Teresa Macrì, Il corpo postorganico
[Da "Canenero" - settimanale anarchico, n. 45, 17 gennaio 1997]
Teresa Macrì, Il corpo postorganico
(Costa e Nolan, Milano-Genova 1996)
Il sogno di molti artisti, da Hölderlin in poi, è stato quello di distruggere la distanza che separa l'arte dalla vita, il sogno dalla realtà. Molti tentativi sono stati fatti in questo senso, dalla scrittura automatica dei surrealisti agli oggetti della quotidianità trasformati da Duchamp, dai quadri utilizzati come barricate dall'I.S. al teatro di strada del Living theatre. L'accademia è quasi sempre riuscita a recuperare anche le intuizioni più geniali, sia per un suo vizio congenito, sia perché l'attacco non è mai stato portato sino alla radice, non dissolvendo cioè l'arte nella vita ma cristallizzando il movimento nella forma dell'avanguardia artistica.
Questo libro parla di quel sogno, di quel che oggi è diventato. Alcuni artisti, sul finire degli anni settanta, avevano iniziato a sperimentare i rischi e gli oltraggi che il corpo può subire. Niente di eccezionale per dire la verità, più che altro la voglia di scioccare se stessi e gli altri con ferite da taglio e anche d'arma da fuoco. Tutto
naturalmente in un ambito controllato che ben poco spazio lasciava alla possibilità che la performance si tramutasse in qualcosa di completamente diverso, limitandosi a ribadirla. Ma all'autrice tutto ciò serve come prefazione per farci mettere a nostro agio ed introdurci nel mondo dei nuovi performer: di Orlan, di Sterlac, di Marcel Li Antunez Roca, verso i quali si protende con odi disperate. Per ognuno di loro il corpo è massa vuota in cui immettere o da cui espellere informazioni, come un terminale di qualsiasi elaboratore, come un “sito” di Internet. L'io, configurazione astratta, pensa il corpo, pensa a come lo vuole. I nervi, la carne e il sangue devono perdere consistenza per non opprimere l'io che può rimodellare con innesti tecnologici e plasmare un corpo che, in quanto vuoto ricettacolo, non ha più niente da comunicare, non ha più la capacità di insorgere e sovvertire.
Orlan, che in scena si fa tagliare e ricucire da un'équipe di chirurgi plastici, sorridendo ai fotografi ed al pubblico pagante rivendica pienamente la sua obbedienza alla dittatura del modello, anche se antiestetico, anche se non corrispondente agli schemi imposti dal capitale. Insieme a Sterlac, che arriva a far comandare il proprio corpo da un satellite in orbita, non si limitano a rappresentare la tendenza del nostro tempo, miseramente la vivono, vivono di una volontà rimbambita ed impotente che non può e non deve dispiegarsi se non con l'aiuto indispensabile dei tecnici e dei loro strumenti.
Siamo lontani dalla paura che rende immobili le membra ma che possiamo affrontare, dall'odio che arma le mani ed i cuori, dalla gioia di correre in un prato con le lucciole — la bocca ansimante, le gambe dolenti — così come siamo lontani dalle torture in una questura, dalla bellezza e dalla bruttezza, da un lieve tocco che scuote ed irrompe scalfendo le nostre solide costruzioni.
Stiamo, invece, assomigliando sempre di più al disegno che di noi stanno facendo e che questi artisti si preparano a riempire col colore della propaganda.
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