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#title IL VIAGGIO - Numero 1 - Novembre 2001
***Eccoci arrivati a Torino,*** *la città che ci vuole tutti stranieri. È straniero chi porta ancora negli occhi il colore che ha l'Atlantico quando bagna El Jadida, è straniero chi la notte sente ancora sparare e sparare lungo la Neretva, è straniero chi l'altroieri inseguiva un pallone per le strade polverose di Ayacucho, o annusava il vento a Valona, a Timisoara, a Ibadan. Tanto straniero da vivere braccato dalla polizia che, ad ogni angolo, pretende di trovargli nelle tasche il permesso di soggiorno e sulla faccia quello stesso sorriso docile e sottomesso che chiede ogni mattina il padrone in officina o nel cantiere.
**Ma Torino trasforma in straniero** anche chi è cresciuto nei suoi cortili e non riconosce più la città dei propri padri. La vecchia città che ha fatto incontrate i profughi delle campagne meridionali e delle valli alpine; che li ha rinchiusi nella stessa fabbrica e negli stessi quartieri, promettendo loro un futuro sicuro; che li ha obbligati a conoscersi, a sognare e lottare assieme - quella vecchia città non c'è più. È stata sbriciolata insieme a tutte le sue promesse, a tutte le sue garanzie. In fila sulla porta dell'Adecco o della Manpower, i figli di Torino intravedono un futuro incerto e precario, ancora più grigio di quello che offriva Mirafiori ai loro padri.
**Tutti siamo oramai stranieri a Torino,** stranieri perfino a noi stessi ed al nostro fare, assediati come siamo da macchine "intelligenti" che ci rendono ogni giorno più stupidi ed inutili, più dipendenti in ogni gesto da un apparato tecnologico che non potremo mai comprendere né controllare. Torino è il crocevia di un mondo che si sta decomponendo e che ci costringe a fuggire dalle mille catastrofi provocate dai padroni in giro per il pianeta. Che si scappi dal deserto o dalla guerra, dalla povertà o dalla dittatura, o che si sia nati dal suo ventre, Torino è il capolinea di un viaggio forzato attraverso la modernità.
**Torino è la città che ci vuole fare nemici,** che vuole scagliarci l'uno contro l'altro. Arabi contro albanesi, nigeriani contro slavi, italiani contro tutti - a scaricarci addosso il rancore per delle vite sempre più precarie e spossessate.
**Ma Torino è anche una possibilità aperta** che parla la lingua universale dell'odio verso i responsabili concreti della nostra oppressione, verso chi ci ha reso ovunque stranieri. E sarà proprio questo odio comune ad unirci, a parlarci di fratellanza, a determinare un incontro tra sconosciuti che sia festoso come quello di vecchi compagni che si ritrovano dopo un lungo viaggio attorno al mondo.
**Con tutte le parole dell’odio,** con tutte le parole dell'amore. Eccoci a Torino, dunque, partiamo.*
**Una domenica a Porta Palazzo**
Porto Palazzo, una domenica mattina come tante: la polizia ad ogni angolo, i controlli e i fermi a danno di chi cerca fra le piccole vie laterali uno spazio di sopravvivenza, il consueto echeggiare della sirena che ci ricorda che dobbiamo guardare in basso, che essere poveri è il peggiore dei crimini.
Solo che, a guardarla bene, questa mattina ha qualcosa di particolare. In un angolo alcuni uomini e alcune donne si stanno radunando, discutono, agitano bandiere e, d'improvviso, i megafoni cominciano a dirci qualcosa.
Molte voci si susseguono e di colpo portano nelle nostre strade la realtà, in tutta la sua spietatezza: a Kabul stanno bombardando e sotto le rovine i corpi dei poveri, nostri fratelli, ci gridano che tutto questo è anche affar nostro. Mani alzate verso il cielo di Torino, quella domenica mattina, si sono unite ad altre mani nel mondo ad invocare o a pretendere la fine del massacro in Afghanistan, subito.
Una semplice manifestazione, indetta da un semplice imam, per dire che l'Islam non è sinonimo di morte, per dire che i caccia e i missili americani, questi sì, sono la morte.
Noi quella mattina eravamo lì, non perché condividessimo a priori le parole d'ordine dei promotori, ma per portare il nostro contributo alla lotta degli sfruttati, di Torino come di Kabul.
I giorni successivi abbiamo letto, senza grosso stupore, che quella domenica a Porta Palazzo si era svolta una manifestazione a favore del "terrorismo". Abbiamo letto che gli oratori, in particolare l'imam, erano apologi della strage dell’11 settembre. Noi eravamo lì ad ascoltarli, questi oratori, e non ce n'eravamo accorti...
Possiamo confermare che i media, rispetto alla faccenda, hanno detto e scritto un mucchio di menzogne: non è comunque la becera pratica giornalistica, ormai arcinota, che ci interessa criticare qui. La nostra urgenza non è nemmeno esprimerci rispetto alle parole dell'imam o degli altri partecipanti, per noi sin troppo concilianti con le istituzioni complici del massacro afghano. Il fulcro della questione è leggere, anche in questi piccoli episodi, quali basi i padroni stiano gettando per fortificare la guerra civile di già in atto ovunque: povero contro povero per il privilegio dei ricchi, questo vogliono.
Vedete, noi siamo persone semplici, e da persone semplici pensiamo che *i nemici* siano coloro che ti fanno vivere male. Ne consegue che i nemici dei poveri siano i ricchi, gli sfruttatori, e che al contrario i nemici dei ricchi siano i poveri che non si vogliono far sfruttare. Qualunque guerra che sfugga a questa evidenza nasconde un imbroglio: così, i nostri politici raccontano che ogni conflitto è combattuto per il *bene comune*, verso un nemico contro il quale tutti dobbiamo stringerci e, nel frattempo, trasformano in *nemico di tutti* coloro che sono loro scomodi o, più semplicemente, di troppo rispetto alle esigenze padronali.
In questi giorni dal pulpito governativo, e non solo, vengono parole di pace verso l'Islam e ci si sbraccia a dichiarare che l'impegno dello Stato è rigorosamente contro il "terrorismo". Ma coloro che ci dicono queste parole sono gli stessi che ci sussurrano all'orecchio che ogni musulmano è potenzialmente un criminale, un fiancheggiatore di stragisti, un "terrorista". E' sempre lo stesso carosello, sono le stesse menzogne di ieri.
Le abbiamo sentite per anni, queste menzogne, nelle dichiarazioni dei vari Borghezio contro gli immigrati; le abbiamo annusate nelle parole di "tolleranza" dei D’Alema che hanno accompagnato la costruzione dei Lager per clandestini, le abbiamo scoperte nelle separazioni, fatte da preti e rappresentanti di ogni credo e colore, fra migranti regolari - quindi onesti - e clandestini, sicuramente criminali. Sono evidenti oggi, dopo quella domenica a Porta Palazzo, nelle intenzioni del sindaco Chiamparino di dividere non soltanto gli immigrati dagli italiani e i regolari dai clandestini ma, anche, la comunità musulmana al suo interno, fra i buoni che aspirano all'integrazione e i cattivi, fondamentalisti seguaci dell'imam Bouchta.
Così il grande bracere dell'odio è stato attizzato e, fra il plauso della così detta "opinione pubblica", la polizia ha iniziato la caccia alle streghe. In Piazza della Repubblica, dopo quattro giorni di retate ai danni degli immigrati, si torna a respirare l'aria pesante di un passato vergognoso.
Il vanto del sindaco, della polizia e dei "comitati spontanei" per la brillante operazione che ha condotto decine di persone prive di documenti nei campi di concentramento - definiti centri di permanenza temporanea - non dovrebbe lasciarci dubbi sulla impossibilità, per i poveri, di intrattenere qualunque forma di rapporto, se non quello dello scontro, con le classi dominanti.
Non esistono clandestini e regolari, musulmani e infedeli, operai e disoccupati ma solo uomini e donne calpestati nella dignità, sfruttati e rinchiusi, costretti a scappare e uccisi. Poveri, uniti dallo stesso sfruttamento e forse, un giorno, uniti nella lotta: questo temono i potenti, per questo su mille altre "domeniche a Porta Palazzo" ancora, *loro*, cercheranno di dividerci.
**La modernità, in poche parole**
Basta sfogliare un quotidiano qualsiasi per sbalordirsi di fronte alla quantità di incidenti sul lavoro, in cantiere come in fabbrica. Dall'operaio di Pragelato morto precipitando da un carrello, a quello di Lanzo, salvatosi miracolosamente dopo che 15 mila volt gli hanno attraversato il corpo mentre era al comando di una gru, all'impiegato di una cartiera di Ciriè dove pochi secondi lo hanno separato dal perdere un braccio, divorato dagli ingranaggi di una ribobinatrice.
L'evidenza è ancora più eclatante se si pensa che incidenti di questo tipo accadono nel XXI secolo - adesso -, non agli albori della società industriale. E se si continua a riflettere, non può non colpire il fatto che tutto ciò succeda nella sola provincia di Torino - qui - e non in un paese dove, ad uccidere, prima del lavoro, ci pensano fame e povertà.
I fatti non permettono scappatoie: se è il tuo destino, muori o ne esci disabile, se ti va bene te la cavi con qualche mese di convalescenza. Se la parola *sicurezza* è ormai un luogo comune della nostra società, sia per chi la pretende sia per chi si arroga il diritto di imporla, non lo è per chi, di lavoro, muore.
L' aumento di incidenti sul lavoro in questi ultimi anni è stato causato, tra l'altro, dall'introduzione massiccia dell'automazione nei processi produttivi. Le operazioni elementari che richiedono le macchine per funzionare hanno reso superfluo l'accumulo di quelle capacità e di quelle esperienze specifiche che spesso salvavano la vita - oltre a fare l'orgoglio di tutta un'esistenza.
Con la richiesta di operai generici e non più di operai qualificati, la nuova produzione apre le porte alla corsa alla flessibilità: meno l'operaio è specializzato e più è *intercambiabile*, sostituibile con un altro altrettanto nuovo del mestiere. Ed essendo intercambiabile ha meno possibilità di organizzarsi e di imporre ai padroni una maggiore sicurezza. Chi avrà il coraggio di opporsi alle condizioni in cui è costretto a lavorare, se sulla sua vita penderà costantemente il ricatto della disoccupazione?
Una situazione ancora più precaria e meno garantita vivono gli sfruttati assoldati dalle agenzie di lavoro interinale le quali, non solo propongono dei contratti a brevissima scadenza, ma possono anche funzionare da filtro per le persone indesiderate.
Questi semplici ragionamenti ci mostrano, al di là di ogni illusione sulla bontà della tecnica e del progresso, quale sia il volto della modernità. Questo è ciò che ci aspetta.