RECENSIONE Gianfranco Bertoli, Storia di un terrorista. Un mistero italiano
[Da "Canenero" - settimanale anarchico, n. 35, 18 ottobre 1996]
Gianfranco Bertoli, Storia di un terrorista. Un mistero italiano
(Emotion/Tracce, Milano 1995, 80 pp.)
Vomitevole. Un'operazione davvero vomitevole, che mi ha portato dall'incredulità, al disgusto, alla rabbia. Di già il titolo e la perla del sottotitolo - degni di un libro di Enzo Biagi - per non parlare del ritratto di Bertoli in copertina, mi sembrano più che significativi.
Ma partiamo. Si comincia con la nota di un'azienda - che presumibilmente ha finanziato la stampa - la quale ci informa di produrre sedie per ufficio e di essere nello stesso tempo impegnata nell'aiuto verso “la parte più sfortunata e meno difesa della società”, perché si possa procedere, assieme a tutte le “persone con disagi”, verso “un mondo più giusto e più umano per tutti”. Si continua con una “nota del curatore” (Pino Bertelli) in cui subito si afferma che il libro “non è solo la storia di un terrorista, di un amico, di un compagno di strada...”, e di seguito - in un'unica pagina, a poche righe di distanza - si sostiene: prima, che “uccidere un Re non è
assassinare un uomo! ma liquidare un emblema di oppressione, di violenza, di rapacità...”; dopo che uccidere (chi, un re o un uomo qualsiasi?) è sempre “un abbassamento spirituale dell'amore”. Che colpire un responsabile del dominio e dello sfruttamento non sia uccidere un uomo, ma attaccare un simbolo, lo dicevano le Brigate Rosse. Che ogni uccisione (anche di un re?) sia un “abbassamento eccetera”, lo dice il Papa (il quale subito dopo difende la pena di morte). Ora, scritto da Bertelli, tutto questo non mi stupisce. Non mi stupisce perché più volte costui ha fatto sfoggio di truculenza “rivoluzionaria” (teste di padroni appese ai pali, oppure utilizzate come concime per la pianta della libertà) e allo stesso tempo ha scritto in favore di Cassola e della “rivoluzione disarmista”, attaccato con ferocia la religione, e insieme collaborato con i missionari, elogiato la rivolta contro la garrotta della giustizia e accolto articoli di magistrati sulle riviste di cui è redattore.
Fino ad ora pensavo fosse soltanto uno sciocco. Ora no, e per quanto spiacevole mi sembri, vi dirò tra un po' il perché. Ancora avanti, c'è una prefazione di Angelo Rizzo, uno dei responsabili - credo sia uno psicoterapeuta - del centro Interventi motivazionali Dardo. In essa si parla - a proposito del gesto di Bertoli - di “devianza”. Si dice che “il detenuto è e resta una persona, non solamente una violazione del codice penale” (non solamente, ma anche, e cioè il codice penale è necessario); che “dalla galera sono usciti anche dei presidenti” (quali, quelli la cui uccisione non sarebbe, per il compare Bertelli, un assassinio, bensì la liquidazione di un emblema di oppressione?); che “attraverso il carcere, un detenuto dovrebbe avere la possibilità di riscattarsi” (questo ormai non lo sostiene nemmeno il più imbecille dei garantisti).
Il libro procede con una autobiografia di Bertoli. Su quello che egli scrive non voglio, per mille ragioni, esprimermi. Sono valutazioni sue che non mi sento di commentare. Dico solo che mi sembra molto triste il fatto che lui stesso definisca “terroristico” il suo gesto, dopo aver scritto per anni, e giustamente, che terrorista è lo Stato e chiunque vuole conquistare e mantenere il potere - non chi vuole opporsi all'autorità con la rivolta e con la forza, per quanto tragiche (e quindi erronee, e quindi dolorose) possano essere le conseguenze delle sue azioni. Nemmeno la bomba al teatro Diana fu terroristica. Nessun errore e nessuna leggerezza, per quanto lacerante sia il loro peso, possono portare un anarchico ad accogliere le ragioni (in questo caso il concetto di terrorismo) dei padroni del terrore.
Dulcis in fundo, il testo si conclude con una postfazione del dottor Rinaldo Merani, magistrato di sorveglianza. Proprio così. Costui, dopo essersi chiesto come mai ci sono individui i quali si trovano meglio in carcere che fuori (il che, evidentemente, la dice lunga sulla natura di questa società di cui il magistrato progressista è guardiano), afferma che per cambiare c'è bisogno del contributo di tutti. Anche di Bertoli, “che pure si era lasciato scivolare così lontano”. Di tutti - aggiungo io - anche della cara azienda che produce sedie per ufficio.
Lasciando perdere Angelo Rizzo, che per il lavoro che svolge è un vero e proprio poliziotto sociale, come mai Bertelli, cioè un libertario, uno che si definisce “compagno” e continua a collaborare con la stampa anarchica, si è prestato ad una simile operazione? Perché dà in pasto un anarchico, un uomo offeso e provato, a recuperatori e giudici, a giornalisti e taumaturghi da quattro soldi? Per immagine, per una piccina carriera o cos'altro? Perché una tale scelta l'ha fatta una casa editrice “radicale” come Tracce? Non lo so.
Certo è soltanto che il libro e ciò che ci sta dietro (magistrati e imprenditori, giornalisti e “gruppi d'autoaiuto”) è meschino e canagliesco.
Forse non si tratta di sciocchi. Ma di sciacalli.
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