccontano che ogni conflitto è combattuto per il bene comune, verso un nemico contro il quale tutti dobbiamo stringerci e, nel frattempo, trasformano in nemico di tutti coloro che sono loro scomodi o, più semplicemente, di troppo rispetto alle esigenze padronali.

In questi giorni dal pulpito governativo, e non solo, vengono parole di pace verso l'Islam e ci si sbraccia a dichiarare che l'impegno dello Stato è rigorosamente contro il "terrorismo". Ma coloro che ci dicono queste parole sono gli stessi che ci sussurrano all'orecchio che ogni musulmano è potenzialmente un criminale, un fiancheggiatore di stragisti, un "terrorista". E' sempre lo stesso carosello, sono le stesse menzogne di ieri.

Le abbiamo sentite per anni, queste menzogne, nelle dichiarazioni dei vari Borghezio contro gli immigrati; le abbiamo annusate nelle parole di "tolleranza" dei D’Alema che hanno accompagnato la costruzione dei Lager per clandestini, le abbiamo scoperte nelle separazioni, fatte da preti e rappresentanti di ogni credo e colore, fra migranti regolari - quindi onesti - e clandestini, sicuramente criminali. Sono evidenti oggi, dopo quella domenica a Porta Palazzo, nelle intenzioni del sindaco Chiamparino di dividere non soltanto gli immigrati dagli italiani e i regolari dai clandestini ma, anche, la comunità musulmana al suo interno, fra i buoni che aspirano all'integrazione e i cattivi, fondamentalisti seguaci dell'imam Bouchta.

Così il grande bracere dell'odio è stato attizzato e, fra il plauso della così detta "opinione pubblica", la polizia ha iniziato la caccia alle streghe. In Piazza della Repubblica, dopo quattro giorni di retate ai danni degli immigrati, si torna a respirare l'aria pesante di un passato vergognoso.

Il vanto del sindaco, della polizia e dei "comitati spontanei" per la brillante operazione che ha condotto decine di persone prive di documenti nei campi di concentramento - definiti centri di permanenza temporanea - non dovrebbe lasciarci dubbi sulla impossibilità, per i poveri, di intrattenere qualunque forma di rapporto, se non quello dello scontro, con le classi dominanti.

Non esistono clandestini e regolari, musulmani e infedeli, operai e disoccupati ma solo uomini e donne calpestati nella dignità, sfruttati e rinchiusi, costretti a scappare e uccisi. Poveri, uniti dallo stesso sfruttamento e forse, un giorno, uniti nella lotta: questo temono i potenti, per questo su mille altre "domeniche a Porta Palazzo" ancora, loro, cercheranno di dividerci.


La modernità, in poche parole

Basta sfogliare un quotidiano qualsiasi per sbalordirsi di fronte alla quantità di incidenti sul lavoro, in cantiere come in fabbrica. Dall'operaio di Pragelato morto precipitando da un carrello, a quello di Lanzo, salvatosi miracolosamente dopo che 15 mila volt gli hanno attraversato il corpo mentre era al comando di una gru, all'impiegato di una cartiera di Ciriè dove pochi secondi lo hanno separato dal perdere un braccio, divorato dagli ingranaggi di una ribobinatrice.

L'evidenza è ancora più eclatante se si pensa che incidenti di questo tipo accadono nel XXI secolo - adesso -, non agli albori della società industriale. E se si continua a riflettere, non può non colpire il fatto che tutto ciò succeda nella sola provincia di Torino - qui - e non in un paese dove, ad uccidere, prima del lavoro, ci pensano fame e povertà.

I fatti non permettono scappatoie: se è il tuo destino, muori o ne esci disabile, se ti va bene te la cavi con qualche mese di convalescenza. Se la parola sicurezza è ormai un luogo comune della nostra società, sia per chi la pretende sia per chi si arroga il diritto di imporla, non lo è per chi, di lavoro, muore.

L' aumento di incidenti sul lavoro in questi ultimi anni è stato causato, tra l'altro, dall'introduzione massiccia dell'automazione nei processi produttivi. Le operazioni elementari che richiedono le macchine per funzionare hanno reso superfluo l'accumulo di quelle capacità e di quelle esperienze specifiche che spesso salvavano la vita - oltre a fare l'orgoglio di tutta un'esistenza.

Con la richiesta di operai generici e non più di operai qualificati, la nuova produzione apre le porte alla corsa alla flessibilità: meno l'operaio è specializzato e più è intercambiabile, sostituibile con un altro altrettanto nuovo del mestiere. Ed essendo intercambiabile ha meno possibilità di organizzarsi e di imporre ai padroni una maggiore sicurezza. Chi avrà il coraggio di opporsi alle condizioni in cui è costretto a lavorare, se sulla sua vita penderà costantemente il ricatto della disoccupazione?

Una situazione ancora più precaria e meno garantita vivono gli sfruttati assoldati dalle agenzie di lavoro interinale le quali, non solo propongono dei contratti a brevissima scadenza, ma possono anche funzionare da filtro per le persone indesiderate.

Questi semplici ragionamenti ci mostrano, al di là di ogni illusione sulla bontà della tecnica e del progresso, quale sia il volto della modernità. Questo è ciò che ci aspetta.


Il mondo della guerra

Le immagini di una nuova, ennesima tragedia sono entrate con prepotenza nelle nostre case. I bombardamenti, i profughi, i morti e la disperazione di chi è sopravvissuto non ci parlano oggi di una "operazione di polizia internazionale", come era accaduto negli anni passati in altre occasioni, ma di una "guerra al terrorismo"; comunque venga chiamato, è però evidente ogni giorno di più che il conflitto esploso nell'ultimo mese non è poi così diverso da tutti quelli che hanno insanguinato mezzo pianeta negli ultimi decenni. C'è un filo che lega gli orrori della Somalia e della Bosnia, dell'Algeria e del Ruanda; è proprio questo legame a mettere in luce che non è scoppiata nessuna nuova guerra in Afghanistan come nel resto del mondo. La guerra è già scoppiata da tempo e, focolaio dopo focolaio, sta incendiando il mondo intero; i passaggi che abbiamo provato a riassumere nelle righe seguenti sono quelli che hanno portato a questo stato di guerra permanente.

Fino a qualche secolo fa, anche l'economia dei cosiddetti paesi del "terzo e quarto mondo" era in grado di garantire la sopravvivenza delle proprie popolazioni. Fondata sull'agricoltura e sull'allevamento di bestiame, era tesa a soddisfare soltanto le necessità interne; i prodotti agricoli ed il bestiame davano di che vivere sia a coloro che li avevano coltivati o allevati, che alla comunità intera. Così, la comunità veniva a dipendere in egual misura dai proventi di queste attività.

Con l'inizio delle colonizzazioni e con l’apertura del mercato mondiale, in questi paesi si fa strada un nuovo tipo di economia forzata, che spinge contadini e pastori a produrre non più per se stessi e per la comunità, ma principalmente per l'esportazione, frantumando quell'equilibrio che era stato mantenuto nei secoli e le comunità che si erano formate.

II successivo avvento dell'industrializzazione ha significato maggior velocità degli scambi e dei processi produttivi; in questo modo le potenze occidentali, riuscendo a trovare manodopera a costi decisamente inferiori rispetto alla propria, esportano in queste nazioni la propria produzione, fornendo nuove occupazioni. La produzione si accentra nelle nuove città, e questo spinge un gran numero di persone a spostarsi dalle campagne per poter sopravvivere; il tessuto sociale e le comunità che una volta garantivano il pane all'intera popolazione vengono in questo modo completamente distrutte.

Oggi, la moderna globalizzazione, con tutto il suo carico di sfruttamento e distruzione, è divenuta tappa obbligata per la politica e l'economia di tutti gli Stati, ricchi o poveri che siano. Questo per riuscire a reggere i precari equilibri di mercato ormai in stretto legame da una parte all'altra del globo. Attraverso la velocità e le innovazioni del progresso tecnologico e scientifico, con l'opportuno controllo poliziesco e i giusti alibi ideologici - componenti senza le quali le multinazionali non avrebbero terreno ma che vengono forniti loro dallo Stato - l'economia riesce ad imporre la sua regola fondamentale: la massima produzione con il minimo delle spese.

È così che, attualmente, i padroni riescono a spostare i luoghi della produzione da un paese all'altro con sorprendente velocità, inseguendo la manodopera più a basso costo, così all'infinito. Dietro di sé, ad ogni spostamento, la moderna economia lascia solo nazioni in cui la maggioranza della popolazione è ridotta alla fame, avendo perso sia le capacità di procurarsi da vivere in maniera autonoma, sia il lavoro nelle città.

Altri paesi vengono invece invasi dalle potenze occidentali, perché dispongono sul proprio territorio di materie prime come il petrolio o per mantenere in equilibrio l'assetto geopolitico mondiale: quest'ultimo è il caso dell' Afghanistan. I conflitti scatenati dall'invasione sovietica e i decenni di lotte successivi hanno distrutto l'autonomia di questa popolazione, riducendo l'economia afghana ad una vera e propria economia di guerra, dove gli uomini muoiono di fame perché possono coltivare solo ciò che è più redditizio, l'oppio, e non ciò che darebbe loro da mangiare.

In tutto il mondo, dunque, lo sviluppo dei mercati ha distrutto il modo di vivere e l'autonomia alimentare delle popolazioni: minando le basi materiali del vivere dei poveri ne ha eroso anche la lingua comune, li ha resi tanto estranei gli uni agli altri da farli nemici. È per questo che il pianeta è sempre più simile ad un immenso campo profughi nel quale l'unico modello economico, l'unico. modo vivere che ci propone il capitale, è la guerra civile permanente.


Intorno ad uno sciopero

Quei viaggiatori che il 5 e il 6 novembre scorsi si sono trovati a passare per Porta Nuova hanno senz'altro potuto assistere a scene inusuali. Cassonetti rovesciati, spazzatura sparsa in tutta la stazione, i binari bloccati dai dipendenti degli Appalti Ferroviari in sciopero; per

due giorni i tamburi dei lavoratori in lotta hanno ritmato la vita degli abitanti di S. Salvario. A vigilare su di una situazione che rischiava di farsi incandescente, vari gruppi di celerini con caschi e manganelli.

Proviamo a guardare più da vicino la vicenda di questi scioperanti, tendiamo le orecchie per cogliere quel che ha da dirci.

I dipendenti degli Appalti Ferroviari si occupano di quelle mansioni che non vengono più svolte direttamente dalle Ferrovie e che vengono appaltate ad altre imprese. Sono oltre settecento, in tutto il Piemonte, e verranno licenziati alla fine di dicembre: non perché il loro lavoro non serva più, o perché in esubero rispetto alle necessità di quel settore, ma semplicemente perché le aziende per le quali lavorano hanno perso l'appalto. Arriveranno altre aziende, e quindi altri dipendenti. A peggiorare la situazione futura dei licenziati c'è anche il fatto che questi non beneficeranno di quegli ammortizzatori sociali - Cassa Integrazione, Mobilità, ecc. - che hanno permesso negli anni passati la riorganizzazione senza troppe scosse del sistema produttivo e che oramai hanno esaurito la propria funzione.

Insomma, al tempo dei nostri nonni il posto di lavoro alle Poste o in Ferrovia era ambito perché era una sicurezza ma ora, da quando anche i comparti pubblici sono stati spezzettati e riorganizzati in nome della flessibilità, non lo è più.

I settecento licenziamenti agli Appalti Ferroviari sono quindi la normalità, la semplice routine, e non un incidente di percorso. La precarietà è diventata l'unico legame sociale concreto anche per quegli sfruttati inseriti nei settori lavorativi tradizionalmente più garantiti, più sicuri.

In passato i padroni hanno promesso sicurezza e tranquillità futura all'interno del mondo dello sfruttamento, per evitare che in molti sognassero un mondo senza sfruttamento. Come dimostrano le due giornate di Porta Nuova, quelle promesse sono state tradite. È per questo che gli scioperanti degli Appalti Ferroviari ci parlano: con la loro lotta ci costringono a porci domande nuove per le lotte future di tutti. Cosa ce ne faremo, per esempio, dei sindacati, che hanno formulato insieme ai padroni tutte le promesse ora tradite, e che le hanno pure spacciate per vittorie? Quanto credito daremo a ciò che ci prometteranno in futuro i padroni, quanto senso avrà contrattare ancora con loro? Quanto saremo disposti a salvare di un apparato produttivo che ci rende sempre più precari e più soli? E, soprattutto: quali saranno, allora, i nostri sogni?


Quattro ingenue risate

Quali sono i limiti umani? Fino a che Punto l'uomo può sprofondare nelle demenza più assoluta e, arrivato a questo punto, armato di pala raspare il fondo?
A questi tremendi quesiti nessuno di noi può precisamente rispondere ma, guardandoci intorno, esempi limite di idiozia li possiamo scorgere, in fondo Torino ne è piena.
Superbo quanto ineffabile esempio, mostro sacro dell'ottusità umana, l'onorevole Borghezio ci dimostra in ogni suo gesto e in ogni sua parola che al peggio non c'è mai fine.
Non rideremo mai con lui ma di lui molto abbiamo riso, tante sono le sere torinesi allietate dai suoi pomposi quanto ridicoli proclami che mai, nella nostra ingenuità, siamo riusciti a prendere sul serio.
Ma, in quelle gaie serate, ci stavamo sbagliando. Già, perché Borghezio non è la semplice comparsa nell'eterna parodia della politica italiana ma un attore rappresentativo della tragedia umana nella moderna società.
Quella società dove anche il linguaggio ha perso di significato e dove ogni ideologia, compresa la più becera e ottusa, riesce ad essere degna di nota. Quel mondo dove ogni pastore, per quanto imbecille, riesce comunque a trovare un suo gregge, un suo esercito disposto a seguirlo.
L'abbiamo detto, siamo ingenui e quando alcuni politici, dopo che il loro mondo aveva seppellito le comunità, decisero di seppellire anche tutto il nostro passato, il tutto ci sembrò talmente stupido da risultarci divertente. Poi, nella testa di tanti approdò la nuova ideologia e, a quello che molti di noi sono - il risultato dell'incontro di molte genti nel lungo cammino dell’uomo - si sostituì la "razza " padana. Non stava in piedi, era troppo, e noi, nella nostra ingenuità, ancora ridevamo.
Borghezio, già allora, aveva abbracciato questa neo-nata causa, era fra quelli della novella "antica razza". Proprio lui, con cui la natura non è certo stata magnanima, era diventato uno dei massimi esempi dell'etnia riscoperta che prendeva coscienza... esilarante.
Poi i Borghezio divennero molti, le dichiarazioni razziste si moltiplicarono e l'odio verso il "diverso", verso lo straniero cominciò a respirarsi, e si respira ancora, un po' ovunque. Cominciarono anche le squadrette, le chiamarono Ronde Padane, cominciarono le aggressioni agli immigrati e, "misteriosamente", i roghi sotto i ponti si illuminarono.
Oggi, anche se le urla razziste di Borghezio sembrano di troppo rispetto al più sottile e insinuante gioco politico ordito per mettere noi sfruttati l'uno contro l'altro, lui e i suoi scagnozzi sono ancora lì, a soffiare sul fuoco della paura e della diffidenza. Sono ancora lì, pieni della loro ottusità, per rendere questo mondo ancora più crudele.
Sto guardando una fotografia, ci sono degli uomini coi mitra e, sotto di loro in una fossa, decine di cadaveri. In un angolo della fotografia, in alto, c'è scritto a penna rossa: Sarajevo '94.
Ora non rido più.

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