Introduzione

Anche soltanto per vedere bisogna riuscire a togliersi dagli occhi la sabbia che di continuo vi sparge il presente.

Hugo Von Hofmannsthal


Sabbia. Ecco cosa offusca la nostra vista, facendoci vivere in una fantasmagoria in cui tutto sembra vivo e nulla è reale. Ci perdiamo in un rapido alternarsi di immagini stranamente vivide e attraenti, facendoci trasportare dal loro potere ipnotico. Quella che dobbiamo raccontare non è forse una storia di fantasmi, di ombre scambiate per prede, di specchi deformanti considerati occhiali della verità? E lo è stata fin dall’inizio.

Pensiamo al neoliberismo contro cui lanciano i propri strali le anime belle della sinistra. Anziché criticare l’organizzazione sociale che riduce l’essere umano a merce e pone l’universo e la vita agli ordini dell’economia, ci si lamenta per un dettaglio della sua politica. In sé il neoliberismo non fa altro che abbattere le frontiere nazionali per facilitare l’espansione planetaria del mercato. Battersi per mantenere queste frontiere significa battersi per un capitalismo su scala ridotta, un capitalismo locale, possibilmente dal volto umano, dove la classe dominante indigena non venga scavalcata da quella transnazionale. Come a dire, abbasso le multinazionali straniere perché fanno chiudere le piccole e medie imprese nostrane. È solo questo che desideriamo, consumare merci prodotte sotto casa?

E che dire dei vertici dei potenti della Terra? Appuntamenti mediatici, in cui nulla di concreto viene stabilito giacché chi vi partecipa si limita a formalizzare e a rendere pubbliche decisioni già prese altrove. Il loro susseguirsi nello spazio e nel tempo è solo l’ipocrita risposta alle domande di trasparenza e di eguaglianza che si alzano da più parti. Come se, incontrandosi spesso e dappertutto, i «nostri» rappresentanti intendano dimostrare che non esiste nessuna politica prestabilita, nessun centro direttivo, che tutto è sempre aperto: basta mettersi in fila, farsi avanti e discutere civilmente. Laddove è noto da tempo che non è più questione di se, ma solo di quando e come.

La stessa evanescenza affligge anche i controvertici, in tutte le loro manifestazioni. Dopo lo spettacolo dell’esercizio del potere, non poteva mancare lo spettacolo della contestazione al potere — magari sotto forma di invasione della «zona rossa». A questo ameno attivismo militante si dedicano i vari racket cattolici o di sinistra che seguono gli spostamenti dei capi di governo e dei loro ministri come il cane segue il proprio padrone, cercando in tutti i modi di attirarne l’attenzione. Come se il dominio non fosse espressione dei rapporti sociali ma dipendesse dalla volontà di otto uomini di Stato, su cui occorre per questo esercitare una certa pressione. Come se bastasse sedere a quel tavolo, o farci finire sopra la relazione giusta, per porre fine allo sfruttamento e all’insensatezza dell’esistenza umana.

E un fantasma è stato anche il Black Bloc, una volta finito nelle mani della rappresentazione mediatica. Nato su ispirazione delle lotte degli anni Settanta in Germania e venuto alla ribalta a Seattle nel 1999, è stato reimportato qui in Europa e presentato come ultimo grido in materia di radicalità. Ma, se negli Stati Uniti i rivoltosi nerovestiti avevano costituito in effetti una frattura nella tradizione locale della pacifica contestazione radical-chic, qui in Europa sono diventati, grazie ai media, una moda, una parodia, frutto di quella odiosa abitudine di catalogare ed etichettare per meglio controllare, nonché un fatto di folclore — con tanto di tamburini e sbandieratori che si sono esibiti per la gioia dei teleobiettivi di tutto il mondo. Una certa atletica tattica di strada non può che suscitare simpatia, ma se viene presentata come progetto radicale sovversivo non possiamo fare a meno di avvertirne la miseria.

Ad ogni modo la lanterna magica da cui ridondano tutte queste immagini, sgargianti nella loro inconsistenza, si trovava qui in Italia tre anni fa in occasione del G8 e dalle sue proiezioni non ci si aspettava granché, tanto il canovaccio sembrava scontato. Se non fosse stato che... a furia di rappresentarla, simularla, demonizzarla, la rivolta si è scatenata davvero per le strade di Genova, quel venerdì 20 di luglio. Una rivolta furiosa che ha saputo resistere per ore alle cariche della repressione, ma che ha ceduto in fretta sotto i colpi del chiacchiericcio mediatico, del commento sociologico, del distinguo militante, dell’inquisizione poliziesca. Sepolta sotto una montagna di sabbia, la sabbia del presente.

È ora di cominciare a pulirsi gli occhi.


Dopo gli Stati Uniti, la Svizzera, la Cecoslovacchia, la Francia, la Svezia, spettava all’Italia ospitare il raduno dei politici più potenti del mondo e dei loro pseudo oppositori. Per il governo Berlusconi, da poco in carica, si trattava del primo grande impegno internazionale. Tutto doveva filare alla perfezione, nulla poteva essere trascurato. I bellicosi proclami dei contestatori da avanspettacolo furono enfatizzati dalla stampa assieme alla probabile minaccia del "terrorismo internazionale". Anche se nessuno credeva davvero alle parole dell’autonominatosi tribuno del popolo Casarini, la cui retorica pseudo guerrigliera faceva scorrere più lacrime di risate che brividi di paura; anche se nessuno credeva sul serio a possibili incursioni di kamikaze arabi; il clima si era fatto rovente. Il governo, in cui per la prima volta la destra più reazionaria aveva un ruolo predominante, probabilmente su indicazione stessa dei suoi imminenti potenti ospiti, decise di dare una volta per tutte il buon esempio e affrontò la questione prendendo misure marziali. Già nei vertici precedenti avevamo assistito ad un progressivo incremento della repressione che aveva raggiunto il culmine a Göteborg, nella "civilissima" Svezia, quando un manifestante era stato colpito alle spalle dal fuoco della polizia. Nell’Italia di Berlusconi, Fini e Bossi, una città come Genova è stata messa in ginocchio attraverso una militarizzazione del territorio senza precedenti: strade chiuse e blindate con grate alte cinque metri, l’intera circolazione stradale ridisegnata, i tombini precauzionalmente saldati... e non sono mancati provvedimenti più comici (via le mutande e i calzini dai balconi!). Molti abitanti esasperati lasciarono la città, che assunse le lugubri sembianze di un enorme campo di concentramento. Ventimila uomini di tutti i corpi armati dello Stato confluirono nel capoluogo ligure per pattugliarlo. Vennero istituiti posti di blocco, ordinati sacchi dove rinchiudere eventuali morti, piazzati tiratori scelti sui tetti e sommozzatori in acqua. Fu predisposto un autentico centro di torture per prigionieri a Bolzaneto, la cui gestione venne assegnata ai gentiluomini della squadra speciale antisommossa carceraria (il GOM). Mentre il compito di garantire l’ordine pubblico fu affidato principalmente all’Arma dei carabinieri, i quali formarono per l’occasione i CCIR (contingenti carabinieri a intervento risolutivo), costituiti da militari diretti da ufficiali del corpo d’elite «Tuscania», già attivi in Somalia, in Bosnia, in Albania.

Da parte dello Stato non ci preparava a contenere una contestazione, ma ad affrontare una guerra. Non si trattava di controllare manifestanti, bensì di fare piazza pulita di nemici. A Genova lo Stato ha sperimentato per la prima volta in maniera così sistematica, esplicita, diffusa, contro la propria popolazione, la logica militare che presiede le missioni internazionali. A dimostrazione di come, in un mondo unificato dalla religione del denaro, la linea di demarcazione fra nemici esterni e nemici interni vada scomparendo. Dopo tutto, se la guerra viene considerata una operazione di polizia, una operazione di polizia può ben considerarsi una guerra.


Il campo di battaglia previsto era quello che si snodava attorno alla «zona rossa». È qui, sotto i cancelli e le staccionate eretti a protezione della sede del vertice, che si attendevano gli assalti dei manifestanti. È qui che i capetti della contestazione mediata e mediatica hanno chiamato a raccolta le loro truppe cammellate. È qui che si sono concentrati anche i cani da guardia del dominio per respingere la pressione dei sudditi scontenti venuti ad elemosinare i propri illusori diritti. Tutto sembrava pronto. Una moltitudine di rispettosi cittadini che grida le proprie ragioni, le forze dell’ordine assoldate per respingerle, la scaramuccia concordata a tavolino per evocare ed esorcizzare lo spettro dello scontro, i giornalisti accorsi da tutto il mondo, gli applausi finali perché alla fine tutto doveva svolgersi tranquillamente, vertice e controvertice. Nulla di tutto ciò si è verificato. Da parte delle istituzioni non c’era una reale intenzione di evitare lo scontro, quanto la precisa volontà di dare una lezione indimenticabile agli ingrati consumatori del benessere occidentale; da parte del movimento, di una parte di esso, c’era chi preferiva essere protagonista di una ribellione esplicita contro i cosiddetti Signori della Terra piuttosto che fare lo spettatore o la comparsa di un’agitata sceneggiata a beneficio dei mass media. Così, attorno alla «zona rossa» i rivoltosi non si faranno vedere, preferendo disertare lo scontro virtuale concordato con le istituzioni per andare a cercare lo scontro reale, quello senza mediazioni. Parecchie centinaia di nemici di questo mondo, assai diversi fra loro, senza capi né gregari, senza testa né coda, decisero di rifiutare l’appuntamento prestabilito con la politica per recarsi a quello al buio con i propri desideri. Pur essendosi presentati nella città e nella data stabilite dall’agenda istituzionale, andranno dove non erano attesi. Anziché lanciarsi a testa bassa verso un supposto cuore del dominio preferiranno muoversi altrove, ben sapendo che il dominio non possiede alcun cuore perché si trova dappertutto. Gli spazi fisici dove si pratica il culto del denaro, dove aleggia il fetore della merce, dove si ode la menzogna del commercio — e non i meri «simboli» del capitalismo, come preteso dalla sinistra vulgata degli adoratori dell’esistente — subiranno la critica pratica dell’azione: le banche saranno prese d’assalto, i supermercati saccheggiati, i negozi attaccati.



Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come la propria città:[…] propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

Furio Jesi


Nel loro procedere, con il passare delle ore e il montare della rivolta, i flussi dei rivoltosi si trasformavano quanto a composizione (passanti e curiosi si univano ad essi) trasformando l’ambiente circostante. Dopo il loro passaggio, nulla era più come prima. Le auto, da scatole mobili che trasportano i lavoratori alla loro condanna quotidiana, diventarono giocattoli con cui divertirsi e barricate con cui fermare la polizia. Le sirene pubblicitarie furono mese a tacere. Gli occhi elettronici vennero accecati. I giornalisti vennero allontanati. I saccheggi trasformarono le merci da pagare appannaggio di pochi in beni gratuiti a disposizione di tutti. Attraverso scritte colorate le mura si liberarono del loro sconfortante grigiore. Le strade, i cantieri, i palazzi furono usati come arsenali. L’urbanistica, modellata sulle esigenze dell’economia e perfezionata dagli imperativi del controllo, si sciolse sotto il fuoco della sommossa. In tutti questi atti i rivoltosi ritrovarono l’autentica abbondanza, quella che non viene né contemplata in astratto, né scambiata contro l’umiliazione del lavoro. Molte volte si scontrarono con le forze dell’ordine, non di rado seppero evitarle. Come sempre accade in ogni momento di rottura con l’esistente, l’euforia cominciò a dilagare ed il buon senso smise d’essere moneta corrente. Ben presto l’impossibile diventò possibile: il carcere di Marassi, in buona parte svuotato per lasciare spazio ad eventuali arrestati, venne attaccato. Stessa sorte toccò ad una caserma dei carabinieri. Da parte loro, gli uomini in divisa dispiegarono tutta la violenza di cui erano capaci. Chi ha accusato i rivoltosi nerovestiti di aver provocato la repressione farebbe meglio a prendere atto che fin dall’inizio le cariche furono indiscriminate e travolsero chiunque, coinvolgendo spesso e volentieri pacifici manifestanti. Ciò significa che l’operato di polizia e carabinieri era già stato previsto ed organizzato, come forma preventiva di dissuasione nei confronti di tutti. Non fu affatto il risultato di un eccesso di zelo, di troppo nervosismo o di inesperienza, ma fu il vero volto del terrorismo di Stato che si scatenò senza freni, lanciando a folle velocità i suoi veicoli blindati contro i manifestanti inermi. Sotto un diluvio di lacrimogeni sparati perfino dagli elicotteri, le strade cominciarono a coprirsi del sangue di centinaia e centinaia di manifestanti. Fu proprio questo a determinare il dilagare generalizzato della rivolta. Fino a quel momento le devastazioni dei rivoltosi non erano andate molto più in là di quanto già accaduto nelle occasioni precedenti, la prevista azione diretta ad opera di qualche centinaio di compagni che approfittavano della situazione. Ma proprio ciò che avrebbe dovuto fermarla, l’intervento poliziesco, finì per alimentarla. La brutalità degli uomini in divisa portò infatti ad una sollevazione generale. Nel giro di poco tempo, migliaia di manifestanti fino a quel momento pacifici si unirono ai rivoltosi e iniziarono a battersi contro la sbirraglia. Armati solo della loro rabbia si lanciarono in una guerriglia disperata. Fra gli stessi militanti dei racket politici i cui capi invitavano alla calma, alla moderazione e alla non-violenza, ci furono molte insubordinazioni. L’ideologia della disobbedienza conobbe i suoi primi disobbedienti. Di fronte alla ferocia della repressione, non c’era ordine di partito che potesse tenere. Gli scontri con le forze dell’ordine si moltiplicarono, dappertutto giungevano manifestanti non solo nerovestiti pronti a scagliarsi contro la sbirraglia, e fu durante uno di questi scontri che venne abbattuto Carlo Giuliani. Non era un «black bloc». Non era un anarchico. Non era un provocatore. Non era un infiltrato. Era solo un giovane che aveva reagito alla violenza dello Stato. Non uno dei pochi, ma uno dei tanti. Ed è bene chiarire questo aspetto. Nei giorni successivi, tutti i politici in carriera che infestano il movimento presero inizialmente le distanze da quanto accaduto, accusando i rivoltosi di essere un pugno di "provocatori" e "infiltrati" che con le loro azioni avevano sabotato intenzionalmente un grande appuntamento pacifico, facendo perdere un’occasione storica per essere ascoltati. Tutta la canea socialdemocratica — la stessa che fino ad allora aveva sollevato tanta polvere e rumore e che per questo credeva d’essere il carro della storia — riversò loro addosso un mare di calunnie, rinverdendo la vecchia tradizione stalinista della "caccia agli untorelli". Fu questo un modo di sfogare il proprio rancore contro chi aveva deciso di sfuggire al loro controllo, rivelando a tutti la falsità della loro pretesa autorevolezza. E fu un modo di chiudere gli occhi di fronte alla fine del loro progetto politico, la cui vanagloriosa inconsistenza è apparsa alla fine di quelle giornate in tutta la sua miseria, cercando pateticamente di rilanciarlo.

In realtà i rivoltosi che a Genova si batterono contro le forze del vecchio mondo furono davvero numerosi. Anarchici, ma non solo. Nerovestiti, ma non solo. Stranieri, ma non solo. Il sapore della libertà non conosce limiti, etichette, uniformi o confini. E chi tanto si è indignato che centinaia di compagni si fossero recati a Genova con l’intenzione di scatenare una sommossa, dandosi un minimo di preparazione in tal senso e cercando di evitare la trappola dello scontro diretto con la polizia, dovrebbe riflettere maggiormente su chi ha eccitato gli animi per mesi promettendo assalti e invasioni senza avere l’intenzione di realizzarli, senza curarsi minimamente delle possibili conseguenze, su chi ha alzato al cielo le bianche mani della non-violenza, in segno di resa e non di dignità, contribuendo a mandare allo sbaraglio migliaia di manifestanti inermi.



Non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo.

Niccolò Machiavelli


Pur essendo, com’è noto, allievi di Toni Negri, non si può dire che Casarini e gli altri capibastone della mafia disobbediente abbiano seguito il saggio consiglio di Machiavelli. Dopo i «successi» mediatici ottenuti nei mesi precedenti con gli scontri concordati con la polizia, dopo una puntuale presenza in tutte le manifestazioni internazionali, indispensabile per farsi legittimare come punto di riferimento, dopo un iniziale ipocrita sostegno strategico al «black bloc» (quando si va all’estero, si sa, ogni licenza è permessa), le Tute Bianche pensavano di raccogliere a Genova il frutto di tanto lavoro. Forti del fatto di giocare in casa, con trattative già andate in porto col questore Colucci, pensavano che anche questa volta sarebbe bastato offrire una valvola di sfogo virtuale alla rabbia dei contestatori per evitare ogni forma di violenza incontrollata. In più la loro prevista «invasione» della zona rossa, che doveva avvenire naturalmente sotto i riflettori dei giornalisti di tutto il mondo, doveva servire a consacrarle alla testa del movimento. Avidi teleconsumatori, anche i Disobbedienti pensano che l’immagine conti più della cosa, che solo ciò che compare sullo schermo esista davvero, che i media siano il luogo dove si manifesta la realtà. Come potrebbe essere altrimenti? La loro fama è interamente legata al numero di passaggi televisivi che riescono a strappare, alle interviste che riescono a rilasciare, alle prime pagine che riescono ad ottenere. E per montare un buon numero di spettacolo, capace di far alzare gli indici di ascolto, tutto è lecito, tutto è manipolabile: dal passamontagna di Marcos all’acqua benedetta di Don Vitaliano. Questi buffoni di corte si sono presentati a Genova carichi di plexiglas e di speranze nelle luci della ribalta. Ma dopo poco più di un’ora dalla partenza del corteo, i loro buoni propositi si sono infranti. Se nell’incrociare la prima carcassa d’auto bruciata, i leader delle tutine esortavano ancora i giornalisti al loro seguito a non confonderli con i "violenti", se i fumi che si alzavano in lontananza erano ancora abbastanza distanti da poter essere ignorati, la carica dei carabinieri in via Tolemaide mise fine alla simulazione. Perché, questa volta, gli sbirri caricavano sul serio! Sordi agli appelli dei loro capetti che li invitavano a desistere, a non reagire, molti Disobbedienti iniziarono a battersi contro gli uomini in divisa, con l’aiuto di altri manifestanti accorsi per fronteggiare chi li stava attaccando. È proprio riconoscendo nel momento dell’attacco il nemico comune che i rivoltosi si riconoscono immediatamente fra di loro, rompendo l’isolamento della "folla solitaria", poiché la rottura con la noia e l’angoscia della sopravvivenza ha il merito di svelare gli individui a se stessi e agli altri. Poco importa quali motivi contingenti abbiano prodotto una simile situazione. Resta il fatto che quel venerdì 20 luglio per alcune ore non ci furono più violenti o non-violenti, uomini o donne, socialdemocratici o anarchici, militanti o gente comune, geometri o disoccupati, ma solo individui in rivolta contro i cani da guardia dell’esistente e la vita che viene imposta.

Il giorno successivo, sabato 21 luglio, i calcoli politici e la paura presero il sopravvento sulla rabbia. I vari racket politici militanti si organizzarono per allontanare ed esorcizzare il loro vero nemico: tutti gli incontrollabili che avevano fatto fallire miseramente i loro piani. A sera, come è noto, scatterà da parte di una polizia scatenata nella sua assoluta certezza di impunità l’attacco alla scuola Diaz, sede momentanea del Social Forum, dove tutti i presenti verranno massacrati dagli agenti inferociti. Un’azione apparentemente incomprensibile, perché fra gli altri ha colpito anche alcuni dei migliori alleati della polizia che per tutto il giorno si erano distinti nella loro opera di delazione. In realtà, anche questo episodio si inserisce perfettamente nella logica militare che aveva governato l’operato delle forze dell’ordine. La guerra spietata ai manifestanti — oltre ai continui rastrellamenti per le vie della città, ai pestaggi indiscriminati, alle torture ed umiliazioni inflitte per lunghissime ore agli arrestati — non poteva fare a meno della vendetta contro chi si era dimostrato incapace di poter controllare la piazza come promesso. La prova di forza del governo italiano doveva essere data fino in fondo.


Finita la rivolta, è iniziato il suo commentario da parte di giornalisti, specialisti, periti. E più aumentavano le testimonianze e le interpretazioni di quanto avvenuto, più diminuiva la sua cristallina chiarezza. La rivolta di Genova, nella sua viva totalità, è stata sezionata e smembrata in tante piccole particelle. La burocrazia del dettaglio ha spazzato via l’immediatezza del significato.

Un esempio per tutti, l’inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani. Chi ha sparato? Con quale arma? Da quale distanza? Quanti colpi? Il defender era davvero isolato rispetto agli altri carabinieri? Ma ne siamo sicuri? Rivediamo le immagini, rimisuriamo le distanze, rileggiamo i rapporti... una, due, tre, infinite volte, tante quanto basta per assordare le orecchie, chiudere gli occhi, sfinire il cervello, annegare il fatto originario nell’alta marea del più insulso opinionismo. Fare in modo che non si rifletta più sulla morte di un giovane abbattuto durante una manifestazione di protesta, ma che ci si concentri sulla effettiva provenienza dell’estintore che aveva in mano. Questo stesso procedimento di banalizzazione è stato utilizzato anche per il resto, dalle torture inflitte a Bolzaneto all’irruzione notturna alla Diaz; tutto è stato sbriciolato e ridotto in polvere affinché nulla si potesse più vedere. Naturalmente questa poderosa opera di mistificazione è stata condotta nel nome della verità. La stessa verità che molti aspettano e pretendono si faccia largo nelle aule dei tribunali. Sono piovute denunce contro i massacratori e torturatori in divisa. Gli avvocati si sono mobilitati. Sono stati raccolti centinaia di video che dovrebbero infine mostrare cosa sia veramente accaduto. Sì, perché la rivolta di Genova è stato l’avvenimento più fotografato della storia. Sbirri da una parte, mediattivisti dall’altra, giornalisti in mezzo, tutti si sono lanciati in una folle gara per immortalare le azioni altrui. La rappresentazione, prima di tutto. Per i posteri. Perché si sappia. Perché qualcuno paghi. Perché la giustizia trionfi.

Eppure, tutti sanno cosa è veramente accaduto. È inciso in maniera indelebile nella memoria e nella carne di migliaia di manifestanti presenti. E proprio Genova ha dimostrato l’assoluta inutilità pratica, sovente la pericolosità, di macchine fotografiche e videocamere. A parte la polizia, che ne ha tratto profitto identificando e denunciando molti rivoltosi, compito che le è stato facilitato dall’onnipresenza di portatori di teleobiettivi, e a parte i giornalisti, che hanno incassato lo stipendio per il lavoro svolto, a cosa sono servite tutte quelle riprese? A che pro mostrare a tutto il mondo che il vicecapo della Digos di Genova, Alessandro Perugini, ha sferrato un calcio in pieno volto ad un ragazzo steso a terra immobilizzato dai suoi colleghi? Forse che costui, colto sul fatto, è stato poi messo in condizione di non ripetere più la sua impresa? Un tribunale lo ha condannato, è stato espulso dalla polizia e sostituito con un poliziotto beneducato e rispettoso della Costituzione? Niente affatto, anzi, con umorismo piuttosto macabro lo Stato ha nominato il signor Perugini rappresentante per l’Italia di una campagna internazionale contro la tortura nel mondo.

La convinzione che basti mostrare i soprusi del potere per metterlo in ginocchio è un’illusione ideologica, meritevole di sparire come tutte le ideologie. Erede diretto della vecchia controinformazione, il moderno mediattivismo coltiva una cieca fiducia più nelle virtù taumaturgiche dell’immagine che in quelle della parola. Ma entrambi si basano sul presupposto che, una volta rivelata la verità dei fatti, le menzogne della propaganda saranno infine messe a tacere. Chissà come sono rimasti male, quei poveri idealisti che credono nella luce che sconfigge le tenebre, alla notizia che osservando i filmati il perito della magistratura ha stabilito nientemeno che sarebbe stato un sasso lanciato da un manifestante a deviare il proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani. Lo dimostrerebbe uno sbuffo biancastro comparso repentinamente sopra la sua testa, un attimo prima della sua morte. È proprio vero che, in una immagine, ognuno può far vedere ciò che vuole. E in una competizione di immagini e chiacchiere, fra i media alternativi e quelli istituzionali, è inutile nascondere che a vincere saranno sempre i secondi.

Così come non c’è da attendersi nessuna verità da una immagine, allo stesso modo non possiamo aspettarci nessuna giustizia da un verdetto. Anche perché i tribunali sono istituzioni di quello stesso Stato che ha ordinato il massacro avvenuto a Genova. Perché mai i magistrati dovrebbero condannare uomini che sono abitualmente al loro servizio? Sbarazziamoci del pio luogo comune propiziatore di garanzie che pretende esista una differenza fra Stato di diritto e Stato di fatto, come fossero due entità che è necessario far coincidere per avere la giustizia. Lo Stato inventa il suo diritto e lo applica e modifica come meglio crede, ben sapendo che si tratta solo di carta straccia buona per gli allocchi. I torturatori che a Bolzaneto hanno strappato le carte di identità degli arrestati gridando "qui non avete diritti, siete nessuno", hanno solo espresso senza maschere la natura dello Stato, quello di cui sono i servi obbedienti e leali. Qualsiasi perizia, controinchiesta o verdetto, non potranno mai riconoscere questa banalità: che lo Stato a Genova ha mostrato il suo vero volto. Che non ne siamo affatto i cittadini, bensì i prigionieri. Che la nostra incolumità dipende dal nostro servilismo. Che chi si oppone ai voleri dello Stato è un nemico da eliminare. Non a caso, anche sull’onda della legislazione europea «antiterrorismo» proposta dopo gli attentati alle Torri gemelle, il contestatore che insorge in piazza è stato oramai assimilato al rivoluzionario che uccide un nemico, che a sua volta è stato assimilato al kamikaze che dirotta un aereo per farlo schiantare in mezzo a una città. Nel loro delirio di onnipotenza e nella loro isteria securitaria, gli Stati pongono a tutti un’alternativa secca: o si è fedeli sudditi, a cui al massimo è concesso di esprimere, a bassa voce e col dovuto rispetto, il proprio disaccordo; o si è terroristi destinati al macero e alla galera. O strisciare o crepare. Che si occupino spazi vuoti o si blocchino strade e treni, che si infrangano vetrine o si abbattano funzionari statali, poco importa: tutti questi atti saranno considerati terroristici, con tutto ciò che questo comporta. Definendo in tal modo chiunque non si assoggetti volontariamente, lo Stato intende celare la propria natura terroristica.

Ma i magistrati di Genova sono riusciti ad andare oltre: hanno introdotto il delitto di «compartecipazione psichica», secondo il quale non occorre più prendere parte ad una rivolta per finire nel mirino della repressione, basta essere presente ai fatti. Chi non vuole passare qualche guaio non deve solo astenersi dal lanciare pietre o spaccare vetrine, ma deve farsi poliziotto e controllare attivamente gli altri. Altrimenti può venir incriminato come complice. Ossequioso suddito e potenziale sbirro: ecco come deve essere, nelle fantasie di chi ci governa, il cittadino ideale del nuovo millennio.

Tutto ciò rischia di lanciare una luce inquietante sulle lotte che si apriranno nei prossimi anni, tuttavia potrebbe contribuire a liquidare un vecchio falso problema che attanaglia molte coscienze: quello sulla violenza /non-violenza. Ora è lo stesso Stato a dichiarare che a scatenare la repressione non è l’uso della violenza, come pretendono da sempre i placidi credenti in un miracolo emancipatore, ma sono sufficienti le motivazioni che animano i suoi oppositori. Ciò che è intollerabile è che si possa aspirare ad una vita radicalmente diversa, che lo si affermi e che ci si batta per questo. Stando così le cose, chi si può dire al di sopra d’ogni sospetto? Non ha alcun senso sbandierare il ricorso alla violenza come linea di demarcazione fra «compagni» e «provocatori»; se in passato ciò era stato fatto notare più volte da questo lato della barricata, oggi è lo stesso Stato a mettere le cose in chiaro. Ecco che allora l’uso della violenza torna ad essere ciò che è sempre stato: una scelta individuale, dettata dalle prospettive, dalle circostanze, dalle attitudini di chi la mette in pratica. Anche perché, se le ragioni della distruzione di questa società sono sotto gli occhi di tutti — e sotto gli occhi di tutti si trova quindi anche la necessità dell’uso della forza — quelle della sua conservazione, o anche della convivenza con essa, sono decisamente meno chiare. Chi può scagliare l’anatema contro coloro che a Genova hanno fatto strage di vetrine? Non certo chi ha fatto strage di ossa, di teste e di denti. Né chi si indigna per le aiuole calpestate e poi considera normali i morti sul lavoro. Ma nemmeno chi vuole invadere la «zona rossa» del privilegio partendo dalla «zona grigia» del collaborazionismo. Se chi attacca una banca è un provocatore infiltrato, come si può definire chi consiglia un ministro, discute con un parlamentare, contratta con un questore?


Solo l’11 settembre, con tutte le sue conseguenze, è riuscito a far trapassare il ricordo degli avvenimenti del luglio 2001 a Genova. Un sistema politico e sociale che aveva appena subìto dall’interno la più grande e violenta contestazione degli ultimi decenni non poteva che approfittare dell’attacco militare lanciatogli dall’esterno da alcuni suoi rancorosi collaboratori licenziati. Attraverso la martellante campagna mediatica "ground zero", orgoglioso simbolo di una civiltà vittima, ha preso rapidamente il posto di piazza Alimonda, imbarazzante simbolo di una civiltà carnefice, riuscendo a portare un po’ di tranquillità nell’oceano in tempesta delle ipocrite coscienze occidentali — il salutare attentato di Nassiriya è servito purtroppo da pretesto per completare l’opera, trasformando in martiri da onorare gli assassini e torturatori in divisa che tanto sangue avevano versato nella città ligure.

Eppure, quanto accaduto in quei giorni di luglio di tre anni fa è ancora lì, minaccioso nella sua incompiutezza. Talmente minaccioso che nel frattempo il suo significato non è stato solo eroso dalla ragione di Stato che ha imposto una guerra infinita, ma anche dalla calunnia, dalla mistificazione, dalla rimozione messe in atto da tutti coloro — in uniforme o in tuta — che dovevano garantire l’ordine e la sicurezza nelle strade genovesi, con i risultati che ben conosciamo.

Quegli avvenimenti sono stati definiti la fine delle illusioni. Più che di una fine, si è trattato di una pausa. Purtroppo. L’occasione di rompere la lanterna magica, che per un attimo è rimasta abbandonata a terra, è andata sprecata. Lo Stato può sempre contare su schiere di servitori pronti ad ammazzare e di elettori pronti a farsi ammazzare; ed oggi si appresta a presentare un conto salato per quegli attimi di libertà. Il circo della contestazione, che a Genova aveva perduto i suoi spettatori, ha continuato la sua tournée mondiale permettendo ai propri pagliacci di esibirsi ancora; ed oggi si prepara a perpetuare l’odiosa distinzione fra i buoni da salvare e i cattivi da condannare. Quanto ai rivoltosi, molti di loro sembrano ammutoliti in attesa di un altro giorno festivo strappato alla quotidianità del lavoro per manifestarsi.

La nostra strada, l’unica in grado di portarci in paesaggi fantastici e ad incontri segreti dove tutto può ancora accadere, non passa né dalle aule di tribunale né dagli studi mediatici. Il culto della giustizia e quello della verità non avranno le nostre attenzioni. Se ieri un appuntamento politico prettamente spettacolare è riuscito sotto l’incalzare degli avvenimenti a trasformarsi in una sommossa generalizzata, ciò non significa tenere d’occhio l’agenda del potere nella speranza di una replica. Più che ai periodici rituali della militanza, forse sarebbe il caso di guardare ai conflitti sociali che da più parti aprono brecce nel muro di cemento armato del consenso. Perché non si può aspettare che il calendario ci dica che è carnevale, il solo giorno in cui ogni scherzo vale, per accendere un fuoco allo scopo di sciogliere il ghiaccio sociale in cui siamo ibernati.

L'apparato

Per il vertice del G8, la città di Genova viene presa dall’Apparato come terreno per una gigantesca sperimentazione: verificare il grado di sottomissione dei suoi abitanti e testare, in un appuntamento fissato, nuove tecniche per sedare le possibili rivolte del futuro. Intendiamo per Apparato un insieme di dispositivi architettonici, di sistemi di controllo e di strategie poliziesche, come anche la rappresentazione mediatica finalizzata a fare accettare l’esistenza o la falsa critica di tutto ciò. Genova è contemporaneamente il teatro di un imponente gioco di ruolo al quale partecipano da un lato i "potenti" e dall’altro i "contestatori-riformatori" suddivisi in varie squadre. Come di regola, da un lato e dall’altro ci sono i re e i loro alfieri. Ben si comprende come già prima di luglio 2001 comincino i preparativi per quella che sarà la scacchiera dell’incontro-scontro. Anche a livello internazionale si possono osservare dei precedenti e molti sono i segnali che fanno pensare a una presa di posizione uniforme. L’Europa si mostra unita nell’opera di repressione di tutti i movimenti di protesta, riformisti e non, assorbendo quello che si può dai primi e isolando, colpendo gli altri. Ma Genova deve essere qualcosa di più: con il G8 si riassumono gli aspetti peggiori di due anni di repressione che da Praga va a Göteborg passando per Napoli.

La mano armata del potere si stende su Genova con tutti i suoi dispositivi di controllo, dispiegando un esercito dotato di mezzi per fronteggiare ogni evenienza, compresa la minaccia di coloro che saranno etichettati come "terroristi". Si potranno contare 20.000 pedine tra poliziotti, carabinieri e finanzieri, 3000 tra militari, paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri, incursori, sommozzatori e specialisti della guerra batteriologica, nucleare e chimica. Saranno predisposti cecchini sui tetti delle case del centro storico. Ogni vettura in dotazione alle forze di polizia sarà munita di apparecchiature satellitari. Tutte le forze dislocate sul territorio saranno coordinate da un’unica centrale operativa. I missili predisposti all’aereoporto rendono bene l’idea di come Genova si stia trasformando così in un ottimo terreno per una guerra preventiva. La città sarà monitorata 24 ore su 24 anche grazie all’installazione di decine di telecamere in diversi punti chiave, saranno raddoppiate le antenne per la telefonia mobile (il cui numero sale da 200 a 400).

Viene organizzato e finanziato persino un "battaglione sanitario": una task force (termine che in questi mesi verrà usato per qualsiasi tipo di iniziativa istituzionale) composta da esperti in grado di «intervenire in caso di una situazione di catastrofe che implichi una preparazione e un addestramento specifici». Vengono attrezzate 20 sale operatorie e messe a disposizione 180 ambulanze. Il costo dell’operazione supera i 4 miliardi di lire. Sempre in nome della sicurezza, a maggio vengono stanziati con un apposito decreto legge ulteriori fondi (21 miliardi di lire) per le delegazioni che interverranno al G8.

Nel periodo precedente il vertice, Genova e i suoi abitanti conoscono così una sorta di sperimentazione di uno stato marziale. La città viene divisa nel suo interno con la creazione della "zona rossa" – un perimetro di 3 km e 770 metri che coinvolge 13700 abitanti – e circondata a sua volta da una "zona gialla". Già a marzo si assiste a una prima schedatura di massa della popolazione del centro storico (3050 persone). L’Apparato con il suo tribunale armato giudica e divide le persone in terroristi, clandestini, violenti e oppositori da un lato, cittadini, funzionari, politici, portaborse e giornalisti dall’altro. Questi ultimi, giudicati i soli degni di abitare la città, saranno forniti di uno speciale pass da mostrare ai varchi per accedere alla zona rossa, status symbol di una promozione ottenuta. La città risulterà non solo divisa socialmente ma anche materialmente da reti metalliche come barriere, da check-point, da percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, il tutto accompagnato da una spudorata sospensione della "libera" circolazione.

La zona rossa viene a sua volta spartita tra polizia e carabinieri; la Digos e il Ros accerteranno se fra gli abitanti ci sono "contestatori violenti", clandestini o più in generale indesiderabili. All’indagine si unirà anche la Guardia di Finanza che accerterà la regolarità delle abitazioni, preludio e premessa tecnica per giustificare operazioni di rastrellamento, sgombero, deportazione ed espulsione. Già nei primi giorni di gennaio, vengono denunciati decine di rom che nei mesi precedenti avevano occupato una vasta area interna ad una fabbrica dismessa nella periferia genovese. Questa operazione segna l’inizio di un’imponente opera di "pulizia" e controllo e dà il via a un sempre più crescente attacco della questura nei confronti di immigrati regolari e clandestini, sia nella parte vecchia della città che nei quartieri decentrati come a Sampierdarena e Cornigliano. Identificazioni e fermi continuano a ritmo sostenuto per mesi. La situazione per gli immigrati si inasprisce sempre più; in particolare, la Lega Nord, oltre ad organizzare una manifestazione nel centro cittadino, partecipa in nome della "sicurezza" a una rete di sorveglianza insieme a Forza Italia e a varie associazioni ("Comitato Genova G8 Città Sicura").

Gli sgomberi e i rastrellamenti, per quanto numerosi, talvolta non vanno a buon fine perché le forze dell’ordine si trovano di fronte una determinazione inaspettata; esemplare in questo caso è l’occupazione di uno stabile del Lagaccio, quartiere situato a ridosso del centro cittadino.

Continua per i mesi precedenti il G8 la "pulizia" di quanti, non risultando funzionali all’evento, costituiscono un pericolo per l’ordine della città; nel giro di pochi mesi Genova dovrà essere rimessa a nuovo, sia dal punto di vista architettonico che sociale. In questo "abbellimento" generale per la creazione di una "scenografia" di proporzioni enormi, l’Apparato inaugura numerosi provvedimenti talvolta ridicoli, come il diffidare dallo stendere biancheria alle finestre del centro, e talaltra aberranti, come l’uso di cani anti-barbone nei pressi della stazione di Brignole. Il compito di salvaguardare dal "barbonaggio" e da atti di vandalismo il parco mezzi di Terralba viene affidato alle guardie giurate della Lince che agiscono per conto delle Ferrovie. Varie organizzazioni di volontariato cooperano con il Comune nella pulizia della "scacchiera" dell’evento, individuando destinazioni per la deportazione dei senzatetto (quasi duecento) da Genova. In questo contesto minaccioso, uno dei banchi di prova in vista del G8 è fornito dal Concistoro in Vaticano, in occasione del quale Roma viene blindata per la paura di attentati. L’intelligence ha la convinzione che in Italia integralisti islamici si stiano organizzando per sferrare attacchi e, più in generale, si fa di tutto per diffondere la paura della possibile presenza di elementi pericolosi. Franco Frattini (presidente del comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) il 2 marzo dichiara: «Esiste una rete internazionale per sabotare il G8, una rete che attraversa Italia, Francia e Germania. Gruppi di 15-20 persone di varia nazionalità si sono già incontrati a Nizza, Lione, Berlino, Monaco e Norimberga per preparare la guerriglia. In Italia il cuore organizzativo è il Veneto e il Trentino Alto Adige. A Genova controlliamo con attenzione l’Inmensa».

Il Sisde, attraverso la divulgazione di diverse informative, partecipa e contribuisce al costituirsi di questo clima, segnalando la presenza sul territorio «di coloro che non escludono il ricorso ad azioni di scontro o ad iniziative violente»; vengono ritenuti probabili «il danneggiamento e il sabotaggio anche simbolico di impianti e sedi di industrie del settore delle biotecnologie e della ricerca genetica». Sempre secondo il Sisde, fra i vari blocchi di manifestanti che ha individuato (rosa, giallo, blu e nero) quelli che destano maggiore preoccupazione sono «quello blu (Autonomia Operaia) e quello nero (una quarantina di gruppi anarchici)». Va aggiunto che il 12 giugno, davanti al palazzo della Regione, 400 operai dell'Ilva vengono caricati dalla celere durante un presidio contro i licenziamenti.

L’Apparato si muove per l’affermarsi delle divisioni sociali e per riuscire a creare a Genova un non-luogo in cui si possa svolgere l’incontro-scontro: chiusi le stazioni ferroviarie, il porto e l’aeroporto, la strada sopraelevata lungo mare (una delle arterie della città), il principale ingresso autostradale, chiusi gli accessi in spiaggia, i posti di lavoro, sospese le udienze ordinarie, le operazioni chirurgiche, i matrimoni e i funerali. A partire da una settimana prima del G8, vengono impediti con vari decreti manifestazioni, concentramenti, distribuzione di volantini e quant’altro.

Chiuse le frontiere con la Francia e con l’Austria, il che significa di fatto la sospensione di quanto stabilito in proposito dal trattato di Shenghen; una manifestante viene investita durante una protesta alla frontiera di Ventimiglia e alcuni giorni dopo muore. Sarà il primo morto del G8. In questo clima di vessazioni continue, gli abitanti di Genova sono invitati a lasciare la città durante i giorni del G8 per una "breve vacanza". 200 detenuti vengono trsferiti al fine di far posto ai manifestanti. Forse in base a uno studio statistico (durante le manifestazioni di Quebec City, ad esempio, ci furono 423 arresti), il potere calcola il numero di 600 detenuti a cui far posto.

Genova non ha mai conosciuto nella sua storia uno sfoggio così capillare e ossessivo di controllo, neanche durante l’occupazione nazista o nei giorni della sommossa di giugno-luglio 1960.

In questo contesto, i "sopravvissuti" si preparano per la gestione dell’evento; in vista del G8, da un lato il potere si muove per assicurare un vertice perfetto, dall’altro gli alfieri della "società civile" si mobilitano per un contro-vertice che possa segnare il trionfo delle loro politiche riformiste. Le parti in gioco ebbero già modo di incontrarsi e scontrarsi a Genova durante Tebio (fiera degli o.g.m.) e a Napoli in occasione del vertice OCSE. Allora, come in altre occasioni, Tute bianche e compari avevano concordato scontri simbolici con la polizia ed espresso l’intenzione di bloccare i cosiddetti violenti per assicurarsi il successo del loro contro-vertice. Questi contestatori si mostrano così pienamente inseriti nell’Apparato: là dove il potere rivela ai suoi sudditi di avere delle regole che non si possono violare, anche costoro pretendono la sottomissione dai loro adepti attraverso la regolamentazione della protesta e della rabbia, mostrandosi perfettamente assimilabili a un mondo in cui tutto viene disciplinato. Un esempio significativo sarà l'invito che il Genoa Social Forum rivolgerà ai ferrovieri affinché sospendano il loro sciopero nazionale in programma per il 13 e 14 luglio, sciopero che ostacolerebbe l'arrivo dei manifestanti.

Va inoltre ricordato, ad esempio, come già nei primi giorni di gennaio, 150 fra attivisti di vari centri sociali, sindacalisti, preti e giornalisti si incontrano al porto di Genova e al centro sociale Zapata per simulare diversi tipi di scontro con le forze dell’ordine; le varie rappresentazioni da parte dei contestatori-riformatori saranno numerosissime nei mesi precedentii il G8. Tutto ciò rientra nei meccanismi ben oleati dell’Apparato che, in varie forme, presenta l’avvenimento come già avvenuto; ben prima di luglio vertice e contro-vertice sono analizzati, studiati, descritti in ogni particolare, si ipotizzano perfino i probabili morti.

I mass media sono coinvolti nei preparativi dell’evento con l’inscenare diverse ipotesi su come si svolgerà l’incontro-scontro. In questo quadro di pre-visione, essi assumono un ruolo ben preciso: da un lato creare un finto dibattito («è giusto l’intervento dell’esercito per motivi di ordine pubblico?») dall’altro dare delle direttive prefigurando varie situazioni di scontro, anche attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio (per esempio quelle di Göteborg).

La rappresentazione mediatica assume così l’importante ruolo di far convogliare l’attenzione su percorsi precostituiti che dovrebbero portare a Genova le persone già ammaestrate per calarsi in una delle parti del gioco. In un ginepraio di ipotesi su un incontro ancora da avvenire, i mass media contribuiscono a diffondere uno stato di paranoia generalizzata, facendo risaltare gli aspetti più macabri o terrorizzanti: si paventano, per esempio, deliranti scenari di palloncini con sangue infetto come arma in mano ai manifestanti o si dà un eccessivo rilievo ai continui falsi allarmi bomba come prefigurazione di una catastrofe imminente. Vanno aggiunti, nel clima del pre-vertice, gli attacchi incendiari contro agenzie interinali, l'invio di pacchi-bomba (a una caserma dei carabinieri, dove un milite rimane ferito alla mano, ad Emilio Fede, agli uffici della Benetton e a un sindacato di secondini spagnoli a Barcellona) e un fallito attentato contro la polizia a Bologna – azioni rivendicate da gruppi leninisti e anarchici contro il G8, in solidarietà coi prigionieri, coi Mapuche o in ricordo di alcuni compagni assassinati dallo Stato. Al centro sociale Leoncavallo, spazio delle Tute bianche di Milano, arriva un pacco contenente merda di cane. Rispetto ai pacchetti-incendiari, bisogna precisare che quello idirizzato a Emilio Fede viene aperto dalla segretaria, la quale rimane lievemente ustionata, mentre quello al direttore della Benetton viene aperto, fortunatamente senza conseguenze, da un dipendente. Le dichiarazioni del Genoa Social Forum attribuiscono ai servizi segreti, secondo l'immancabile copione della sinistra italiana, tali azioni, il cui obiettivo – per questi specialisti della menzogna – sarebbe colpire non il potere, ma il movimento (vedi il capitolo "I traghettatori del consenso").

In questa gigantesca fantasmagoria, si cerca di contenere in un’unica cornice tutti i partecipanti alla farsa: il potere, i suoi volenterosi contestatori-riformatori e anche coloro che invece vorrebbero rovinare tutta la messa in scena. Già prima del G8, questi ultimi saranno sottoposti a una campagna repressiva: Digos, Ugigos e Ros formulano richieste di custodia cautelare preventiva o altre misure restrittive per molte persone che dalle informative risultano intenzionate ad andare a Genova con propositi violenti. Questa campagna di prevenzione si traduce di fatto con obblighi di residenza per alcuni e con perquisizioni (effettuate per lo piu’ nel Nord-Italia) per altri.

Nel di marzo Fini annuncia "tolleranza zero" verso i manifestanti violenti e, alla luce del vertice OCSE di Napoli, insiste sulla possibilità di fermarli prima poiché, dice, tutti sanno dove sono e cosa fanno. Il ministro degli Interni Scajola parla, già il 18 luglio, di 850 persone fermate alla frontiera, a cui vanno aggiunti almeno i 150 greci bloccati nel porto di Ancona il 19. Meglio si spiega in questo contesto la creazione della minaccia costituita da coloro che sfuggono alle regole democratiche e che a livello mediatico vengono identificati nei Black Bloc.

Dopo il G8, gli abitanti di Genova ritroveranno la loro quotidianità in uno spazio urbano normalizzato e insieme sfigurato dai dispositivi del potere. A riprova della regola secondo la quale le situazioni di emergenza, imposte con l’ecologia urbana della paura, diventano in seguito la norma. Il controllo elettronico nel frattempo si estende e si incentivano, per esempio, quelle aziende che intendono dotarsene. Alcune vie del centro storico vengono chiuse con cancelli privati, una sorta di versione perbene delle grate e delle transenne. I posti più impensati – come piccole scalinate, piazzette, gradini delle chiese – vengono ora sorvegliati e addirittura trasformati con l’installazione di spuntoni metallici che impediscono la sosta dei passanti. A Genova, come nel resto d’Italia, entrano in servizio poliziotti e carabinieri di quartiere; pattugliamenti e rastrellamenti diventano normali operazioni di polizia. Passati i giorni della protesta, esauritasi la rivolta, molto di ciò che è stato predisposto dall’Apparato è ora un’eredità dei genovesi. Chissà se nell’apparente neutralità di cancelli e telecamere qualcuno riuscirà a vedere la brutalità della polizia, e in quelli oggetti inanimati il sangue di chi si è battuto per liberare le strade e la vita.

I traghettatori del consenso

Quello che si annunciava come il grande spettacolo di Genova doveva contare su di un’attrice di primo piano: la contestazione simulata. Con un anticipo di mesi rispetto alle giornate di luglio, il Genoa Social Forum (d’ora in poi GSF) aveva cominciato una lunga negoziazione con l’amministrazione comunale, il governo e i vertici delle forze dell’ordine sui finanziamenti e i luoghi del "contro-vertice", nonché sulle modalità della protesta. Dalle lettere a Ciampi agli incontri con il capo della polizia De Gennaro, dai comunicati stampa alle ripetute richieste di essere ricevuti da Berlusconi, i suoi portavoce pretendevano di essere trattati come un legittimo soggetto politico. Da aprile in poi, con una scadenza settimanale, i vari raggruppamenti del GSF (le future "aree tematiche") inscenavano, in centri sociali, palestre e parrocchie, ripetute rappresentazioni di scontri davanti ai giornalisti. Alle diverse "anime del movimento" corrispondeva uno stuolo di consulenti e specialisti che fornivano le attrezzature adeguate e stilavano gli opportuni decaloghi comportamentali. Ovviamente chi rifiutava la logica della gerarchia e delle trattative non aveva alcuna voce in capitolo rispetto alle decisioni prese dai cosiddetti rappresentanti del movimento (i quali, a conti già fatti, proporranno un ridicolo referendum telematico a cui risponderanno solo poliziotti e giornalisti). All’interno del GSF, una sorta di cartello che riuniva una vasta area di democratici, dai cattolici di base di Lilliput a Rifondazione comunista, da settori dei Verdi alle Tute bianche, compresa la Sinistra giovanile, cioè i giovani degli stessi Ds che avevano voluto il G8 a Genova, si stringeva un patto con cui i partecipanti si impegnavano, nella contestazione, a «rispettare la città e le persone, anche in divisa» (vedi il comunicato stampa del 5 giugno, riportato in Appendice). Coordinato con il GSF, ma su basi indipendenti, era anche il Network per i diritti globali, composto dai Cobas e da alcuni centri sociali. In queste note ci soffermeremo soprattutto sulle Tute bianche. Ci sembra più utile smascherare i pacificatori abili nel travestirsi da ribelli. I preti della politica convenzionale si smascherano da soli.

Per creare l’"evento mediatico" non bastava la blindatura della città e la creazione di una vera e propria zona di guerra. Ci volevano le dichiarazioni roboanti dei contestatori. Questo era il ruolo delle Tute bianche, giocato con una precisa strategia pubblicitaria. Così, nelle settimane precedenti il vertice è un susseguirsi di retorica guerrigliera, costruita per lo più con vari slogan ispirati al subcomandante Marcos. Il 26 maggio, a Palazzo Ducale (sede del futuro G8), alcune Tute bianche in costume zapatista, con tanto di passamontagna, allestiscono uno spettacolo davanti alle telecamere. Il loro portavoce Luca Casarini legge una sorta di dichiarazione di guerra copiata dai comunicati dell’EZLN: «Vi annunciamo formalmente che siamo scesi sul piede di guerra. […] Se dobbiamo scegliere fra lo scontro con le vostre truppe e la rassegnazione non abbiamo dubbi: ci scontreremo» (il manifesto, 27 maggio 2001). Nello stesso periodo, all’idroscalo di Milano, simulano con dei gommoni l’"accerchiamento" via mare dei "potenti della terra". Anche in questo caso, i futuri Disobbedienti non risparmiano di leggere l’immancabile dichiarazione ai giornali. Di proclama in proclama, si arriva alle giornate genovesi. Senza perdere prima l'occasione di definire – assieme all'intero Gsf – «bomba contro il movimento» un pacco postale esploso fra le mani di un carabiniere della caserma di San Fruttuoso (successivamente rivendicato da un gruppo anarchico). Spingendosi fino alla delazione indiretta, il portavoce del Leoncavallo Daniele Farina dichiara: «È il Torino style, sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto a inaspeire il clima con fatti cruenti» (il manifesto, 17 luglio 2001).

Contemporaneamente a queste frasi ad effetto, in ripetuti incontri con la polizia Casarini e soci definivano nei dettagli le modalità di un conflitto simulato, secondo un copione più volte sperimentato. Al riguardo, rimane esemplare l’articolo di Luigi Manconi – parlamentare dei Verdi ed ex di Lotta Continua – su La Repubblica del 14 luglio 2001 (che riportiamo integralmente in Appendice). Attraverso accordi preventivi con la polizia e tramite un «gruppo di contatto» («composto da avvocati, parlamentari, portavoce delle associazioni e centri sociali»), il quale doveva dichiarare «apertamente le proprie intenzioni e obiettivi», gli "scontri" avrebbero dovuto risultare una perfetta messa in scena mediatica, autopromozionale per le Tute bianche e conveniente per le forze dell’ordine. Ora, perché uno spettacolo funzioni bisogna assicurarsi che nessun guastafeste ne rovini l’allestimento. Dichiarerà, a questo proposito, l’allora questore di Genova di fronte alla commissione parlamentare, il 28 agosto 2001: «Dirò di più: un funzionario del dipartimento aveva contatti diretti con Casarini. Ciò ha consentito, la sera tra il 20 e il 21 luglio, la collocazione di quei container, perché da lui abbiamo saputo che, pur facendo parte del Genoa social forum, le tute bianche non andavano d’accordo con il network e con i Cobas: egli aveva dunque paura che altri, con frange estremiste, potessero disturbare il suo corteo, che doveva passare per via Tolemaide. A questo punto abbiamo creato quel muro di container che la Repubblica ha descritto bene nel suo articolo. Lo scontro doveva avvenire in piazza Verdi con la famosa "sceneggiata", che dava visibilità al movimento delle tute bianche». Le parole del torturatore e assassino Colucci, a Genova massimo responsabile della piazza, non sono mai state smentite. Solo le date sono sbagliate: si tratta della sera tra il 19 e il 20 luglio. «Casarini ha confermato i contatti. E ha confermato anche un dettaglio ulteriore: già la sera del 19 luglio c’era la consapevolezza che alcuni elementi del cosiddetto network (che comprendeva anche i Cobas) volevano compiere gesti di violenza. Fu proprio in previsione di questa emergenza, come confermano anche fonti del Viminale, che il quartiere della Foce dalla sera alla mattina fu disseminato di container. […]. Proprio dall’area dei disobbedienti sarebbe partita, in una fitta serie di contatti e telefonate con alcuni referenti della Digos locali, l’emergenza per le violenze che una parte dei contestatori stava preparando» ("Digos e disobbedienti uniti contro i black bloc", Il Secolo XIX, 30 gennaio 2003).

Nonostante tutto questo, gli accordi saltano, lo spettacolo finisce. Fin dalla mattina del 20 luglio diverse centinaia di anonimi ribelli cominciano ad attaccare le strutture del capitalismo – banche, sedi di multinazionali, caserme e carceri – infischiandosene della "zona rossa" ed evitando lo scontro frontale con la polizia. Il corteo dei Disobbedienti (questo è ora il loro nome: all’ultimo momento Casarini e soci smettono la tuta bianca per confondersi "con la moltitudine del movimento") parte dallo stadio Carlini alle 13. 15. Il corteo scende molto lentamente con numerose pause. Alle prime immagini di incendi in lontananza, un portavoce arringa i giornalisti diffidandoli dall’attribuire quelle azioni ai Disobbedienti. Il corteo prosegue con cautela disponendosi a testuggine per affrontare gli scontri simulati. Ma in via Tolemaide i carabinieri caricano violentemente. Saltano tutti i propositi di assalto virtuale. Dopo questa carica molti manifestanti abbandonano ogni intento pacifico e si scontrano con decisione. Nonostante i ripetuti inviti dei capi a non lanciare nulla contro i carabinieri, la base, raggiunta da centinaia di rivoltosi, ingaggia una battaglia che durerà fino alle 17. 30. È nel corso di questi scontri che il boia Placanica assassinerà Carlo Giuliani. Mentre numerosi gruppi continuano a battersi con le forze dell'ordine, il corteo ritorna al Carlini, sottoposto alle cariche, ai rastrellamenti e ai pestaggi di chi non riesce a rimanere nelle fila. Una volta giunto allo stadio, la sbirraglia si ritira. Sono le 18. 30. Fino a sera, comunque, l’insubordinazione alle gerarchie sarà totale anche nel campo dei Disobbedienti. Quanto a Carlo, ecco cosa dirà a caldo un portavoce delle Tute bianche genovesi, prima che gli avvoltoi della politica cominciassero a planare sul suo cadavere: «Lo conoscevamo poco, qualche volta lo incontravamo al bar Asinelli. Era un punkabbestia, uno di quelli che non hanno lavoro ma portano tanti orecchini, uno che vuole entrare senza pagare, uno che la gente perbene chiama parassita. Gli faceva schifo il mondo e non aveva nulla a che fare con noi dei centri sociali, diceva che eravamo troppo disciplinati» (Matteo Jade, diretta radiofonica, 20 luglio 2001).

Perché i carabinieri hanno caricato cinquecento metri prima del previsto, con una violenza e in una zona (priva di vie di fuga) che non permettevano altro se non una strenua resistenza da parte dei manifestanti? Perché la repressione era premeditata, perché l’Apparato di sicurezza andava sperimentato (secondo una costante dell’espansione tecnologica e militare: tutto ciò che si può fare, dev’essere fatto). Odiose e patetiche insieme, allora, sono le lamentele sulle forze dell’ordine che non hanno rispettato gli accordi, degne solo di chi collabora col nemico ed è disposto – come abbiamo visto – a vendere altri compagni alla repressione pur di assicurarsi un miserabile teatro di finta radicalità. Tutta colpa dei carabinieri… («sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa. La verità però è che sono stati i carabinieri a far saltare tutto», Luca Casarini, Il Nuovo, 27 agosto 2001). Per quanto riguarda le pratiche di attacco a banche e caserme, sulle prime si strilla contro gli anarchici, poi si ripesca la figura immancabile del provocatore pagato per discreditare il movimento. Ecco allora, per riprendersi da un clamoroso smacco, la calunnia – tipicamente stalinista – dei «black bloc infiltrati e manovrati dai servizi segreti». Gli stessi black bloc che le Tute bianche facevano finta di apprezzare quando questi agivano all’estero, magari a un oceano di distanza. Ecco cosa diceva una Tuta bianca bolognese (lista movimento@ecn.org) prima di Genova: «Peccato che il Black Bloc, per sua stessa scelta ideologica, non abbia capi, né leader carismatici, né portavoce, e agisca esclusivamente per piccoli gruppi di affinità autorganizzati. Lorsignori sono anarchici duri e puri e provano schifo davanti a qualsivoglia figura anche solo lontanamente gerarchica». Che teneri, questi anarchici. Subito dopo, invece, diventeranno «zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per tutti» (Marco Beltrami, portavoce del "Laboratorio del Nord-Ovest"). E ancora, con maggior fiuto politico: «[…] nel momento in cui le pratiche del BB sono state usate contro di noi, dobbiamo dire con forza che queste persone sono politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza dovrebbero essere i primi a fare l’esame di coscienza e suicidare un’esperienza che si è, di fatto, conclusa a Genova» (Roberto Bui, aspirante leader delle Tute bianche, movimento@ecn.org, 23 luglio 2001). Certo, molto meglio fare dichiarazione incendiare di assalto alla "zona rossa" e poi definire quelli che all’assalto vanno veramente «zanzare», «politicamente morti» e «provocatori». Alla calunnia più becera (diffusa soprattutto da Rifondazione comunista e dai Verdi, dal Manifesto e da gruppi come Attac) sui black bloc creati e composti da agenti infiltrati (o da neonazisti) se ne aggiunge un’altra, più sottile e scaltra: «[…] ad agire nella giornata di venerdì erano sei o sette infiltrati dell’Arma, che incanalavano e coordinavano la (giusta, giustissima, ma forse un po’ troppo cieca) incazzatura di qualche centinaio di anarchici che si sono aggregati senza capire in che modo venivano strumentalizzati. Credo che la stessa cosa sia successa sabato» (Anton Pannekoek, alias Roberto Bui). Gli anarchici, insomma, non sono dei provocatori, sono solo degli utili idioti che fanno involontariamente il gioco del potere. Poniamoci, sul problema degli infiltrati e delle presunte complicità poliziesche, queste semplici domande: che bisogno avevano i servi in borghese di attaccare le strutture dello Stato e del capitale quando c’erano centinaia di compagni arrivati a Genova apposta…? È più facile, per gli sbirri, pestare manifestanti inermi oppure piccoli gruppi rapidi nel colpire, nell’erigere barricate e disposti a difendersi? È più agevole, per gli agenti, introdursi in piccoli gruppi di affinità o negli spezzoni di un grande corteo? In realtà, sbirri in borghese nelle manifestazioni ce ne sono sempre, e a Genova molti sono stati smascherati e cacciati dai compagni (come accadrà anche al corteo del 4 ottobre 2003, a Roma, contro la Convenzione europea). Il loro ruolo è in genere quello di identificare i più facinorosi o quello – che nessuno può svolgere al posto loro – di picchiare altri manifestanti pacifici per creare paura e confusione. Per quanto riguarda le famose "prove" sui "black bloc manovrati dalla polizia", invece, dopo anni di calunnie le immagini sono sempre le stesse: qualche sbirro con il fazzoletto sul viso che si aggira nei pressi di un corteo, alcuni carabinieri in borghese che escono con dei bastoni in mano da una caserma presa d’assalto… E questo spiegherebbe una sommossa che ha coinvolto migliaia di persone, alcune organizzate, ma tante altre unitesi spontaneamente… Se c’è un’ideologia che si è suicidata a Genova, è quella riassunta in queste parole: «[…] è parere di molti che la disobbedienza civile protetta abbia contribuito a traghettare ampi settori di movimento da forme di protesta nichiliste e distruttive a una pratica non meno radicale ma eminentemente politica. Peraltro, preannunciare tutto ciò che verrà fatto apre già di per sé lo spazio alla mediazione politica "sul campo", se ve ne è la volontà da parte dei responsabili dell’ordine pubblico» (Luca Casarini, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001). Sul selciato genovese, tra i carrugi e il lungomare, la «disobbedienza civile protetta» non ha traghettato un bel nulla. Ha portato in bocca alla polizia migliaia di manifestanti disarmati (mentalmente e fisicamente), mentre tanti altri passeggeri, ammutinatisi, sono insorti per difendere se stessi e i propri compagni. Invece, di fronte ai rastrellamenti, ai pestaggi, alle torture, si sono sprecate le lamentazioni ("I patti! I Patti!") di chi, oltre che sciacallo, si rivela tanto imbecille da fidarsi delle forze dell’ordine. Insomma, mentre attorno alla zona rossa si allestiva la scena dello scontro fittizio, altrove scoppiava, lontana dai riflettori, la rivolta reale. Mentre chi confidava nella polizia alzava e invitava ad alzare le mani, migliaia di manifestanti si rifiutavano di andare al massacro, rispondendo colpo su colpo alla violenza dei servi in divisa. L’insubordinazione, questa variante non prevista, cominciava ad aggiustare la mira.… «I funzionari di polizia mi dicono che è tutto finito (lo vediamo da soli), e che sarebbe utile andare in via Sturla dove a loro risulta in corso un attacco a una caserma dei carabinieri. Allora con la macchina andiamo in via Caprera, dove incrociamo altre migliaia di persone che intasano la strada. Chiediamo dove possiamo passare, ma, mentre passiamo secondo le indicazioni delle forze dell’ordine, veniamo assaliti da un gruppo di persone che, al grido di "infame" rivolto al sottoscritto, lanciano tutto ciò che hanno a disposizione contro la macchina» (Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001).

Ma torniamo alle Tute bianche, la cui storia non comincia certo a Genova. Per capire il loro ruolo in quelle giornate è utile fare qualche passo indietro. Le Tute bianche nascono all’interno dell’Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall’alleanza di alcuni centri sociali firmatari della cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora. Si tratta dei centri sociali che hanno accettato, sin dal 1994, la legalizzazione (su proposta del verde Falqui) degli spazi occupati e i finanziamenti statali. Questa prospettiva, abbracciata da tutta un’area dell’ex-Autonomia Operaia, ha portato su posizioni sempre più istituzionali, con tanto di partecipazione alle elezioni e di collaborazione con vari ministeri (un esempio fra i tanti, Casarini è stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato nonché autrice, assieme a Napolitano, della legge che ha introdotto in Italia i lager per immigrati clandestini). È questa la strada che porterà agli accordi con la polizia a Genova (e anche in seguito, visto che, in occasione del vertice di Riva del Garda del settembre 2003, Disobbedienti e Social forum si siederanno di nuovo al tavolo con… Colucci, il massacratore di Genova divenuto nel frattempo questore di Trento). Uno degli aspetti più ripugnati di questa pratica di collaborazione con le istituzioni è che essa viene giustificata in nome della "nonviolenza", quando sono fin troppo noti i metodi con i quali questi leninisti storici affrontano chiunque non condivida le loro scelte (cioè chiunque disturbi i loro spettacoli). Significativo, a questo proposito, un loro volantino-decalogo dal titolo Disobbedienza civile. Istruzioni per l’uso, distribuito in varie occasioni prima del G8 (e riprodotto in Appendice). Ma la questione fondamentale, in realtà, è un’altra. Si può davvero essere "nonviolenti" e collaborare con lo Stato, massima espressione della violenza? È per rispetto della "nonviolenza" che si aggrediscono e calunniano coloro che praticano l’azione diretta contro le strutture di morte del capitalismo? A chi si vuole dare il proprio messaggio "nonviolento" quando si partecipa, come ha fatto Casarini, ai funerali di un servo dei padroni come D’Antona? Qui l’etica non c’entra, si tratta unicamente di opportunismo politico. Decalogo per decalogo, leggete cosa diceva Gandhi a proposito della nonviolenza contro l’oppressione: «1. Rinuncia ad ogni titolo onorario. 2. Non accettazione di finanziamenti del Governo. 3. Sospensione dell’attività da parte di avvocati e giudici. 4. Boicottaggio delle scuole del Governo da parte dei genitori. 5. Non partecipazione ai partiti di governo, e ad altre funzioni politiche ». L’esatto contrario di quello che fanno i Disobbedienti e tutti gli altri movimenti legati ai partiti e alle burocrazie sindacali: chiedere i soldi allo Stato per… disobbedire all’Impero. Insomma, come ha scritto qualcuno, serve a poco sfidare le zone rosse del potere se non si disertano le zone grigie della collaborazione. Tutto questo dimostra che «la differenza importante non è tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o no appetito di potere» (G. Orwell). E quando si mira al potere, ogni metodo è lecito. Tanto più che non mancano mai, come sappiamo, i brillanti linguisti capaci di trasformare i compromessi in altrettante prove di "intelligenza tattica".

Nate nel 1998, a Genova le Tute bianche sono diventate Disobbedienti. Che cos’è la disobbedienza per costoro? Non certo la scelta coraggiosa di Henry David Thoreau, padre di quella disobbedienza civile a cui lo stesso Gandhi si è ispirato. Thoreau non era affatto un "nonviolento" – come dimostra la sua apologia per Padre Brown, di cui difese la scelta di usare le armi contro gli schiavisti – ed odiava il conformismo prodotto dalla civiltà. Del solitario di Walden i Disobbedienti riprendono unicamente un aspetto: l’accettazione dell’autorità. Ma diamo la parola a un Disobbediente stesso: «Per prima cosa la disobbedienza presuppone un piano dialettico. Viene riconosciuto un ente che produce norme e viene prevista un’interazione dialettica con questo ente. Si disobbedisce affinché il soggetto che ha emanato norme di un certo tipo riveda le sue posizioni e si appresti a normare in maniera diversa. Non si mette dunque in discussione, anzi si conferma, la legittimità e il funzionamento della funzione normativa, come anche la cornice giuridica complessiva nella quale questa s’inscrive». E poco oltre: «Per paradosso, se e quando la costituzione imperiale si alimenta del caos, quando – per dirla in altri termini – è l’Impero stesso a disobbedire, forse il compito dei cives, dei soggetti che lo avversano, diventa quello di normare in modo nuovo, a partire da istituzioni nuove, piuttosto che quello di disobbedire» (Federico Cartelloni, Il tempo della disobbedienza, in AA.VV., Controimpero. Per un lessico dei movimenti globali, Manifestolibri, 2002). Non avremmo saputo dir meglio. L’illusione di riformare il dominio collaborando con le sue istituzioni e con la sua polizia è stata sepolta a Genova. Gli insorti non la rimpiangono.

Giù la maschera. Le forze dell'ordine al lavoro

Il G8 ha visto un dispiegamento di forze dell’ordine che per mezzi e uomini non ha precedenti in Italia. Oltre a questo importante dato della strategia della repressione, però, l’operato dei suoi uomini ha messo in luce un altro fatto: nelle strade, in quei giorni, si è mostrato il vero volto di questi corpi. Cani da guardia che con il massacro e la violenza sulle persone si prestano al ruolo di custodi dell’ordine. Strategie di palazzo e di piazza, repressione calcolata o violenze estemporanee di singoli "agenti esagitati", la differenza non conta, sono tutti aspetti dell’essenza di un corpo di persone piegate a una mentalità clanica che per l’interesse del tiranno che gli dà il pane e la divisa sono pronte ad alzare il bastone contro chiunque.

A Genova sono stati richiamati i corpi più svariati, i più selezionati per questioni di sicurezza e repressione: c’erano i carabinieri delle Brigate Sassari e Tuscania, protagonisti delle spedizioni italiane in Somalia, in Iraq e Albania, più 2700 uomini delle truppe speciali dell'esercito (i paracadutisti della Folgore, i marines del S. Marco, i commandos sommozzatori del Corsurbin e la divisione NBC, specializzata nella guerra chimica, batteriologica e nucleare); c’era il Gom (Gruppo Operativo Mobile) un reparto – partorito nel ’97 dal governo di centro-sinistra ed entrato realmente in funzione nel 1999 con il decreto firmato dal "comunista italiano" Dilimberto – i cui uomini non sono fissi ma vengono scelti di volta in volta dalla polizia penitenziaria; c’erano la Finanza, vari squadroni di Celere e poi gli uomini del CCIR, un corpo speciale dei carabinieri creato apposta per il G8. Nel complesso, più di 20 000 uomini.

Prima dei pestaggi e delle violenze di piazza che hanno fatto il giro del mondo nelle immagini televisive gli agenti si sono distinti anche per un lavoro di controllo. Già il 16 luglio, a Genova, una perquisizione veniva effettuata all'interno del centro sociale Pinelli. Il 19 luglio e nei giorni prima ancora i manifestanti venivano identificati e schedati per le strade, mentre dai documenti ufficiali si sa che agenti infiltrati erano presenti ad un'assemblea del 18 e ad altre tenutesi nelle settimane precedenti in Germania e in Slovenia. La mattina del 20 vengono identificati e schedati durante cinque ore tutti i presenti al centro sociale Inmensa e un'operazione simile si svolge al Pinelli. Questi centri sociali sono due luoghi di ritrovo di manifestanti che non si riconoscono nel GSF.

L’istituzione in città delle varie zone ad accesso limitato e della cittadella dei carabinieri calava già uno scenario da regime totalitario.

Il 19 si svolge il corteo dei migranti senza scontri di rilievo, se non qualche sassaiola contro la polizia. Dal 20 inizia il massacro, un massacro calcolato, quasi scientifico nella sua apparente illogicità.

La famosa carica dei carabinieri al corteo dei Disobbedienti in via Tolemaide, che ha dato il via agli scontri generalizzati, è avvenuta lontano da dove i più determinati attaccavano i luoghi di sfruttamento e oppressione, e ai danni di un corteo per lo più disarmato. Ma a conti fatti è risultata sicuramente più efficace e funzionale ai piani dei potenti che non rincorrere per la città gruppi di facinorosi oltre tutto pronti allo scontro. Coi pestaggi ai manifestanti pacifici la polizia ha dovuto togliersi la maschera, ma ha dato un colpo, una lezione brutale a chi credeva di infastidire i Grandi 8 con minacce fatte e poi ritirate o dichiarazioni di guerra nascoste dietro la bandiera della nonviolenza, come avevano fatto Casarini e compagni nel mese precedente il vertice. Difficilmente i dirigenti ignoravano che il luogo scelto per la carica (una zona senza vie d'uscita) avrebbe provocato una strenue resistenza da parte dei manifestanti, a cui non rimaneva altra possibilità che difendersi.

Durante tutti gli scontri la polizia ha sparato 6200 lascrimogeni del famigerato gas CS (si sa di molte persone ricoverate successivamente per averlo respirato e anche i chimici diranno di non conoscerne le conseguenze a lungo termine). Gli aspetti apparentemente più insensati e paradossali della condotta e delle scelte strategiche delle forze dell’ordine vanno inseriti in un più ampio quadro (anche internazionale, visti i diversi incontri al vertice e i corsi di addestramento per agenti allo scopo di definire alcune direttive comuni). Se la repressione era pianificata e alcuni scontri sembrano stati provocati appunto per "giustificarla", va detto che è un'illusione poliziesca – condivisa anche dai capi della contestazione – quella di ridurre tutte le variabili di un conflitto sociale ad un disegno pre-ordinato. Di sicuro la sbirraglia era poco preparata ad affrontare le pratiche di attacco messe in atto lontano dalla "zona rossa", dov'era concentrato il grosso degli agenti. La centralizzazione delle strutture si riflette anche nella mentalità degli uomini di Stato: per questi il compito principale era comunque proteggere il vertice dei loro padroni. Quando una sommossa raggiunge le dimensioni di quella genovese, per di più in una città non ancora del tutto ridisegnata dagli urbanisti del controllo, le forze dell'ordine sono costrette ad improvvisare. La loro brutalità risponde certo a delle consegne ben precise (Fini non era per caso nelle centrali operative), ma esprime anche la reazione di chi sfoga sugli inermi il proprio bisogno di sopraffazione, un bisogno frustrato dai tanti manifestanti che hanno reagito alle cariche. Per il resto, lo schieramento di carabinieri "giovani e inesperti" in materia di guerriglia urbana, l’episodio del Defender dell’Arma lasciato in preda ai manifestanti inferociti, l’abbandono della piazza del carcere di Marassi, fino al culmine dell’assassinio di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, sembrano un misto di piani precisi e di benemerite sbracate; e tutto ciò a dispetto dell'apparente invincibilità di un dispiegamento di forze come quello predisposto a Genova. Subito attorno a piazza Alimonda c’erano uomini della polizia ma nessuno è intervenuto in aiuto dei carabinieri sulla jeep; le forze dell'ordine hanno sparato a Genova ma lo avevano fatto anche il mese prima in Svezia, a Göteborg, e solo per miracolo non c’era scappato il morto. Inoltre in quelle ore vicine all’uccisione di Carlo, giravano voci insistenti su altri due morti tra i manifestanti svanite, nel giro di poco tempo, senza conferma né smentita, mentre i colpi d’arma da fuoco sono stati sicuramente di più di quelli sparati in piazza Alimonda. A questo proposito va aggiunto che il ritrovamento – qualche giorno o addirittura un mese dopo – di persone nelle vicinanze di Genova e nelle acque territoriali del suo porto, morte in circostanze quantomeno oscure e liquidate con autopsie rapide e raffazzonate, non permette di considerare campate in aria quelle voci.


In generale gli agenti si sono prodigati in pestaggi e violenze su persone inermi, per strada e soprattutto nella famigerata caserma di Bolzaneto e in quella di S. Giuliano, dove si sono divertiti con torture, umiliazioni e violenze sistematiche come il macabro rituale del corridoio (un pestaggio fra due ali di servi in divisa) o i gas nocivi spruzzati nelle celle. I rastrellamenti non hanno risparmiato neanche gli ospedali dove gli agenti hanno fatto irruzione alla ricerca di manifestanti feriti che erano dovuti ricorrere alle cure, e dove hanno picchiato ripetutamente.

Il 21 la strategia delle forze dell’ordine cambia: i carabinieri, su cui pesava l’omicidio di Carlo Giuliani, vengono spostati nella zona rossa dandosi il cambio con la polizia che questa volta carica in modo calcolato e massiccio l’imponente corteo con l’intenzione di spezzarlo da subito e, quando ci riesce, massacra i manifestanti riversatisi sul lungomare. Già alle nove del mattino un nucleo di carabinieri tenta un'irruzione nel campo dei Cobas a Sturla. Ritiratisi dopo una trattativa, gli uomini dell'Arma tornano due ore dopo, arrestano una ventina di persone e distruggono tutto.

Le giornate del G8 si concludono con il blitz notturno alla Diaz, effettuato col pretesto della presenza in quella scuola di manifestanti appartenenti al "Black Bloc". Alla Diaz era stato installato lo studio di Radio Gap. Alla Pascoli, un'altra scuola sempre in via Cesare Battisti, di fronte alla prima, si trovavano la sede del Genoa Legal Forum, il centro sanitario e il media center (Indymedia). In questi locali gli agenti si sono "limitati" a spaccare tutta l’attrezzatura e a sequestrare il materiale video; alla Diaz, là dove i manifestanti dormivano, è stato invece organizzato – staccati luce e telefono – un pestaggio violentissimo. Dalla Pascoli si sentivano le urla terrorizzate dei ragazzi e di lì a poco le ambulanze ne portavano via a decine, mentre altri venivano caricati sui cellulari della polizia, probabilmente troppo malconci per essere lasciati lì con tutti i giornalisti intorno. Dopo il passaggio di polizia, carabinieri e reparto mobile di Roma (giudato da Canterini) il sangue dei manifestanti chiazzava muri e pareti di tutta la scuola, ma secondo gli agenti era dovuto alle ferite che i manifestanti si erano procurati durante gli scontri del pomeriggio! A detta delle forze dell'ordine i pestaggi e gli arresti sono stati una risposta all’aggressione subita entrando nella scuola e al ritrovamento di due bottiglie molotov; si saprà successivamente che un poliziotto aveva simulato maldestramente di esser stato pugnalato nel giubbotto antiproiettile e che le molotov erano state raccolte dagli sbirri nel pomeriggio e portate lì apposta (un agente interrogato, all’oscuro di tutto, riconoscerà le bottiglie incendiarie che aveva lui stesso trovato in strada). In questa operazione era coinvolto in prima linea l’allora capo dell’"anti-terrorismo" Antonio La Barbera, lo stesso che una settimana prima di Genova aveva proposto 150 custodie cautelari in tutta Italia al fine di impedire a varie persone "note alle forze dell'ordine" di partecipare al contro-vertice (in seguito alle perquisizioni, invece, le procure di Milano non avevano ritenuto di essere in presenza degli estremi per eseguire l’ordinanza, "limitandosi" a disporre una quarantina di obblighi di dimora). La Barbera è stato l’unico, dopo i giorni del G8, ad essere cassato dai suoi superiori con la rimozione dal posto che occupava – poi, finalmente, è morto.

In quei giorni sono state arrestate qualcosa come 390 persone, la gran parte rilasciate nel giro di poco, dopo essere state pestate in strada e torturate nelle caserme (non solo di Bolzaneto e S. Giuliano, ma anche in varie del Levante Ligure); le altre, per lo più manifestanti stranieri, furono trasferite – e alcune torturate – nelle carceri di Pavia, Vercelli, Alessandria e Voghera. Gli stranieri, accompagnati di forza alla frontiera o agli aeroporti, sono stati espulsi con provvedimento ministeriale/prefettizio. Le ultime scarcerazioni avverranno il 4 ottobre 2001.


I numeri e i documenti ufficiali dimostrano dunque una calcolata pianificazione della repressione: il terrore diffuso dal potere ha dato ai suoi uomini l’occasione di usare il proprio brutale armamentario sul nemico. D’altronde, mezzi e uomini sono in dotazione per venire impiegati e al codardo in divisa che non ha alcuna capacità decisionale, disposto com’è ad esguire qualsiasi ordine, basta avere la possibilità perché sfoghi il peggio di sé.

Allora analisi sulle strategie delle forze dell’ordine, interpretazioni politiche o anche condanne incredule a un carattere "cileno" della polizia sono del tutto secondarie o, peggio, funzionali a quella rappresentazione il cui scopo è negare l’evidenza delle cose. In molti contestatori si sono impegnati, dopo Genova, a salvare il buon nome della polizia, a non fare di ogni erba un fascio, ad isolare le mele marce al fine di avere un sano paniere della repressione, a riprendere le trattative così miseramente fallite in quelle giornate. Dalle iniziative di riconciliazione (esemplare quella – riportata in Appendice – di far reincontrare alla Diaz picchiatori e picchiati) alla vera e propria espressione di solidarietà alle forze dell’ordine (ad esempio dopo l’attentato alla Questura di Genova del settembre 2002), i vari racket sedicenti nonviolenti si sono fatti in quattro per contenere la rabbia contro gli agenti della repressione. E gli altri? Se i servitori in divisa non sono riusciti a far capire, con il lavoro svolto a Genova, qual è la natura dello Stato e di chi lo difende, di certo non ci riusciranno né qualche riflessione teorica né un’intera enciclopedia di storia del terrore poliziesco.

Gli ammutinati

Lungi dal voler tracciare una psico-geografia dei gruppi e degli individui che hanno partecipato alla rivolta di Genova rimanendo fuori dalla contestazione concordata, in queste righe parleremo di come la diserzione della «zona rossa» e l’incontro delle esperienze di spossessati da tutto il mondo abbiano convertito una farsa annunciata in una sommossa reale.

Se da mesi la propaganda riformista martellava con roboanti «dichiarazioni di guerra» che circoscrivevano il nemico da attaccare alla «zona rossa» – cioè ai rappresentanti dei Grandi Otto e al sopruso eccezionale delle transenne e dei check-point -, molti erano i messaggi che lasciavano presagire che a Genova lo spettacolo del rifiuto sarebbe stato scalzato da forme concrete di critica della vita quotidiana.

Già due anni prima, nel novembre del 1999, Seattle era stato un momento di rottura dopo anni di passeggiate simboliche organizzate dal movimento cosiddetto «no-global»: la radicalizzazione di una parte di questo movimento necessitava di un modo altro di scendere in piazza e l’emergere prepotente dell’azione diretta a Seattle andava in questa direzione. È da quel momento in poi che, ogni volta che le mobilitazioni contro i vertici dei grandi della terra – a Davos come a Praga, a Nizza come a Québec City o a Göteborg – travalicano la protesta simbolica, si parla di «black bloc» in azione. Il fatto che il black bloc non sia una organizzazione formale ma il nome dato ad un raggruppamento occasionale di piccoli gruppi di affinità che agiscono in maniera autonoma – o un modo per definire certe tecniche di guerriglia – non impedisce la sua trasformazione in uno degli attori dello show della contestazione. Che questo ruolo spettacolare sia stato ricercato o semplicemente subìto dai suoi protagonisti non ci è dato saperlo, vista proprio l’estrema eterogeneità degli individui che partecipano alle azioni etichettate «black bloc». Quello che ci preme sottolineare, però, è che sono state proprio queste azioni a funzionare da detonatore per la situazione che si è creata venerdì 20 luglio nelle strade genovesi, cioè qualcosa che ha più i tratti di una rivolta generalizzata che quelli della classica contestazione di un vertice condita con qualche scontro tra polizia e militanti. Già negli anni precedenti, negli Stati Uniti, le azioni «black bloc» riuscivano a coinvolgere i giovani dei quartieri neri e poveri, mentre il resto del movimento contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio e più in generale contro il neoliberismo ne lamentava la cronica assenza. Se soltanto un mese prima, durante il vertice di Québec City, migliaia di rivoltosi avevano attaccato le strutture dello Stato e del capitalismo, a Genova si è andati oltre: l’azione diretta è riuscita a scavalcare il muro della militanza, aprendosi alla partecipazione gioiosa non solo di altri manifestanti, ma anche di abitanti dei quartieri, di semplici passanti e di curiosi, creando momenti di rivolta collettiva e di liberazione. E questo nonostante la criminalizzazione preventiva e il terrorismo psicologico che avevano come obiettivo quello di dividere i contestatori in buoni e in cattivi. Ma è stato proprio l’incontro tra contestatori «cattivi» – vale a dire chi non voleva farsi guidare dai Casarini o dagli Agnoletto di turno – di varie tendenze e quelli che i mass media e gli organi di propaganda dei gruppi riformisti concordano nel definire hooligans, teppisti, casseurs o semplici «idioti violenti» ad esplodere in faccia agli specialisti del controllo e ai pretesi leader della contestazione. Chi ciarla di «disagio esistenziale» con la pretesa di governarlo (e senza mai considerarsi, ovviamente, parte in causa) ne ha assaggiato la natura esplosiva. Durante la prima delle giornate genovesi tutto si svolge tranquillamente, a parte qualche sassaiola contro gli schieramenti della polizia. È giovedì 19 luglio, il giorno del corteo dei migranti, e in molti tengono conto della possibile presenza nella manifestazione di clandestini e del conseguente pericolo, in caso di arresti, di espulsioni e di internamenti nei lager (i cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea). Al corteo partecipano circa 50 mila persone. Il rispetto per le consegne degli organizzatori (per alcuni) e la meditata rinuncia allo scontro (per altri) tramontano con la fine di questa giornata.

Per il giorno successivo è prevista una lunga serie di «piazze tematiche», ciascuna occupata da differenti organizzazioni, e un grosso corteo capeggiato dai Disobbedienti. In questo dovrebbe consistere l’inizio del tanto sbandierato assedio alla «zona rossa». Piazza Paolo da Novi è assegnata al Network per i diritti globali ed è proprio da qui che uno ad uno gli accordi e le contrattazioni cominciano a saltare. Nelle assemblee che hanno preceduto il vertice sono state preparate azioni a partire dalle 13. Diverse centinaia di rivoltosi si danno appuntamento in questa piazza a partire dalle 12 (altri invece decidono di incontrarsi ad ovest, al corteo della Federazione anarchica italiana, dei Cub e delle Rdb). Le azioni decise sono abbastanza semplici e veloci, anche se non prive di rischio, e la loro riuscita dipende in buona misura da come saranno disposti i 20 mila uomini delle forze dell’ordine (il corteo del giorno prima ha permesso di capire che saranno per lo più concentrati nella cosiddetta zona rossa). Alle assemblee partecipano svariate realtà di lotta provenienti da tutta Europa e gli orari del concentramento e delle azioni sono pensati in relazione altre «piazze tematiche».

In moltissimi, però, sono determinati ad ignorare le contrattazioni e vogliono bruciare le tappe, tanto che la piazza si riempie un paio d’ore prima del previsto da gente che non esita a procurarsi sul posto tutto quel che può servire per andare all’assalto non solo della zona rossa, ma di tutto quello che in città ha il sapore della sottomissione. Molti Cobas presenti non gradiscono affatto questi preparativi per un festa non annunciata, e ne nasce qualche acceso diverbio. Non è ancora mezzogiorno e già vanno in frantumi i primi vetri di banche e caserme, di agenzie immobiliari e turistiche. Le telecamere vengono sistematicamente distrutte, automobili e arredo urbano sono liberamente utilizzati per fronteggiare le prime cariche della polizia.

Intanto i grossi cortei autorizzati si preparano alla marcia, circondati dai cordoni di polizia e dai servizi d’ordine degli organizzatori, mentre Genova si popola sempre di più grazie all’arrivo, dopo ore e ore di ritardo, dei treni carichi di manifestanti. Molti dei nuovi giunti, dalla stazione di Brignole, si uniscono ai gruppi di rivoltosi che percorrono la città e ne modificano i piani. La polizia, concentrata sulla zona rossa, sembra quasi assente. Quando viene assaltato il Credito Italiano di via Torino c’è la prima grossa carica.

Ogni piano prestabilito, oramai, è saltato e l’avventura genovese comincia davvero.

Sotto la spinta della carica di via Torino i «cattivi» si dividono: una parte (circa 1500) si disperde nel quartiere attorno a piazza Alimonda, dove erige barricate e riesce a respingere la polizia con lanci di sassi e molotov, rimanendo fino alla fine del corteo delle tute bianche. A loro si aggiungono molti ragazzi di Genova che conoscono bene la zona e la cui complicità risulterà preziosa.

Un’altra parte s’incammina con il corteo dei Cobas verso sud, verso piazzale Kennedy, dove alza barricate per tenere lontana la polizia e assalta le banche. I Cobas continuano a non gradire questa rumorosa compagnia e tentano di rifugiarsi nel centro di convergenza del GSF lasciando fuori cinquecento rivoltosi. La maggior parte di questi riesce comunque ad entrare e a sfuggire all’attacco dei Carabinieri, che però sfondano i cancelli coi blindati e cominciano i rastrellamenti sulla spiaggia e sul molo. Il gruppo allora si divide ancora: in duecento decidono di allontanarsi dagli «allontanatori» dei Cobas andando verso nord; in quattrocento, invece, continuano a seguire il corteo verso est, su corso Italia, dove attaccano una caserma dei Carabinieri, per poi dirigersi verso nord e ricongiungersi al corteo dei Disobbedienti che giunge dal Carlini. Sono le 13: lo spettacolo avrebbe dovuto cominciare adesso, ma Genova è già un campo di battaglia.

A saltare ora sono i patti tra le forze dell’ordine ed i caporioni del Social Forum: il corteo dei Disobbedienti viene caricato cinquecento metri prima di quanto previsto dagli accordi con la questura e, soprattutto, le cariche sono vere. Intanto giunge la notizia che in contrada Cavallotti, dopo un esproprio ad un supermercato, la polizia ha sparato. Inoltre, il gruppo che arriva da corso Italia porta con sé il carico delle esperienze fatte in un paio d’ore di sommossa.

Comincia il massacro generalizzato. Cobas, Disobbedienti, lillipuziani, pink bloc e le altre migliaia di persone scese in piazza si ritrovano schiacciate dalle cariche e dai lacrimogeni. L’asfalto si macchia del sangue dei manifestanti e dei passanti pestati. Le forze dell’ordine manganellano inferocite donne e uomini, vecchi e giovani, lanciano le camionette a tutta velocità sulla folla, investono manifestanti.

Impotenti di fronte alla repressione, moltissimi tra i manifestanti si convincono che la responsabilità del massacro non siano di polizia e carabinieri, ma dei ribelli. «È tutta colpa del black bloc», si sente ripetere. La logica di questa affermazione, che nasconde le cause reali dei fatti dietro giustificazioni di comodo, è la stessa che fa dire a tanti che la disoccupazione è causata dagli extracomunitari che rubano il lavoro agli italiani. Sta il fatto che da questo momento in poi si susseguono scene paradossali in cui sedicenti pacifisti sprangano ragazzi colpevoli di essere vestiti di nero, in cui altri chiedono protezione alla polizia oppure arrivano ad indicare agli agenti scatenati chi picchiare al proprio posto.

Altra sorte e altro clima, invece, accompagnano quei millecinquecento che, dopo la carica di via Torino, si sono diretti verso Brignole e piazza Giusti. Lì una parte della popolazione, a differenza dei tanti militanti presenti a Genova, ha saputo unirsi ai facinorosi e tutti – dal nerovestito all’anziana signora genovese con i suoi nipoti, ai vari manifestanti appena arrivati alla stazione – hanno potuto condividere la gioia di riappropriarsi di ciò di cui in quel momento avevano bisogno senza passare attraverso il ricatto del denaro, gustando il dolce sapore della gratuità e l’aria fresca della rottura delle regole. Vengono assaltati un tabaccaio ed un supermercato; quest'ultimo rimarrà aperto fino a sera, trasformandosi in un banchetto gratuito e in un luogo di discussione. Con la tecnica ormai assodata di non offrire le spalle alla sbirraglia, erigendo continuamente barricate lungo il percorso, gli insorti liberano, per qualche ora, un quartiere dalle banche e da altre espressioni del dominio. Nessuno sbirro riuscirà ad entrare nella zona fino alle 18.

Mentre le tute bianche si preparano per la «vestizione» con l’armatura da «buoni» al fine di «mettere in gioco i loro corpi», i millecinquecento «cattivi» si dirigono verso piazzale Marassi. Prima di arrivarvi si suddividono ancora in due gruppi. Alcuni se ne vanno perché non condividono la scelta degli obiettivi fatta fino a quel momento: si sarebbero accontentati volentieri di banche e grosse multinazionali, il resto è sembrato loro una perdita di tempo e di energie quando non un eccesso. Chi rimane quasi non si accorge di cosa gli si erge dinnanzi: lì c’è il carcere, lì ci sono centinaia di amici, fratelli, parenti, possibili complici rinchiusi. Le forze dell’ordine a difesa del carcere si dileguano in un battibaleno sotto gli attacchi dei rivoltosi, mentre dalle finestre i nonni osservano divertiti quanto sta succedendo.

Viene dato fuoco alla grande porta (purtroppo ignifuga), poi si cerca invano di sfondarla; vengono sfasciate le vetrate della sala colloqui, le finestre del primo piano (i detenuti sono concentrati all'ultimo) e l'ufficio del direttore, ma le poche molotov non bastano… a qualcuno sarà venuta voglia di tirarla giù coi denti! Ma chi avrebbe mai immaginato di arrivare fino a lì? E invece la complicità nella rivolta sincera e reale (non simulata, non rappresentata ma vissuta) si è svelata in tutta la sua potenzialità. Quale grande lezione: sottrarsi alla mafia dei collaborazionisti, della Nuova Polizia è possibile, ed è la chiave per liberare le diversità in modo che possano creare un reale pericolo per questa società fatta di gabbie. Sembra quasi che non resti altro che tornare a casa e mettere in pratica la lezione anche al di fuori dei grandi appuntamenti. Ma non è finita.

Sono passate ormai molte ore dall’inizio degli scontri e il gruppo di ribelli, finite le "munizioni", abbandona il carcere per salire la lunga scalinata Montaldo. Ritenendo la scalinata un ostacolo sufficiente a tener lontana la polizia, i rivoltosi non erigono barricate. Finiti i gradini c’è piazza Manin, la piazza tematica della Rete Lilliput. I cattolici, capeggiati da un prete, intimano al gruppo di allontanarsi e subito dopo la polizia sbuca dalla scalinata e bastona chi si trova davanti, cioè quelli che alzano le mani.

Inseguiti dalla polizia e scacciati dai preti, i ribelli ripiegano verso sud. Tutti i gruppi (compresi i rivoltosi che si erano uniti alla manifestazione della Federazione anarchica e del sindacalismo di base) si ritrovano ora ad ingrossare il corteo, inizialmente capeggiato dai Disobbedienti, ma che conta ormai più di 15.000 persone delle più varie tendenze. Quando il corteo giunge in via Tolemaide, verso le 14. 30, gli scontri sono già in corso. Mentre i portavoce si sgolano per dissociarsi dai danneggiamenti, dalle barricate e dalla violenza contro la violenza delle forze dell’ordine («è tutta colpa del black bloc», «sono stati gli anarchici»...) alle loro spalle una marea di manifestanti, tra urla di rabbia e di gioia, travolge i gendarmi e per ore tiene testa alle cariche. Oramai sono gli stessi militanti disobbedienti a sfuggire ai propri caporioni, anche perché la zona, priva di via uscita, non lascia altra scelta. Gli scontri sono violentissimi: un blindato dei carabinieri viene assaltato e dato alle fiamme; nel quartiere di San Fruttuoso vengono erette barricate e una parte della popolazione si unisce ai rivoltosi. Le forze dell'ordine usano gli idranti e le autoblindo. Più volte, attaccati da vie laterali a colpi di molotov, sono gli agenti a fuggire. Intanto, in Piazza Alimonda, alle 17.30, Carlo Giuliani viene assassinato durante un assalto a un Defender dei carabinieri. L'incredulità e una rabbia quasi paralizzante s'impadroniscono dei manifestanti, subito scosse dai gruppi che continuano a scontrarsi con le forze dell'ordine con un odio senza confini, urlando vendetta. Il grosso del corteo si ritira verso il Carlini, con la sbirraglia che carica, rastrella e pesta chi non riesce a stare nelle fila. Quando i manifestanti raggiungono lo stadio, le forze di polizia si ritirano dalla zona. Sono le 18. 30. Piccoli gruppi rimangono in centro continuando a scontrarsi con le forze dell'ordine. Gli ultimi gruppi si disperdono verso le 20, ma non prima che siano andate in fumo le banche di via Torti e di p.zza Rossetti.

Prima degli scontri di via Tolemaide, ad ovest, nel corteo dei sindacati di base, una sassaiola colpisce le truppe giornalistiche. Un folto gruppo si stacca dalla manifestazione per attaccare diverse banche prima di disperdersi inseguito dalla polizia. Altrove le forze dell'ordine incontrano diversi gruppi determinati a fronteggiare le cariche, anche con bombe carta. Mentre infuria la battaglia intorno a piazza Alimonda, viene attaccatala caserma dei carabinieri in via S. Martino.

Per il giorno successivo, sabato 21 luglio, molti sono quelli che spingono perché nulla succeda. Tra le voci istituzionali spiccano i DS che chiedono la sospensione del vertice ed invitano a non partecipare al corteo conclusivo. Usando il morto e gli scontri, sferrano un attacco ai concorrenti di destra, e definiscono il vertice un totale fallimento. Ma già dalle dieci varie azioni dirette vengono realizzate nelle zone limitrofe al concentramento del corteo.

In 300.000 scendono in piazza. Ligi alle richieste della questura e dei giornali, i servizi d’ordine del GSF (Rifondazione, Attac e Disobbedienti) aiutati dai Cobas concentrano la propria attenzione sui «black bloc». Addirittura, quando, dopo diverse cariche a freddo della polizia, alcuni costruiscono barricate dando fuoco alle macchine per proteggere il corteo, i servizi d’ordine tentano di cacciarli. Migliaia di manifestanti, non cogliendo affatto la lezione del giorno precedente, di fronte alle cariche alzano le mani pensando che questo li risparmierà: è un vero massacro. Finanzieri e poliziotti manganellano e prendono a calci persone inermi, intere famiglie con bambini, mentre gli elicotteri bombardano i manifestanti con i famigerati lacrimogeni "a grappoli". Alcuni rivoltosi attaccano la caserma di S. Giuliano (la stessa caserma dove gli arrestati saranno, nelle ore e nei giorni successi, sistematicamente torturati).

Verso nord, dopo che il corteo è stato spezzato in due dalle cariche, oltre il tunnel sotto la ferrovia vengono erette barricate che attutiscono di molto l’avanzata della polizia: qui tutti sembrano complici, cosiddetti black bloc, autonomi e anche gente di Rifondazione e dei Cobas. Lontano, in piazza Ferraris, si tengono i comizi che erano stati programmati, come se in città non stesse succedendo più nulla. In realtà sono proprio le barricate e gli scontri a tenere la polizia impegnata, lontana.

Le banche che si trovano lungo il percorso del corteo vengono sfondate e saccheggiate, quelle visitate il giorno prima ricevono una nuova visita: gli espropri del venerdì avevano sollecitato l’interesse e la voglia di emulazione di non poche persone («Vengo anch’io!» titolerà una successiva testimonianza sul 21 luglio).

Tra le 6 e le 7 del pomeriggio, le manifestazioni volgono al termine: tutto quello che la gente vuole adesso è ritornare a casa sana e salva. Non è un compito facile visti i rastrellamenti della polizia nelle strade, nei bar, negli anfratti, ovunque. Gli elicotteri volano ancora bassi, le sirene non smettono mai di assordare. Nella ritirata gruppi di rivoltosi continuano gli attacchi a banche e altri luoghi del capitale e, in via dei Mille, un commissariato di polizia si ritrova con il portone sfondato. Un gruppo consistente si dirige verso Brignole, attraversando il quartiere di Albaro, senza trascurare banche ed altre strutture nefande prima di unirsi con quelli che agivano al di là della ferrovia. Verso le 17. 30 tutti i gruppi si disperdono.

Molti si recano alla stazione di Brignole, altri nei centri di convergenza: non c’è molta possibilità di andare altrove. Anche muoversi dalla scuola Diaz, centro del GSF, alla stazione non è, nonostante la breve distanza, una decisione semplice. E poi: che fine hanno fatto tanti compagni? Sono molti quelli che mancano all’appello.

Qualcuno preferirà aspettarli alla Diaz, visto che lì c’è anche il primo soccorso dei sanitari e c’è anche posto per dormire. Quelli che si sono illusi che tutto sia finito, dimentichi di quello che è successo a Göteborg e a Praga, pagheranno cara la stanchezza. Alla fine dei precedenti controvertici, infatti, la polizia era entrata in azione nella notte ed aveva massacrato i manifestanti che si erano rifugiati nei luoghi fissati come ricovero. Era abbastanza verosimile che la sbirraglia avrebbe fatto la stessa cosa a Genova. Già la notte precedente si erano avute avvisaglie di questo tipo: continuavano a girare voci di assalti della polizia in vari campi e minacce che sarebbero arrivati anche altrove. La sera del 21, dopo la cacciata di Agnoletto, che durante tutto il giorno si era prodigato a calunniare, infamare e chiedere più repressione, e la sassaiola contro una colonna di macchine della polizia, qualcuno avrà cominciato ad avvertire un certo brivido di terrore. La voce si spargerà, ma per l’ennesima volta un’ingiustificata fiducia nei limiti della violenza dello Stato ridimensionerà l’imminente pericolo. Il resto della nottata è, purtroppo, la storia di una nota mattanza.

Alle tre, mentre una colonna di blindati della polizia passa nel quartiere della Foce, c'è un fitto lancio di pietre e bottiglie. Dalla mattina, invece, piazza Alimonda si riempie di persone che portano il proprio saluto a Carlo.

Chi crederà ancora, dopo Genova, che sia possibile traghettare l’odio per la miseria, l’isolamento, i disastri ecologici e le guerre verso il paradiso di un capitalismo dal volto umano, più equo e solidale?


Ma la piatta apologia non è mai il sale della terra. Il nostro intento non è solo quello di difendere il senso della sommossa genovese, come memoria di un avvenimento in sé conchiuso, bensì quello di rimetterlo in gioco. Per far questo è necessario evitare le schematizzazioni ed affrontare i nodi critici.

A Genova non c'erano soltanto i racket politici da un lato e i rivoltosi dall'altro (in parte organizzati e in parte unitisi spontaneamente alla sommossa). C'erano tante persone abituate a manifestazioni pacifiche e, più in generale, ad un "impegno politico" da dopolavoro che coinvolge ben poco la vita quotidiana. Per molti di questi, i capibastone delle varie mafie militanti non sono dei "recuperatori" – concetto che presuppone una soggiacente radicalità della quale i leader si approprierebbero per svuotarla –, bensì l'espressione di ciò che effettivamente desiderano: un modo un po' migliore, ma da ottenere senza grandi sforzi. Le buffonesche dichiarazioni di guerra dei Casarini volevano recuperare – quelle sì – la rabbia di un movimento che a Genova era comunque minoritario – ed è quello il recupero che è miseramente fallito. Per tutti gli altri la violenza dello Stato è stata un autentico trauma e le azioni di attacco una pratica difficilmente comprensibile. Quanto alla calunnia dei «black bloc infiltrati e manovrati dalla polizia», essa risultava rassicurante per le loro coscienze, dunque credibile. Anche la visione schematica del racket che manipola e recupera è in fondo, pur nella sua assoluta differenza, rassicurante. Il rapporto fra dirigenti e diretti non è così semplice, e va criticato nei due sensi. L'esplosione di Genova ha fatto i conti con anni di assenza di conflittualità sociale, segnati da cortei pacificati e da un'ideologia del dialogo democratico che è penetrata fin nelle ossa. Tutto ciò non si scalza in qualche ora. Dopo i fatti di luglio, molti rivoltosi non hanno saputo alimentare le fiamme di quei giorni nella continuità dei loro progetti, fuori dalle scadenze prefissate.

Se è vero che la rivolta non propone solo risposte diverse agli stessi problemi, ma cambia profondamente le domande (dagli Otto Grandi da fermare, a un intero modo di vita da sovvertire, per restare all'esempio genovese), è altrettanto vero che essa non fa sparire per magia i problemi, ma li distribuisce diversamente. Se in genere nella rivolta, oltre al piacere di vivere, s'innalza anche la capacità di smascherare i propri nemici, nessuna sommossa regala uno spirito critico che l'esperienza non abbia affinato. Da questo punto di vista è, ancora una volta, rassicurante bollare di «moralismo» chi preferiva attaccare banche e multinazionali piuttosto che sfasciare le cabine del telefono, o chi preferiva agire lontano dai cortei piuttosto che coinvolgere suo malgrado altri manifestanti – non i sedicenti disobbedienti, ma i tanti, tristi democratici – in possibili scontri. È vero che limitarsi ai "simboli" (che poi tali non sono) del capitalismo può essere un cliché militante rispetto al salto di qualità di una sommossa che mette in discussione tutta la città con i suoi rapporti alienati; ma è ideologico – questa volta nel senso dell'ideologia della teppa – vedere chissà che lucidità laddove non c'è che una muscolosa assenza di idee. La natura delle nostre analisi si riflette anche in ciò che distruggiamo, perché l'azione stessa contiene un suggerimento teorico.

Se la rivolta è un immenso spazio di possibilità che si apre, sta a ciascuno attraversalo a modo suo. Chi dice sommossa dice anche tanta miseria e tanta stupidità che si sprigionano, miseria e stupidità che la normalità capitalista organizza, incarcera e diluisce allo stesso tempo. Evitare ciò non è possibile – se non buttando, assieme all'acqua sporca, anche il bambino –, perché la libertà nasce sulle rovine e sul fango. Ma appiattirsi nella loro ripetizione non è necessario.

Nella difesa dei rivoltosi di Genova, nell'attacco senza mediazioni ai traghettatori del consenso, i problemi vanno tenuti aperti. Per far meglio la prossima volta, giacché solo le occasioni affilano le armi.

Documenti

G8, la paura della violenza e la scomparsa delle molotov

Luigi Manconi - La Repubblica 14 luglio 2001

Dal 1989, in Italia, non viene lanciata una bottiglia Molotov (se non da bande del tifo organizzato). E da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza (o quasi): in ogni caso, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ‘70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performances belliche - grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva - sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse - mi riferisco agli ultimi cinque anni e non al decennio 1967-1977 - con ruoli diversi, ma tutti relativi a un’attività qualificabile come di mediazione: prima e durante le manifestazioni. Questa opera di mediazione costituisce una novità solo relativa: anche negli anni ’60 e ’70 negli scontri di strada c’era una componente di recitato, che consentiva la negoziazione e favoriva l’attività dei negoziatori. Ma col passare del tempo e col ridursi della quota di violenza esercitata - e parallelamente alla crescita della quota di "simulazione militare" - è cresciuto anche il ruolo della mediazione. Il fatto è assai positivo per una considerazione di psicologia sociale che precede, e di molto, qualunque calcolo politico. In altri termini, i movimenti sociali sono portatori - oltre che di valori e di fini - di una carica di aggressività che è il segno del loro "antagonismo": ovvero della volontà di "cambiare le cose" e di "imporre" quel cambiamento a quanti vi si oppongono. Quell’aggressività non è rimuovibile interamente nè interamente governabile: ma non è destinata, di necessità, a tradursi in violenza contro le persone e le cose. Quell’aggressività può essere "contenuta" e sottoposta, appunto, a mediazione. "Contenere la violenza" è la formula utilizzata dal ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, e ha due possibili significati: riduzione della quota di violenza effettivamente esercitata; amministrazione di quella stessa quota con i minori danni possibili per tutti. Nell’ultimo decennio è accaduto esattamente questo, grazie alla "combinazione virtuosa" di due fattori: lo sviluppo di una intensa attività negoziale intorno alla gestione delle manifestazioni e il diffondersi di un uso controllato della forza da parte di alcuni settori di manifestanti. Il discorso è, evidentemente, delicato, ma va affrontato senza ipocrisie. Quando, all’interno dei regimi democratici, si manifestano movimenti collettivi di contestazione, una quota di violenza è fisiologica e costituisce un costo non eliminabile. Si tratta di decidere se reprimerla indiscriminatamente, quella quota, col rischio di radicalizzarla ed estenderla: oppure, appunto, "contenerla". Le "tute bianche" e quei settori di manifestanti che partecipano ai cortei con una "attrezzatura di autodifesa", che esercitano una pressione fisica e ricorrono all’uso controllato della forza, svolgono un ruolo ambiguo. Ma - questo è il punto - è un ruolo, a mio avviso, positivamente ambiguo. Offre a quell’aggressività di cui si diceva, un canale in cui esprimersi e, insieme, uno schema (rituale e agonistico) che l’amministra. Propone uno sbocco - e, dunque, in qualche misura rischia di incentivare la violenza - ma esercita un controllo e pone (tenta di porre) limiti. L’attività delle "tute bianche" è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo (e lo sport è, classicamente, la prosecuzione e la codificazione della guerra con mezzi incruenti), che depotenzia e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che essa viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento. Sia chiaro: il problema della violenza di piazza è cosa assai più complessa e ha radici profonde, ma - per una volta - considerarla sotto l’aspetto essenzialmente tecnico può essere utile. Mi spiego. La stragrande maggioranza del movimento italiano anti-globalizzazione è su posizioni di pacifismo integrale; una parte assai ridotta è favorevole alla radicalizzazione dello scontro (mi riferisco ai casseurs e a piccoli gruppi autonomi, luddisti e anarchici, che nella "violenza in sé", e nella sua funzione simbolica, credono e investono); una parte assai più ampia intrattiene con l’esercizio della forza un rapporto solo strumentale (finalizzata a uno scopo). Le cosiddette "tute bianche" rappresentano bene quest’ultima componente, ma non la esauriscono: accanto a loro, ma diversi da loro, operano i "gruppi di affinità", le associazioni che provengono da esperienze di nonviolenza classica e di disubbidienza civile e associazioni di cristiani radicali. Le "esercitazioni" messe in atto e in scena nei giorni scorsi - giovani che interpretano "poliziotti" che simulano di malmenare giovani che interpretano "manifestanti" - richiamano un’attività di "formazione" (e di vero e proprio training) alla nonviolenza. Le "tute bianche" portano al punto estremo - assai vicino a quello di rottura - il medesimo discorso della nonviolenza, declinato in forme assai differenti, e la disponibilità a ricorrere alla forza per conquistare "agibilità": ovvero luoghi e occasioni di presenza e di parola. A ben vedere, l’economia e la geometria dei cortei degli ultimi anni hanno avuto, tutti, questa posta in gioco: gli spazi da occupare. Nell’ottenere, o meno, l’obiettivo (raggiungere quella zona, entrare in quello spazio, partecipare a quella iniziativa), il movimento verifica la propria autonomia e la propria "autorità". Balza agli occhi la valenza eminentemente simbolica di una simile mobilitazione: e giova ricordare che i conflitti a più alta intensità simbolica sono quelli dove maggiore è il rischio di rottura. E’ esattamente per questo motivo che il ruolo di una mediazione, capace di tutelare gli investimenti simbolici di entrambi i contendenti, è così cruciale. In questo quadro, l’uso del corpo e della strumentazione di "autotutela" da parte delle "tute bianche" è, come si diceva, in precario equilibrio tra difesa e offesa: tra protezione della propria incolumità e uso del proprio corpo (e di ciò che lo "riveste": scudi in plexiglas, caschi da muratori, corpetti nautici...) come corpo contundente. E’ un rischio sottolineato anche da un leader dei "gruppi di affinità" ("alzare il livello di protezione personale può essere pericoloso: può elevare il livello offensivo e repressivo"): ma, come si è anticipato, finora i risultati sono stati, sia pure contraddittoriamente, positivi. E cito a conferma, ancora, quel dato: dal 1989, in Italia, non vengono lanciate bottiglie incendiarie. Vi sembra poco? (Ciò, va detto, non costituisce una garanzia sufficiente rispetto al G8 di Genova: la componente dei casseurs, esile e controllabile tra i manifestanti italiani, sarà più temibile quando si irrobustirà grazie agli apporti degli stranieri). Certo, anche nell’ultimo decennio si sono verificate violenze di piazza, ma i danni prodotti - in particolare, quelli alle persone - sono stati limitati (anche quando, come nel caso della manifestazione contro la visita di Haider in Vaticano, e in altre occasioni ancora, gli scontri sono stati aspri): e questo ha impedito che si innescasse una spirale di rappresaglie e ritorsioni. Il merito di una amministrazione non cruenta dell’ordine pubblico nell’ultimo decennio è, appunto, di quella "combinazione virtuosa" tra gestione controllata dell’aggressività da parte dei manifestanti e capacità di mediazione da parte dei responsabili dell’ordine pubblico. E qui possono risultare utili alcune testimonianze dirette. Un anno e mezzo fa, nel corso di una riunione nella prefettura di una città del Nord, i responsabili dell’ordine pubblico e alcuni leader di movimento discussero puntigliosamente e, infine, convennero minuziosamente - oltre che sul tragitto - sulla destinazione finale del corteo. E ci si accordò sul fatto che vi fosse un punto, segnalato da un numero civico, raggiungibile col consenso delle forze dell’ordine, e un altro punto, segnalato da un numero successivo, non "consentito", ma "tollerato". Lo spazio tra i due successivi limiti - un centinaio di metri - fu, poi, il "campo di battaglia" di uno scontro totalmente incruento e pressoché interamente simulato (ma tale non apparve nelle riprese televisive) tra manifestanti e polizia. In una situazione tutt’affatto diversa - il Gay Pride del 2000, a Roma - dove la variabile-violenza era assai remota, la mediazione sul tragitto del corteo fu altrettanto meticolosa. Un numero incalcolabile di riunioni a diversi livelli e in diverse sedi discusse dell’itinerario - per mesi! - e la meta del Colosseo assunse, ben presto, un intenso significato simbolico. La soluzione cui si giunse fu, poi, quella di un corteo che "lambiva" il Colosseo e ne percorreva una parte del perimetro esterno. In quella, e in altre circostanze, numerosi esponenti del centrodestra, allora all’opposizione, denunciarono il calabrachismo dei responsabili (politici e tecnici) dell’ordine pubblico; i più accaldati (o i più scemi) parlarono di "subalternità del governo ai centri sociali". E’ passato appena un anno e il centrodestra sembra aver imparato che la gestione pacifica dell’ordine pubblico e le strategie di "contenimento" della violenza sono una questione non solo di intelligenza e di razionalità, ma anche di buongoverno. Insomma, la parola d’ordine è: trattare senza farsi male.

Disobbedienza civile - Istruzioni per l'uso

Faremo disobbedienza civile - metteremo in gioco i nostri corpi

Avremo solo strumenti difensivi - se ci saranno cariche saranno contro persone che possono solo difendersi.

  1. Non abbiamo niente da nascondere: la nostra disobbedienza civile e pubblica, ed è stata ampiamente preannunciata.

  2. Nessuno potrà mettere in atto iniziative spontanee, di qualunque tipo, anche perché gli appuntamenti per discutere e organizzare la disobbedienza civile sono stati pubblici.

  3. La disobbedienza civile inizierà ogni volta che ci verrà impedito di andare avanti

  4. Siamo dotati esclusivamente di strumenti difensivi (giubbotti, paracolpi, caschetti, imbottiture varie) e, per scelta, non di strumenti offensivi. Questo vuoi dire che se la questura deciderà di caricare, farà verso soggetti non in grado di reagire attivamente.

  5. Se la polizia sparasse lacrimogeni, ci saranno ragazzi addetti a raccoglierli e a spegnerli. Verranno distribuiti limoni.

  6. Seguire le indicazioni delle tute bianche. Saranno in vari punti del corteo a dare indicazioni.

  7. Qualunque iniziativa va concordata con le tute bianche.

  8. Non ci deve essere né lancio di alcunché né altro che non sia concordato con gli organizzatori.

  9. In caso di fermi da parte della polizia comunicarli ai numeri telefonici. 010-5953626 010-5956511.

  10. Fare riferimento al furgone che si trova nel corteo e che darà indicazioni e informazioni.

  11. Durante il corteo nessuna iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto.

  12. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa succeda.

(volantino distribuito dalle Tute Bianche a Genova, il 25 maggio 2000, durante il corteo contro Tebio)

Comunicato stampa del Genoa Social Forum

Ribadiamo con forza il carattere pacifico e non violento delle manifestazioni e delle azioni che promuoveremo durante il vertice del G8. Assumiamo come dato positivo la pluralità delle voci al nostro interno emerse anche in questi giorni. Siamo per la contaminazione dei saperi, delle culture e delle pratiche tra di noi. La nostra pluralità è ricchezza. Abbiamo concluso la nostra assemblea con un ulteriore rafforzamento dell'unitarietà del nostro percorso collettivo. Nessuno si è escluso dal GSF e tantomeno nessuno ha chiesto che qualcuno uscisse. Molto si è discusso in questi giorni di violenza. Su questo noi diciamo che i riflettori devono essere puntati innanzitutto sulla violenza che il sistema economico neoliberista produce su gran parte del pianeta. Di questa violenza i principali responsabili sono proprio gli otto che saranno a Genova a luglio. Gli otto siedono sul banco degli imputati. Tuttavia, abbiamo discusso ampiamente delle scelte politiche e strategiche che dovranno guidare tutte le azioni di piazza da noi promosse in quei giorni. Abbiamo fatto tra di noi, e solennemente dichiariamo: noi scegliamo di agire nel pieno rispetto della città; noi scegliamo di non compiere attacchi contro alcuna persona, anche se in divisa. Le nostre scelte riguarderanno tutte le azioni che promuoveremo in quei giorni e che nuovamente rilanciamo. - La realizzazione di un Public Forum dal 15 al 22 di luglio - Il corteo internazionale dei migranti del 19 di luglio - L'isolamento della zona rossa del 20 di luglio. Sarà un'iniziativa comune che si svolgerà, attraverso azioni molteplici e diverse, con la contestazione e la disobbedienza, con l'accerchiamento dei corpi e delle parole, con la disobbedienza al divieto di accesso alla zona rossa. Salutiamo inoltre con favore le mobilitazioni delle lavoratrici e dei lavoratori con scioperi, cortei e le altre iniziative con cui si organizzeranno. - Il grande corteo di massa del 21 di luglio. Chiediamo inoltre che i genovesi, i quali subiscono in prima persona la violazione del loro territorio a causa della scelta di svolgere il vertice nel pieno centro della città, siano in piazza in massa a protestare. Sarà un appuntamento con la storia, perché saremo tantissimi e mostreremo ai potenti che un mondo diverso è possibile, e noi lo vogliamo. Aggiungiamo infine che troviamo indecente che le autorità locali competenti abbiano concesso spazi per le iniziative del tutto provocatorie di Forza Nuova fissate a Genova per il 30 giugno, giornata storica dell'antifascismo genovese e italiano. Ricordiamo peraltro che rispetto alle nostre richieste nessuna risposta ufficiale ci è stata fornita. Molti continuano a dichiarare a mezzo stampa vaghe disponibilità. Non ci interessano e ribadiamo la richiesta che l'On. Berlusconi ci riceva.

(Genova, 5 giugno 2001)


Ill.mo ministro Scajola,

Le inviamo questo piccolo oggetto di cui lei conoscerà sicuramente l'utilizzo e l'efficacia "mortale". E' un bossolo di un proiettile, un piccolissimo oggetto di metallo che evoca e simboleggia (e troppo spesso materializza) l'assassinio, il più brutale dei crimini che un essere umano può compiere nei confronti di un suo consimile. Noi l'abbiamo raccolto durante la guerra nell' ex-Jugoslavia, allorquando molti di noi si recarono - come volontari e osservatori di pace - in quelle regioni martoriate dall'odio e dalla più grande tragedia del genere umano: la guerra. La guerra, le tante guerre che in questi anni hanno contrassegnato in negativo la storia di questo pianeta, rappresentano il punto più alto della follia e della barbarie umana; il bossolo che Le inviamo, come tutti i bossoli che ogni giorno cadono a terra in ogni angolo del mondo, è un simbolo anche concreto di questa barbarie, semplicemente perché dietro questo bossolo ci potrebbe essere un bambino, una donna, un uomo (serbo, croato, mussulmano che sia) assassinato, una madre in lacrime, una comunità a lutto. Il mondo cresce, la globalizzazione neoliberista continua a produrre progresso e ricchezza (noi ci terremo a puntualizzare che la produce per un gruppo sempre più ristretto di elitès), ma noi dobbiamo continuare a fare i conti, ogni giorno sempre più, con questi strumenti diabolici che possono cancellare con la forza il diritto elementare alla vita. E questo, che dovrebbe essere inammissibile per qualsiasi ragione al mondo, dipende esclusivamente dalla discrezionalità di chi li detiene. Per questo motivo noi siamo contrari alle armi, alle guerre, contro cui ci siamo mobilitati negli anni passati, mentre le forze di governo e anche quelle di opposizione facevano propri i bombardamenti nei Balcani e legittimavano un nuovo concetto assurdo di "guerra umanitaria". Una guerra non potrà mai essere umanitaria.

A questo punto Lei si chiederà perché proprio a Lei questo bossolo. Le assicuriamo che non si tratta assolutamente di un atto intimidatorio, come capirà dal tono della presente missiva. E' piuttosto un invito a riflettere su quello che è successo a Goteborg durante lo svolgimento del vertice dell'Unione Europea di poche settimane fa. In tale occasione altri bossoli sono caduti in terra, altri esseri umani hanno rischiato di perdere la vita. Ma nella moderna e civile Svezia non era in corso nessuna guerra: c'erano semplicemente decine di migliaia di giovani e meno giovani che manifestavano e protestavano contro la globalizzazione neoliberista. La polizia ha scelto di aprire il fuoco sui manifestanti: per la prima volta, dopo decine di anni, nella moderna e civile Europa le forze dell'ordine attentano alla vita di un manifestante. Per quanta tensione ci fosse in quel frangente, per quanto radicali fossero le forme di lotte in quel momento adottate dai manifestanti, nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di sparare e di uccidere. Gli spari di Goteborg rappresentano un'evidente e pericolosissima discontinuità, un campanello d'allarme su cui non possiamo soprassedere. In anni nemmeno troppo remoti abbiamo visto con quale drammatica rapidità si è innestata una perversa spirale di violenza che ha conformato il rapporto istituzioni e movimenti nell'ottica della sistematica repressione.

Oggi, a fronte di un movimento anti-globalizzazione che cresce ogni giorno sempre più, che raccoglie sempre più consensi nella società, ci potrebbe essere - come nel passato c'è stato per altri movimenti - la tentazione di fermare la sua crescita espansiva con il terrore e con il sangue. Noi l'abbiamo provato sulla nostra pelle, a Napoli il 17 marzo al termine del contro global forum, allorquando in piazza Municipio alcuni reparti della celere scelsero di compiere un pestaggio indiscriminato e di massa nei confronti delle migliaia di manifestanti presenti quel giorno in piazza, senza lasciar loro alcuna via d'uscita e di deflusso. Centinaia di feriti, un inchiesta della magistratura e del ministero ancora in corso, che speriamo Lei si attivi per portarla a termine, per individuare i responsabili e i "mandanti" di quel mezzogiorno di fuoco.

A tal proposito Le abbiamo inviato anche una copia del Libro bianco sui fatti di Napoli, con oltre 70 testimonianze sulla brutalità e la violenza poliziesca, che speriamo abbia modo e tempo di leggere attentamente. Ma i feriti di Napoli, per quanto numerosi e gravi, sono poca cosa rispetto a Goteborg: la nostra preoccupazione è che Napoli, Goteborg, ma anche Praga, Nizza, segnano con evidenza il tentativo sia di brandire con più sistematicità la carota (e qui gli sforzi per il dialogo del ministro Ruggiero, che con determinazione rimandiamo al mittente), ma anche di utilizzare con più forza il bastone. La nostra preoccupazione è che il prossimo passaggio, a questo punto, possa essere l'assassinio, un cadavere che sia da monito per questo movimento, un morto con cui "desertificare" il consenso e le simpatie che in questi anni con tenacia siamo riusciti a costruire intorno alle nostre battaglie. A Genova questo non dovrà succedere. Per questo motivo Le chiediamo di schierare le forze dell'ordine senza le munizioni delle loro armi, adottando l'esempio lungimirante del Questore di Reggio Calabria, che durante i moti del 1970 scelse questa strategia, per evitare degenerazioni incontrollabili. I 18.000 uomini in divisa schierati in quei giorni, avranno a disposizione elicotteri, manganelli, idranti, scudi, lacrimogeni, insomma tutto il necessario per fronteggiare eventuali problemi d'ordine pubblico: ma i proiettili non servono - e possono diventare pericolosi - soprattutto nelle mani dei tanti giovani in divisa che da settimane subiscono, come del resto tutti gli italiani, una sorta di terrorismo psicologico nei confronti di questa calata di "barbari" (come troppo spesso viene dipinto il cosiddetto popolo di Seatle) che arriverà per il G8 a Genova. E' una richiesta legittima, a nostro avviso, nella speranza di non dover raccogliere altri bossoli per le strade di Genova. Le chiediamo ufficialmente, quindi che ogni strumento atto ad uccidere non sia a disposizione delle forze dell'ordine schierate il 19, 20, 21 luglio a Genova.

A nostro avviso, il segnale più efficace che il governo italiano può a dare ai manifestanti, al fine di stemperare le tensioni a cui invece sta contribuendo in modo formidabile ad alimentare, è proprio quello di garantire che in piazza non ci siano armi capaci di uccidere.

Non vogliamo un'altra Napoli né tantomeno un'altra Goteborg. Speriamo che Lei convenga.

Con osservanza,

-Francesco Caruso- (Rete No Global), Napoli, 28 giugno 2001

Lettera aperta a Heidi Giuliani

testo comparso su Indymedia

Gentile Signora,

sono trascorsi più di due anni da quel 20 luglio 2001, giorno in cui lei ha vissuto il dramma della perdita di un figlio, Carlo, rimasto steso sul selciato di una piazza a Genova, ucciso con un colpo in testa sparato da un servitore dello Stato (poco importa se giovane ed inesperto carabiniere, o cos’altro). Possiamo solo immaginare il dolore da lei provato, dolore che - ne siamo certi - non l’ha ancora abbandonata. La tragedia che l’ha travolta, lei come suo marito, è di natura tale che può suscitare solo rispetto e comprensione.

Detto questo, non possiamo fare a meno di osservare che lei, signora Giuliani, ci sembra stia davvero abusando e del rispetto e della comprensione che le è dovuta. Da quel giorno, lei è diventata un’icona, un simbolo, una bandiera. Ma di cosa, ci chiediamo e le chiediamo, e a favore di chi? Passato il primo periodo, durante il quale era suo marito ad esprimere le proprie idee in nome, per conto, e con l’avallo morale del cadavere di suo figlio, è poi toccato a lei andare (venire portata?) in giro a concedere la sua benedizione laddove era richiesta. In Italia, si sa, la mamma è sempre la Mamma: dolce, affettuosa, amata da tutti (e di sicuro più presentabile di un padre sindacalista). E’ questa oggi la sua missione, signora Giuliani? E’ questa la sua ragione di vita? Per quanto le possano apparire sgradevoli, ci permetta di farle notare alcune cose.

In primo luogo troviamo quanto meno singolare che lei si dedichi con devozione alla causa di coloro che hanno infangato la memoria di suo figlio. I vari affiliati della compagnia Agnoletto & Casarini — responsabili di aver mandato allo sbaraglio migliaia di manifestanti a Genova con la ridicola assicurazione che tutto si sarebbe risolto in una contestazione simulata — sono quelli che, poche ore dopo la morte di suo figlio, hanno pubblicamente definito Carlo un "punkabbestia" per allontanarlo da se stessi. Sa com’è, il sangue caldo di Carlo poteva macchiare irreparabilmente il candore delle loro Tute Bianche... Ma una volta coagulato, questo stesso sangue non costituiva più un pericolo per loro e hanno così deciso di utilizzarlo per ravvivare la propria opaca bandiera. Un martire, finalmente! Poco importa, poi, se ai loro occhi di politicanti Carlo vivo sarebbe stato solo un provocatore o un infiltrato dei carabinieri. Per loro fortuna, Carlo è morto. Ma la loro fortuna, evidentemente, non è la sua. Lei, signora Giuliani, come può trovarsi accanto a simili avvoltoi?

Noi rispettiamo la sua volontà di ricordare suo figlio, Carlo Giuliani, ragazzo. Comprendiamo il suo desiderio di non dimenticare la sua vita. Per realizzare questo scopo, lei rilascia interviste, tiene conferenze, partecipa a film-documentari. Ora è la volta dei Cobas. Ma così facendo lei manca di rispetto a Carlo Giuliani, insorto. Lei ne dimentica la morte. Lei, signora Giuliani, assieme allo stormo di avvoltoi con cui si accompagna, si sta dando da fare per cancellare l’attimo della morte di suo figlio per poterne ricordare solo gli anni di vita. Tutto ciò è comprensibile in una madre addolorata, certo, ma non è condivisibile che simili preoccupazioni private vengano spacciate per ragioni pubbliche (ad uso e consumo dello stormo di avvoltoi).

Signora Giuliani, si tolga gli occhiali scuri del lutto e del dolore per un istante e guardi in faccia alla realtà. Non è Carlo Giuliani, ragazzo, ad essere diventato famoso in tutto il mondo. E’ Carlo Giuliani, insorto. Non è la sua vita che merita di essere ricordata da tutti, ma la sua morte. Carlo Giuliani, ragazzo, forse sarebbe morto con un fiore in mano e un sorriso sulle labbra, mentre correva sulla spiaggia. Ma Carlo Giuliani, insorto, è morto con un estintore in pugno come arma e il passamontagna calato sul viso, mentre si batteva contro la sbirraglia che in quei giorni ha massacrato e torturato centinaia di manifestanti a Genova, mentre si batteva contro i servi dello Stato che per questo lo hanno ucciso come un cane. Quel giorno di luglio è toccato a lui, come è toccato a molti altri prima di lui, come toccherà a molti altri dopo di lui. Finché esisteranno servi, finché esisterà uno Stato. E’ questo ciò che non va dimenticato, E’ questo ciò che non va strumentalizzato. Ed è proprio questo che lei, signora Giuliani, sta dimenticando e strumentalizzando. In buona fede, ne possiamo convenire, ma lo sta facendo. Non pensa che sia ora di smetterla? Non pensa che il dolore per la morte di un figlio sia e debba essere un fatto intimo, senza venire usato come neon pubblicitario nel grande baraccone della politica? Ci pensi, signora Giuliani, ci pensi bene.

E’ tutto qui quanto avevamo da dirle. Naturalmente lei continuerà a ricordare Carlo Giuliani, suo figlio, il ragazzo che conosceva così bene. Ma non si meravigli, né si indigni, se noi - e molti altri con noi - ricorderemo sempre un altro Carlo Giuliani, l’insorto che non abbiamo mai conosciuto. Non sappiamo come è vissuto, è vero, cosa faceva, cosa pensava, cosa sognava. Ma sappiamo come è morto.

E questo, ci creda, nessuna lacrima di madre, nessun battito d’ala di avvoltoio potrà mai farcelo dimenticare.

Noi della Diaz

Manifesto, diffuso su Indymedia, dell’iniziativa tenutasi a Genova il 14 luglio 2002

È passato un anno dalla "perquisizione" avvenuta nella scuola Diaz/Pertini nella notte tra il 21 e il 22 luglio. Frammenti di verità continuano ad emergere, ma il tempo e altre urgenze spingono sullo sfondo della memoria il quadro d’insieme di ciò che è successo quella notte, e le ragioni: come è potuto accadere, e perché.

Non è una verità giudiziaria quella che cerchiamo. Vogliamo però mantenere fede a una promessa: fare incontrare i 15 italiani che quella notte erano nella Diaz/Pertini e sono stati massacrati di botte dalla polizia. Come scrive nel suo libro il nostro amico e collega Lorenzo Guadagnucci, giornalista della redazione economica de "Il Resto del Carlino", che quella notte era appunto uno dei 15: "Noi della Diaz, noi quindici liberati, dovremmo riunirci, conoscerci e mostrarci in pubblico: offriremmo uno spaccato interessante di questo popolo che qualcuno vorrebbe dipingere come un’accolita di facinorosi…".

A un anno di distanza abbiamo chiesto all’amministrazione provinciale proprio quel luogo, la scuola Diaz/Pertini[1], per un incontro pubblico con "quelli della Diaz": alcuni di loro li abbiamo incontrati in questi mesi in giro per l’Italia, con gli altri (anche i ragazzi stranieri) abbiamo cercato di metterci in contatto. Molti di loro verranno. (Se sei uno dei ragazzi della Diaz, o se ne conosci, per favore contattaci il prima possibile redazione@altreconomia.it)E, insieme a loro, abbiamo invitato alcuni sindacalisti di polizia, perché crediamo che sia importante costruire nuovi canali di dialogo fra la società civile e le forze dell’ordine, e stabilire uno spazio di confronto e di approfondimento sul percorso storico di democratizzazione e smilitarizzazione della polizia e sulla ricerca di nuovi percorsi di formazione e di prevenzione della violenza.

Ci saranno anche giornalisti, avvocati, esperti, esponenti della società civile. Ma, per una volta, sarà più importante la platea che il tavolo dei relatori: esserci, per testimoniare e per fare un passo insieme.

Per questo ti chiediamo di essere con noi per un giorno ancora, dentro la Diaz. Perché non accada più, a nessuno.

Ripensare la polizia
Ci siamo scoperti diversi da quello che pensavamo di essere

Testo di invito alla presentazione del libro omonimo di Marcello Zinola

Attilio Lugli (Presidente Ordine Giornalisti Liguria), Massimo Calandri (Repubblica), Claudio Caviglia (Secolo XIX) presenteranno il libro: "Ripensare la polizia. ci siamo scoperti diversi da quello che pensavamo di essere" di Marcello Zinola (con prefazione di Nando Dalla Chiesa - Fratelli Frilli Editori)

Interverranno: Angela Burlando (ex Vice Questore e Consigliere Comunale DS Genova), Roberto Martinelli (Segretario Nazionale Agenti SAPPE), Alessandro Pilotto (Silp per la CGIL).

Il libro: Le "polizie": sotto il manganello niente? No, sotto quegli elmetti con la celata calata sul viso di uomini sudati, urlanti, sanguinanti ci sono delle teste pensanti. Coscientemente conviventi con la violenza che hanno praticato e subito, oppure no? La domanda e una prima serie di risposte sono in "Ripensare la polizia. Ci siamo scoperti diversi da come pensavamo di essere" dove alcune di quelle teste si sono confrontate e hanno spiegato, riflettuto sul metodo-polizia. Durante il G8 la polizia fu usata, vertici e bassa forza furono strumenti inconsapevoli della repressione? Ci fu una strategia preventiva precisa e razionale? Oppure sulla gestione dell’ordine pubblico ha influito soprattutto la "necessità", per i vertici della Polizia, di rendersi credibili e affidabili con il nuovo governo di centrodestra? Sono questi alcuni dei quesiti attorno ai quali si dipanano gli interventi-intervista ad appartenenti alla Polizia, rappresentanti sindacali di diverse sponde. Rivelando episodi, reazioni, sensazioni sconosciute. Dalle polizie di Genova (il metodo cambierà poi in vista delle manifestazioni del social Forum Europeo di Firenze) emerge netta "la rottura della gestione negoziata e pacifica delle regole del disordine" come spiega, nell’intervista-analisi, il sociologo Salvatore Palidda. "Lo spaccato del libro - scrive Nando Dalla Chiesa nella prefazione - consegna a chi voglia responsabilmente guidare il paese, il tema della formazione delle forze dell’ordine in tutta la sua densità e consistenza: tema cruciale di ogni progetto di governo. Genova 2001 è stato, in questo dibattito, un doloroso spartiacque, con un concorso di diversi fattori che sarebbe ben difficile ripetere in qualsiasi prova di laboratorio".

Libro contiene interviste a: Angela Burlando, Vincenzo Canterini, Roberto Martinelli, Luigi Notari, Giovanni Paladini, Salvatore Palidda, Alessandro Pilotto. Prefazione di Nando Dalla Chiesa.

L’autore: Marcello Zinola, giornalista professionista. Inizia la professione nel 1973 a "Il Lavoro" di Genova, lavorando o collaborando successivamente con l’Agi Agenzia Italia, l’Ansa, "La Gazzetta del Popolo", "Il Manifesto". Lavora dal 1981 a "Il Secolo XIX".

La ronda

Nei primi giorni del luglio 1780, il popolaccio di Londra si solleva al grido di "No alla schiavitù!". Le cantine dei dignitari e le distillerie di acquavite vengono messe a sacco, le prigioni incendiate; la Banca d’Inghilterra è assediata dai furiosi.

Quest’insurrezione senza capo né dottrina – che gli storici di ogni risma hanno occultato e calunniato sperando di farla dimenticare pere sempre – è l’alba della contemporaneità. È il primo atto d’insubordinazione contro quell’ordine del mondo che in quegli anni nasceva e che da allora stinge in un assedio sempre più soffocante le nostre vite.

Dopo quelle brevi giornate, molte altre volte si è cercato di dare fuoco alle stesse polveri. In un paio di occasioni (Parigi nel 1871 come Barcellona nel 1936) ne sono nati maestosi incendi che hanno illuminato il cielo della storia. Altre volte l’incendio è stato soffocato un attimo prima che diventasse incontrollabile (Berlino nel 1919 come Parigi nel 1968); molto più spesso se ne sono viste soltanto le scintille. Anche Genova aveva vissuto uno di questi momenti quando, nel 1960, la rivolta non ha avuto bisogno di capi per fare della città una caccia senza quartiere alla canaglia fascista.

Oggi, sotto la sempre più spessa coltre delle ceneri dell’alienazione, covano ancora i fuochi che hanno portato alla Comune e alla rivoluzione spagnola. Ed è per soffiare su quelle ceneri e per esprimere quell’esigenza di rivolta che scenderemo per le strade in occasione del G8.

Dal momento che non ci interessa partecipare a quello spettacolo del rifiuto la cui organizzazione è il triste mestiere di molti, quanto esprimere il nostro rifiuto per ciò che qui e ora nega alle nostre vite la bellezza a cui esse hanno diritto, non arruoleremo truppe né ci distingueremo con bandiere o tute. Se le nostre soluzioni ci permetteranno di incontrarci in molti sarà bello tentare un nuovo assalto all’ordine del mondo; altrimenti basteremo a noi stessi con il nostro furore.

Foglio di propaganda per la conversione di una farsa annunciata in sommossa reale

(volantino comparso a Genova, aprile 2001)

Bruciando ogni illusione stasera…

Se noi siamo qui, non è come attivisti di professione dell’antiglobalizzazione per cercare di trovare una mediazione tra le marionette dell’economia e le sue "vittime", o per agire in nome di altri (gli "invisibili", i proletari in rivolta contro il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, i rifugiati, i lavoratori precari). Non vogliamo rappresentare nessuno e sputiamo sulla faccia di coloro che aspirano a rappresentare noi. Ciò che noi chiamiamo esclusione non è l’esclusione dai centri dove si prendono le decisioni economiche, è la perdita della nostra vita e della nostra attività di proletari per colpa dell’economia.

Se noi siamo qui, non è perché preferiamo il commercio equo-solidale al libero commercio, né perché pensiamo che la globalizzazione indebolisca il potere degli stati-nazione. Noi non siamo qui perché pensiamo che lo stato sia controllato da istituzioni non democratiche, né perché vogliamo più controllo sui mercati. Noi siamo qui perché ogni tipo di commercio è commercio della miseria umana, perché tutti gli stati sono prigioni, perché la democrazia oscura la dittatura del capitale.

Se noi siamo qui, non è perché consideriamo i proletari come vittime, né perché vogliamo porci come loro protettori. Non siamo qui per farci impressionare dagli scontri spettacolari, ma per imparare le tattiche dello scontro di classe quotidiano portato avanti dagli scioperanti dell’Ansaldo e dai proletari disubbidienti dell’industria metalmeccanica. Noi siamo venuti qui per scambiare le nostre esperienze di spossessati di tutto il mondo.

Se noi siamo qui, non è come membri delle numerose ONG, delle lobbies ufficiali, di ATTAC o di tutti quelli che vogliono semplicemente essere inclusi nelle discussioni sulla modernizzazione del capitalismo e che sperano che le loro proposte (per esempio la Tobin Tax) riusciranno a salvare i rapporti sociali capitalisti, ovvero proprio quei rapporti che perpetuano la nostra alienazione e il nostro sfruttamento.

Se noi siamo qui, è come proletari che riconoscono il capitalismo non nelle riunioni dei gangster, ma nella perdita quotidiana delle nostre vite – nelle fabbriche, nei call-centers, come disoccupati – per i bisogni dell’economia. Noi non parliamo a nome di chissà chi, noi partiamo dalle nostre condizioni d’esistenza. Il capitalismo non esiste a causa del G8, è il G8 che esiste a causa del capitalismo.

Il capitalismo non è nient’altro che l’espropriazione della nostra attività, che si rivolta contro di noi come una forza aliena. La nostra festa contro il capitalismo non ha inizio né fine, non è uno spettacolo predeterminato, non ha una data fissata. Il nostro futuro si trova al di là di ogni mediazione, oltre gli stati-nazione, oltre ogni tentativo di riformare il capitalismo. Il nostro futuro si trova nella distruzione dell’economia.

Per l’abolizione dello stato e del capitale. Per la comunità umana mondiale.

Proletari contro le macchine

(volantino del gruppo Precari Nati)

Testimonianze

[…] riusciamo ad approdare in prossimità di piazza Manin e di là scendiamo per un grande e lunghissimo corso in fondo al quale un nutrito gruppo di militanti pacifisti (in grandissima parte contrassegnati dalle magliette di Lilliput) stava manifestando. Nel mentre tentavamo di capire quale percorso fare per avvicinarci a zone gestite da compagni più omologhi ai nostri metodi di lotta (non foss'altro per il piacere estetico di dimostrare sotto una simbologia a noi cara), una serie di cariche non violentissime – e senza spari di lacrimogeni – ma ravvicinate e costanti, costringeva tutti a ripiegare verso la piazza da cui provenivamo, manovra che preludeva, col senno di poi, all'imminente mattanza. Tengo a rimarcare che nessuna violenza, neanche sulle cose, era stata compiuta dai manifestanti, né si vedeva fra loro la benché minima presenza di tute nere (a rimarcare che i celerini non aspettavano questi per attaccare, anzi spingevano ad assembrare tutti in pochi punti per poi caricare nella calca con più successo e danno per tutti. […]

P.zza Manin era gestita da militanti pacifisti cattolici, capeggiati da Don… (non ricordo come si chiama); immediatamente, evidentemente respinti dalle cariche della polizia, e senza nessun atteggiamento provocatorio nei confronti della piazza, sono arrivati da un'altra strada un gruppo di manifestanti bardati con le giacche e i cappucci neri, i carrelli dei supermercati riempiti di pietre e le spranghe e le catene in mano, insomma tutta la panoplia con cui ho imparato da quel momento a riconoscere il cosiddetto blocco nero.

Con fare estremamente aggressivo e provocatorio (anche se ovviamente si riduceva a un accerchiamento molto stretto con le mani tinte di bianco e alzate) i pacifisti capeggiati dal prete di cui sopra li hanno sostanzialmente circondati e invitati pressantemente ad andarsene, i Black bloc sembravano piuttosto increduli e la situazione non è diventata tesa anche perché noi cercavamo quasi scherzosamente di dissuaderli («Compagno, quando un prete si avvicina per darti la mano è segno di sfiga imminenete!»). In quel momento una salva fittissima di candelotti fumogeni si è abbattuta fra noi che abbiamo seguito il Black bloc per altre vie laterali mentre i pacifisti a mani alzate sono andati a incalzare i poliziotti, mi sembra, con scarsissimo successo.

Intanto ci addentriamo così, fra l'asfissia, le lacrime e l'insopportabile bruciore al volto, nei quartieri devastati, mentre i Black bloc ogni cento metri costituivano piccole barricate con qualcuno lasciato a coprire la ritirata. Nei nostri confronti (noi eravamo vestiti in abiti molto civili, io appesantito da un enorme zaino sulle spalle e reso goffo da un ingombrante zaino in mano) si sono comportati in maniera estremamente attenta e protettiva lasciandoci sempre passare per primi, avvisandoci delle strade senza uscita, addirittura offrendoci da bere nei momenti più tranquilli (e intendo con queste notazioni dare risalto – dal momento che è una sensazione in gran parte irraccontabile – alla stralunata pazzesca e gioiosa solidarietà che soccorre i momenti più incerti della manifestazione), smontando e rimontando barricate in venti secondi al passaggio di autoambulanze e macchine di passanti ignari: insomma, non dico di condividere le posizioni e i metodi di questi compagni, ma a me hanno fatto l'esatto contrario dell'impressione di essere in combutta o infiltrati e diretti dalla polizia, e nemmeno di creare disturbo ed esporre inutilmente alla furia dei carabinieri i manifestanti pacifici, ma è chiaro che per affermare ciò con sicurezza bisognerebbe avere una visione d'insieme, io ho solo da proporre la mia personalissima, e in più confusa dalla scarsa cognizione logistica.

I quartieri in cui si respirava evidentissima l'aria della guerriglia urbana venivano devastati sì, ma con un'asburgica precisione selettiva: tutte le banche, le agenzie di assicurazione, i supermarket: del tutto integri i negozietti artigianali; di una fila di venti macchine, alcune anche lussuose, erano state lasciate illese le prime diciassette, la diciottesima distrutta, la diciannovesima sana, la ventesima sfondata e incendiata: assoluta casualità? Incuriositi abbiamo notato che le macchine distrutte erano contrassegnate da simboli aziendali, non erano macchine di privati; alcune utilitarie si trovavano distrutte anch'esse incendiate, ma al centro della strada: erano evidentemente servite come barricate per fermare la furia delle camionette della polizia, che intanto, a velocità assassina, sfrecciavano all'improvviso.

(A. di Milano, in Umanità Nova n° 28, 5 agosto 2001)

Arrivando a Genova qualche giorno prima del G8, scopriamo una città in stato d'assedio. Erano mesi che la grancassa mediatica coltivava la psicosi e che lo Stato italiano cercava di impedire alle persone di venire, attraverso una dimostrazione di forza dissuasiva. Ovunque ci si trovi, si ha sempre una truppa di poliziotti nel proprio campo visivo. Sono rappresentati tutti i corpi: la polizia (tra gli altri, la Digos), i carabinieri (con i Ros), la guardia di finanza, la polizia penitenziaria, la polizia municipale, le guardie giurate e anche quelle forestali.

È in questo ambiente che i contestatori cominciano a riunirsi nei luoghi d'accoglienza previsti. Nei tre giorni precedenti la manifestazione del venerdì i gruppi radicali tengono numerose assemblee. Queste riunioni non vengono fatte per prendere decisioni formali, ma si discute di motivazioni, di voglie, di obiettivi e di mezzi che ci si può dare. Esse permettono anche di incontrarsi, di riconoscersi, di contarsi, di giudicarsi e di cospirare. È un po' un casino per il fatto che esistono tre luoghi di discussione che raccolgono ognuno più di cento persone – di cui numerosi delegati. Molti sono costretti a fare da spola o devono dividersi fra le diverse assemblee; è un po' complicato perché si deve ogni volta attraversare i dispositivi polizieschi. Tutto viene discusso in comune da gruppi di affinità, senza capi, senza eletti, senza mozioni, senza commissioni. Le problematiche emergono durante i dibattiti: in quale parte della città recarsi? Chi saranno i migliori alleati? Bisogna entrare nella zona proibita o, al contrario, non cadere nella trappola tesa; trappola tanto militare (attaccare dove lo Stato decide) che politica (il capitalismo è una costruzione di rapporti sociali e dispositivi e non 8 capi di Stato che bisogna cambiare? Alla fine un gruppo decide che andrà ad ovest con la Federazione anarchica italiana, i Cub e le Rdb; e un altro gruppo andrà a est, nella piazza tematica dei Cobas e del Network. È la sola decisione presa da queste assemblee poiché, a causa di tutte le diversità e del dispiegamento di forze dello Stato, era chiaro che tutto sarebbe stato improvvisato nelle strade.

In questo testo utilizzeremo il termine "rivoltosi" [émeutiers, alla lettera "partecipanti a una sommossa"] per indicare i partecipanti agli scontri. Che sia chiaro che queste persone non rappresentano in alcun caso una organizzazione, un esercito, un gruppo omogeneo con un unico ed omogeneo pensiero. Esse vengono da ogni parte e da tutte le tendenze (anarchici, autonomi, antimperialisti, squatter, sindacalisti rivoluzionari, ecc.) a cui si sono aggiunti molti gruppi (militanti e non). Non si può in nessun caso ridurle a quello che i media, i poliziotti e le organizzazioni di sinistra chiamano il Black Bloc, con riferimento ai diversi gruppi che hanno manifestato durante la rivolta di Seattle.

La prima manifestazione del giovedì 19 a favore degli immigrati ha permesso di rendersi conto che malgrado l'apparato dissuasivo, molti hanno potuto raggiungere Genova e che il perimetro attorno alla zona rossa – la zona gialla – era ben sorvegliato dalle forze dell'ordine. Lo stesso giorno, si apprende che scontri tra la polizia e alcuni manifestanti greci hanno avuto luogo alla frontiera.

Il venerdì verso mezzogiorno un corteo di circa 600 persone mascherate ed equipaggiate si reca al punto d'incontro ad est, dove vanno a raggiungere più di 2000 autonomi e numerosi altri gruppi. Tutto comincia molto in fretta. Una banca e poi un'altra vengono parzialmente devastate. I poliziotti rispondono immediatamente tirando lacrimogeni e respingono lentamente il corteo beccandosi alcuni lanci di pietre e di bottiglie incendiarie. Le prime cariche dividono la manifestazione – alcuni si dirigono verso il lungomare, dove vengono erette barricate, saccheggiate banche e attaccata una caserma dei carabinieri –, mentre all'incirca duemila rivoltosi si dirigono verso nord, seguiti da molto lontano da cordoni della polizia. Verso le 13 alcune persone s'impadroniscono di alcune automobili e le lasciano, dopo un simpatico rodeo, in mezzo ad un incrocio. Lì vengono distrutte e incendiate con l'autoradio a pieno volume. Un giornalista, un po' troppo concentrato sul suo zoom, vede la sua enorme Betacam nel mezzo del fuoco. I suoi colleghi cominciano ad arrivare dappertutto e hanno molte difficoltà a fare il loro lavoro, tanto vengono importunati non appena tirano fuori il loro materiale. Il gruppo si allunga e viene rinforzato da numerosi giovani genovesi e parecchi manifestanti appena arrivati in treno (gli scontri si collocano non lontano dalla stazione ferroviaria). Ci si dirige verso nord-est. Le rappresentazioni dello Stato, banche, assicurazioni, agenzie immobiliari e di viaggio, poste, concessionari, vengono sistematicamente distrutte e alcuni cercano di dare fuoco a una chiesa. Per il resto le cose avvengono in funzione dei bisogni. Un tabacchino viene scassinato e i pacchetti di sigarette vengono distribuiti attorno, molti sono gli abitanti che escono dai palazzi per "prendersi la loro parte". La folla s'impadronisce di un supermercato che viene trasformato in un self service gratuito (resterà aperto fino alle 18 e persone provenienti da tutti i cortei, compresi molti pacifisti, verranno a ristorarsi). Tutto ciò nel massimo spirito collettivo: tutti partecipano. Si possono vedere centinaia di persone mascherate mangiare gelati, addentare forme di formaggio, bere vino, champagne e bibite gasate. I cantieri, le pompe di benzina, un negozio di moto vengono messi a disposizione per recuperare materiale: "proiettili" di vari tipi, prodotti infiammabili, caschi, mazze di ferro… (alcuni palloni da calcio e da rugby vengono trovati nella pompa di benzina e allora vengono improvvisate piccole partite sul posto).

È verso le 15 che il gruppo si divide in due: una parte torna verso la zona rossa, mentre altri 1500 circa partono verso nord. Questi passano a un tiro di schioppo dalle carceri ma non se ne accorgono. Trovandosi dall'altro lato di un immenso parcheggio, chiuso tra lo stadio e un banale gruppo di case, il carcere di Marassi è assai discreto. Il corteo sta già per salire un'interminabile scalinata, quando una ventina di persone uscite dal gruppo di coda attraversano il parcheggio e lanciano una carica contro i tre furgoni blindati e la jeep dei carabinieri appostati davanti alla prigione. I carabinieri rispondono lanciando gas lacrimogeni, mentre gli assalitori sono raggiunti da un centinaio di rivoltosi (il corteo resta a protezione). L'assalto si fa più deciso e i poliziotti cominciano a spaventarsi, ripiegano rapidamente e risalgono sui veicoli sotto una pioggia di "proiettili". Un furgone nel panico ha molte difficoltà a divincolarsi da un gruppo di accaniti che tentano di sfondare i vetri, prima di riuscire a fuggire al seguito degli altri furgoni. I giornali annunciavano che la prigione era stata svuotata dei tre quarti dei detenuti prima del G8 al fine di poterla riempire con i manifestanti catturati e per evitare ogni rischio di rivolta. Quelli che rimanevano erano stati raggruppati a dieci per cella all'ultimo piano. È dunque senza esitazione che viene presa la decisione di incendiare la prigione. Viene dato l'assalto all'edificio amministrativo. _Bottiglie incendiarie sono gettate contro il portone che si rivela essere ignifugo, mentre altri mandano in frantumi i vetri delle finestre del primo piano. I secondini che si vedevano lungo i camminamenti cominciano a spaventarsi e anche all'interno ci si agita. Una porta secondaria viene forzata a pedate, ma essa dava su un muro di mattoni: si riconosce bene in questo l'humour dell'amministrazione penitenziaria…. Un finestra del piano terra cede sotto i colpi malgrado la blindatura e le sbarre che la proteggono. Essa dà nell'ufficio della direzione e al suo interno ci sono delle guardie munite di casco. Qualcuno grida:«Uscite tutti o vi arrostiamo». Una bottiglia molotov viene lanciata attraverso le sbarre, ma i secondini la spengono con un estintore e, protetti da un nuvola di neve di carbonio, tentano di richiudere la finestra. Sotto la determinazione degli assalitori questa cede nuovamente; vengono rilanciate bottiglie incendiarie che vengono spente di nuovo con gli estintori e lì finiscono le munizioni. Qualcuno parte a cercare un'auto per trasformarla in ariete, ma il gruppo che era rimasto nelle retroguardie riprende la strada e rimanere isolati in un centinaio è impensabile. Tutti quindi abbandonano il luogo, nel complesso un po' a malincuore, perché non accade certo tutti i giorni che si presenti una tale occasione…

Durante tutto questo tempo la polizia non è intervenuta semplicemente perché ne era incapace. Il grosso del dispositivo di sicurezza era stato assegnato alla difesa della zona rossa, che nel frattempo si stava facendo incalzare da cinque o sei cortei violenti e non-violenti. La mobilità e la spontaneità dei rivoltosi, che si curano di proteggersi le spalle erigendo sistematicamente barricate, rende la caccia difficile e avrebbe mobilitato molti uomini. Come se non bastasse, tutta la zona devastata si trova dietro la ferrovia e, nel caso venisse ingaggiato un inseguimento, le forze dell'ordine dovrebbero in un primo tempo attraversare delle zone in mano ai manifestanti per poi trovarsi tagliati fuori dalla loro base (praticamente accerchiati).

Il gruppo di manifestanti ha riguadagnato la zona gialla a piazza Manin, dove si trova la delegazione americana. Qui si svolge una kermesse autorizzata dei pacifisti, di ambientalisti, di scout, di diversi gruppi femministi, con concerti e stand d'informazione. Ci sono state scene di fraternizzazione tra manifestanti e polizia. Tuttavia, quando arriva il gruppo, una carica si scatena a colpi di lanci di bulloni e di un numero allucinante di lacrimogeni extra-forti che soffocano la piazza sotto una nebbia bruciante. I partecipanti al corteo autorizzato alzano le mani in aria davanti alla polizia che li manganella copiosamente. I rivoltosi intanto si sono dispersi rapidamente in numerosi piccoli gruppi e alcuni ricominciano ad alzare barricate. Ognuno rifluisce come può (a proprio modo) verso sud-est.

Pressoché tutti (compresi quelli che si erano diretti sul lungomare) si ritrovano intorno alle 16.30 non lontano dalla stazione, lungo la ferrovia, nel corteo più importante che riunisce quindicimila persone. Inizialmente guidato dalle Tute Bianche, esso è ormai composto di tutte le tendenze che desiderano darsele con le forze dell'ordine. Queste ultime hanno delle difficoltà a contenere i manifestanti che si muovono contemporaneamente su tre fronti. In mezzo all'incrocio sgomberato un furgone blindato dei carabinieri sta bruciando con un cartello "chiuso" agganciato ai tergicristalli anteriori. Ma il blocco delle manifestazioni nel resto della città (i pacifisti avevano invitato a disperdersi su richiesta della polizia, per permettere a quest'ultima di reprimere efficacemente i violenti) e l'arrivo degli idranti che si precipitano sulla folla (è un miracolo se nessuno è stato schiacciato), permettono alla polizia di contenere la folla e di mantenerla su di un unico fronte. L'intensità degli scontri nondimeno non si indebolisce e durerà più di due ore. I rivoltosi si daranno il cambio per andare all'attacco tanto l'aria è difficilmente respirabile a causa del lancio nutrito e continuo di lacrimogeni. Tutti hanno ormai preso l'abitudine di rilanciare quelli che hanno toccato terra. Dietro si possono trovare acqua e limoni per calmare l'effetto dei lacrimogeni, ci sono anche persone pronte a soccorrerti in caso di bisogno. Si sfonda il marmo degli edifici che costituisce un eccellente proiettile. Per la maggior parte la folla ha la tendenza a rinculare e ad erigere barricate con cassonetti e automobili. I poliziotti non le smantellano man mano che avanzano e questo permette ai manifestanti di operare una bella avanzata. Infatti, verso le 17.30 i due idranti vanno a rifare il pieno e ne consegue un momento di sbandamento nelle ranghi delle forze dell'ordine di cui la folla approfitta immediatamente. Alcune persone, nascoste dietro dei cassonetti con rotelle, avanzano verso i cordoni di polizia, seguiti d'appresso da altri che lanciano pietre a ritmo assai sostenuto. Tutti avanzano urlando e la polizia arretra di fronte alla pressione che aumenta. Poi c'è la sbandata: si girano e se la danno a gambe, tanto che la folla si trova di fronte ai loro veicoli. Lì, uno dei conducenti estrae la sua pistola e spara in aria da dentro la cabina di un furgone. Dopo un attimo di stupore, la rabbia raddoppia. Alcune persone attaccano i veicoli ma gli idranti sono di ritorno e l'uso dei gas riprende dopo che era stato interrotto durante la fuga. Contemporaneamente, uno squadrone dei carabinieri lancia una carica a partire da un via laterale per tirare fuori d'impaccio i colleghi. Si spaccano il naso su una barricata e lanci di pietra arrivano da tutti i lati. Essi non riescono a tenere per lungo tempo la "difesa della barricata" e scappano, mentre il loro capo cerca disperatamente di trattenerli. I rivoltosi partono al loro inseguimento e alcuni poliziotti non hanno altra scelta che cercare di parare i colpi con i loro scudi.

È in questo momento che, nella fuga, in piazza Alimonda, due Land Rover si trovano proprio in mezzo ai manifestanti. Di queste, una riesce a scappare con qualche vetro rotto mentre l'altra non parte e si trova bloccata contro un palo di cemento.

Quest'ultima viene assalita da una trentina di persone che ne fanno a pezzi vetri e carrozzeria. I due carabinieri bloccati al suo interno subiscono svariati lanci di pietre. Uno è davanti, al posto di guida, e l'altro è steso dietro. Questi cerca di proteggersi braccia e gambe. Lancia anche un estintore sugli assalitori, poi sfodera la sua 9mm e punta direttamente la folla facendo dei movimenti circolari. Alcuni se ne accorgono e indietreggiano gridando: «Attenzione ha tirato fuori la pistola! Ha tirato fuori la pistola! Che cazzo fai poliziotto bastardo!».

È allora che un rivoltoso con il passamontagna raccoglie da terra l'estintore e si accinge a lanciarlo sulla camionetta. Il carabiniere lo vede e lo abbatte con due pallottole in testa. L'auto intanto fa retromarcia passando sul corpo e fugge. Alcune persone si avvicinano al cadavere e cercano di portarlo con sé dal momento che la polizia ha rilanciato la carica manganellando a più non posso. Tutti gridano: «No! No! L'ha ucciso! È morto! È morto!». Sotto i lacrimogeni, i carabinieri riconquistano la piazza e i manifestanti arretrano di un centinaio di metri continuando a gridare vendetta. Qualcuno sale su un cassonetto e chiede alla folla che questo assassinio venga vendicato prima di sera e chiama all'uccisione dei poliziotti. Un cordone di polizia carica a sorpresa tramortendo un manifestante a colpi di manganello. Gli altri, sovreccitati, corrono in suo soccorso, riescono a recuperarlo e inseguono i poliziotti che rinculano. C'è mancato poco che la vendetta venisse consumata. Ma molti altri cordoni incalzano ed è la volta dei rivoltosi di fuggire per ritrovare il grosso del corteo che stagna più indietro.

La notizia dell'assassinio circola rapidamente e in 20 minuti gli scontri cessano. Tutti si cercano, molti sono sconvolti e affaticati dalle molte ore di sommossa, e poi pistole contro pietre non è più la stessa storia… Le forze dell'ordine ne approfittano e spingono indietro il corteo che raduna ancora circa ventimila persone. Sotto la spinta degli idranti, di lanci intensivi di lacrimogeni e a colpi di manganello, la folla rifluisce di parecchi chilometri verso est, lungo un grande stradone in cui non c'è possibilità di disperdersi. Tutti quelli che non avranno potuto seguire il movimento saranno manganellati ed arrestati.

Per molti il sabato avrebbe dovuto essere un giorno di vendetta, invece tutti i leader delle organizzazione che avevano partecipato o meno agli scontri si dissociano dalle violenze; tanto a parole durante la conferenza stampa, quanto nei fatti organizzando servizi d'ordine attorno ai cortei di una manifestazione che raccoglie diverse centinaia di migliaia di persone. Questo sia per impedire l'infiltrazione dei cosiddetti Black Bloc che per evitare di farsi travolgere dalle loro stesse truppe. La tattica della polizia è cambiata: i carabinieri (responsabili dell'assassinio) vengono consegnati nella zona rossa ed è la polizia di Genova che dirige le operazioni. Se la strategia del giorno prima era basata sulla difesa, oggi si attacca. È chiaro che era stato deciso prima che la manifestazione (300 000 persone) doveva essere dispersa. I primi scontri scoppiano quando dei manifestanti, di diverse tendenze, marciano verso gli sbarramenti della polizia che arretra, e alcune banche vengono date alle fiamme. Lo stesso corteo dove la maggioranza dei manifestanti alza le mani in alto subisce l'assalto delle forze dell'ordine, che lanciano lacrimogeni e si lanciano su di loro con blindati e idranti. Chi sta davanti si trova stretto contro la massa compatta dei manifestanti che continua ad avanzare. Il corteo viene spezzato in due e nel primo troncone alcuni si scatenano a bruciare numerose banche e a fare barricate. I poliziotti continuano a tagliare in due tutto quello che assomiglia ad un corteo: 300 000 persone, pacifisti o no, dispersi e inseguiti a colpi di granate e di manganello. Qualche rivoltoso riesce a sfuggire alla polizia e a rifugiarsi, come il giorno prima, dall'altra parte della ferrovia. Questi sono raggiunti da una folla di giovani genovesi e di curiosi. Vengono organizzati alcuni saccheggi e costruzioni di barricate, ma la polizia stringe diverse centinaia di persone in una strada e riesce a fermarle. La folla presa alla sprovvista rifluisce e si disperde, seguita d'appresso dagli idranti che arrivano dal lungomare dove si svolge un vero e proprio massacro. Ci sono centinaia di feriti, con un va e vieni di ambulanze a sirene spiegate. Per 500 metri il suolo e cosparso di scarpe, bottiglie d'acqua vuote, brandelli di vestiti, occhiali, bandiere… uno spettacolo che la dice lunga sul dispiegamento di violenza operato dalle forze dell'ordine quel giorno.

(dall'opuscolo francese I frammenti del possibile, a cura de "I Testimoni di Genova", web.tiscalinet.it/anticitoyennisme)

Parabellum

Ieri abbiamo assistito a una grande giornata di democrazia; infatti tutti gli spezzoni del corteo, democraticamente, senza che fossero operate distinzioni di sesso, razza, religione, idea politica ecc., sono stati caricati, picchiati, sparati dalle forze dello Stato, fino all'esecuzione di piazza Alimonda.

Chi nei mesi scorsi ha operato affinché la manifestazione di Genova si riducesse a una innocua e inutile passeggiata sotto i riflettori dei media, come quella dell'anno scorso, si è trovato spiazzato e non ha potuto far altro che deplorare gli avvenimenti, chiamando alla calma e all'abbandono della strada, proprio mentre questa intonava la vecchia bella canzone della rivolta.

Gli Agnoletto, le Francescato, i Casarini, i Farina devono essere espulsi dal movimento per la gravità dei comportamenti tenuti e delle dichiarazioni rilasciate.

Diversamente da ciò che questi infami (e il loro pastore Bertinotti) sostengono, gli scontri non sono stati provocati da poche centinaia di elementi estranei alla manifestazione, ma hanno visto un'ampia e decisa partecipazione, grazie alla quale l'arroganza delle forze dello Stato è stata contenuta e sono state estirpate dalle strade di Genova varie concrezioni di morte (in primis le banche) e numerose brutture mercantili.

Nella pratica, l'ideologia pacifista si è rivelata per quello che è: un elemento di debolezza mortale. Perché nel Luglio '60 le forze dell'ordine non si azzardarono a sparare, nonostante la gravità degli scontri, e ieri, invece, l'hanno fatto? Perché allora sapevano che avrebbero dovuto scontare una risposta adeguata all'offesa.

La giornata di ieri ha messo in chiaro la differenza che passa tra i cieli dell'ideologia demo-contrattualista del Genoa Social Forum, delle Tute Bianche & Co. e la natura terrena dei rapporti sociali, dove i problemi non sono mai di forma ma di forza, e dove l'Enfermé (Blanqui) continua ad aver ragione, oggi come centocinquant'anni fa: «Chi ha del ferro ha del pane».

Salutiamo il Black Bloc e tutti gli anonimi compagni che si sono battuti con coraggio.

Negli scontri di piazza di ieri è emersa quella comunità universale di lotta che costituisce il senso profondo dell'azione degli uomini quando si levano contro il dominio del capitale e dello Stato.

Sì al movimento reale e a tutti i comportamenti che rompono con la passività.

Oggi più decisi di ieri!

(volantino distribuito a Genova sabato 21 luglio 2001 da Alcuni individui sostenitori della comunità umana)

I violenti

Il "Black bloc" a Genova.

Ho visto il "black bloc" in azione.

Ho visto giovani vestiti di nero attuare una precisa ed efficace guerriglia urbana.

Ho visto le auto bruciate, le vetrine rotte, gli incendi e i cassonetti…

Ho visto i cortei sfilare a Genova, cortei eterogenei in un movimento eterogeneo.

Ho visto e ho letto i giornali.

Ho visto e ascoltato le televisioni.

Il risultato è chiaro. È stato individuato il capro espiatorio di stato. Utile sia per la destra, sia per la sinistra, per i giovani sedicenti attivisti, come per gli anziani "compagni" e non.

Il "black bloc" soddisfa tutti. È il toccasana per le coscienze dei "compagni" benpensanti, come pure per gli sbirri più fascisti. Rende gli uni innocenti vittime e gli altri motivati aggressori. Permette finalmente a tutti di riempirsi la bocca con un termine che non si vedeva l'ora di poter pronunciare: "VIOLENZA". Sono loro i violenti. E lo sono per tutti, ma proprio per tutti. E chi si è quasi sentito spodestato del ruolo di "facinoroso di turno", ha trovata un'ulteriore ragione contro di loro: sono tutti infiltrati, sbirri o amici degli sbirri. E chiuso per tutti. Tutti soddisfatti, con le coscienze pulite.

E se non fossero arrivati i "black", sono certo che gli sbirri si sarebbero comunque infiltrati, magari con una tuta bianca addosso. Del resto non mi risulta che sia la prima volta che gli sbirri s'infiltrano, fomentano i "disordini" più mediatici. L'hanno sempre fatto e di certo non avevano bisogno del "black bloc".

Eppure li ho visti bene i "black bloc". Ne ho visto uno di loro. È partito con un tubo da ponteggio di un metro e mezzo. Ha distrutto una telecamera posta su una banca. Dal piano di sopra un'anziana donna gli ha scagliato contro un vaso di gerani (badando bene a scegliere quello con i fiori più secchi). Domando: chi è stato il violento? Chi ha distrutto un oggetto o chi ha attentato alla persona?

Ho visto le loro tecniche di guerriglia. Ho letto il loro proclama. Ho apprezzato il loro "nuovo metodo d'utilizzo dell'arredo urbano". L'ho apprezzato quando è stato efficace per rallentare le cariche, per il tempo sufficiente a metterci in salvo. Si imparano velocemente le loro tecniche. Li ho aiutati a spostare altri cassonetti, quelli più pesanti. Ho visto l'aggregazione che riescono a creare attorno a loro, nel difendersi dalle cariche. Ho visto ciò che fanno e non mi sento di definirlo violento. Non è violenza incendiare una banca. È violenza pestare a sangue. Non è violenza distruggere un distributore. È violenza sparare lacrimogeni ad altezza uomo.

Ho visto i compagni del Carlini, dove ho soggiornato per giorni, prepararsi ai disordini con protezioni personali e di gruppo. Ho visto ridicole simulazioni di scontri protrarsi per ore. Ne ho visto l'inutilità di fronte al diluvio di lacrimogeni. L'impotenza degli scudi e della nostra moltitudine, di fronte alle armi di Stato. E alle prime cariche, si vedeva più bianco che nero. I caroselli tra le vie attorno a piazza Alimonda. I cellulari scagliati contro la folla. Non erano i "black": era il terrore di stato, che è cresciuto in quel momento e si è compiuto.

Ho visto e sentito i cori di gioiosa alla falsa, ovviamente falsa, notizia del blocco del G8. Ne ho sofferto. Cantare due ore dopo ciò che è stato. Creduloni e poco riflessivi i "compagni". Silenziosi e addolorati loro, i terribili neri.

Ho visto i "compagni" dei sindacati di base mantenere i loro ridicoli e gerarchizzati servizi d'ordine, altro inutile baluardo di resistenza di fronte ai fitti lanci di lacrimogeni.

Ho visto altri compagni, di quelli che parlano di nonviolenza, attaccare fisicamente chi stava distruggendo oggetti. Domando ancora: chi è stato violento? Chi ha distrutto un oggetto o chi ha attentato alla persona?

Ho visto la tattica della polizia. Spingere i "black" fino a ridosso dei cortei, in modo da poter dar una lezione a tutti. Li hanno lasciati fare, è vero. Li hanno utilizzati come arma. In quei casi vi era inoltre la maggiore presenza di presumibili infiltrati. Altri neri, forse con il marchio "original", seguivano. Non tutti capivano. Ma forse chi di loro capiva, si rendeva conto che la rivoluzione passa anche di lì.

Ho visto i socialisti rivoluzionari sfilare, dimenticandosi sia del socialismo, sia della rivoluzione. Ciarlare con inutili e noiosi volantini sui muri per poi indignarsi di fronte a chi forse gettava il germe per la rivoluzione tanto osannata. Ho sentito i comunisti condannare chi forse stava gettando le basi per un disordine, fermento di un qualcosa. Un disordine che gli stessi comunisti in salotto proclamano e in piazza accusano. Voci indignate definire violento tutto ciò che di violento non aveva nulla.

Ho sentito i portavoce del movimento accusare in primis gli anarchici e in secondo luogo il comportamento delle forze dell'ordine. Portavoce in pompa magna da neo-leader interpretare alla perfezione ciò che la stampa e il regime voleva che passasse in prima serata, per rinfrancare tutti, dalla casalinga al docente universitario.

Eppure di bastonate ne hanno prese pure i "black". E quante! E non mi sembravano finte. Ho visto le loro ragazze piangere. Li ho aiutati con acqua, limoni. Ho condiviso con loro qualche attimo di respiro. La rara opportunità di stare seduti per qualche secondo. E magari mangiare qualcosa. E non dietro le file di "caschi blu", ma davanti, pronti a fuggire o a ribellarsi nuovamente contro qualche altro simbolo di ciò in cui non credono e che vogliono mettere in crisi.

Probabilmente sono gli unici vincitori di questa inutile tragedia durata tre giorni. Gli unici che hanno avuto successo nei loro intenti. Gli unici che hanno riempito giornali e TV, più degli otto messi insieme. Più di qualunque altro movimento all'interno del GSF. Che invidia per le tute bianche!

Per noi il problema è comunque risolto. Loro sono i violenti. È stata tutta e solo colpa loro. Se potessimo vedere bene la mano che sporge da quella maledetta camionetta, tra qualche giorno ci troveremo tatuata una "A" cerchiata.

(Trike, da< www.italy.indymedia.org, 24 luglio 2001)

Un articolo destinato alle pagine dibattito del Manifesto rifiutato dalla direzione del quotidiano

Clicco Internet Explorer. Appare la home page. Scrivo due parole, black bloc, nello spazio apposito. Clicco "ricerca". Escono circa trecentocinquanta documenti. Leggo qualcosa e trovo subito quello che serve per capire: 1) il black bloc esiste da molti anni, da prima di Seattle, quindi – presumo – aveva qualcosa da dire e da fare anche quando non s'impegnava a "spaccare vetrine"; 2) "esiste" in un suo modo, non troppo dissimile da quello di altri gruppi che fanno parte del movimento: è una galassia di gruppi non sempre stabili che discutono continuamente le forme della loro aggregazione e delle loro iniziative; 3) il black bloc si definisce in vari modi: i termini che ricorrono di più sono "anarchici" e "anticapitalisti", forse il secondo è più frequente; 4) attaccare durante le manifestazioni di massa non i simboli del potere ma sedi di multinazionali, banche e simili concrete installazioni della proprietà mondializzata è una porzione della tattica che il black bloc sceglie di usare, non sempre, considerando di volta in volta i comportamenti e le scelte degli altri manifestanti., ecc.

Il black bloc dichiara di mettere in conto la possibilità di comportamenti illegali. Non è l'unico nel movimento, e Rossanda lo sa. Rossanda che in tema di prospettive complessive di questo movimento si chiede come potrà manifestare «se ogni volta sarà parassitato da gruppi che, se va bene, sfogano nello spaccar vetrine un vero disagio esistenziale» ("Trappole", Il manifesto, 8 agosto 2001, p. 1). Penso che sarebbe meglio lasciare il "disagio esistenziale" al professor Crepet. Disagi ne abbiamo molti, in molti, anche Rossanda credo, non ce ne vergognamo, ma dove c'è un minimo di storia politica, di esperienza pratica di dissenso e di alternativa, di riflessione, di consapevolezza, sia pure espressa con l'"ingenuità" che nel movimento di oggi non riguarda solo il black bloc (che dire, allora, della massaia Francescato con il suo cesto di carotine, asparagi e prezzemolo? che dire di tutti quelli che predicano protezionismo e vino buono del contadino, che tra l'altro è notoriamente pessimo?), dove c'è questo bisogna ragionare con altre categorie. Invece di demonizzare, escludere, semplificare, ripetere le stesse parole e gli stessi giudizi dei tanto vituperati giornali e tv.

Già, la mediaticità. Può essere vero che l'ala guerrigliera, chiamiamola così, del movimento non ne può fare a meno. Ma sarebbe un bel passo avanti da parte di chi ha una visione critica dei problemi utilizzare attentamente le informazioni. Invece ecco Rossanda scrivere del «ragazzo di Napoli [ha un nome, si chiama Francesco Caruso, è il portavoce della Rete No Global campana ] che dichiara guerra al vertice di settembre della Nato». Persino alcuni giornali del giorno dopo e persino Il manifesto dell'8 agosto (a p. 3) hanno sottolineato che le parole di Caruso sono state deformate. Lui ha detto che aggressioni violente come quelle di Polizia e Carabinieri a Genova non potranno più essere affrontate con gli stessi strumenti di Genova. Una sua compagna, Roberta Moscarelli, nell'intervista di Angelo Mastrandrea a p. 3 dl numero citato del manifesto, argomenta così: «anche i pacifisti si stanno ponendo il problema di come garantirsi il diritto di manifestare. E dunque come fare per non essere massacrati».

In ogni caso Caruso e Mascarelli parlano di necessaria "radicalizzazione". Casarini e le tute bianche, che significa importanti centri sociali del nord-est e altri centri sociali un po' ovunque in Italia, dicono la stessa cosa. Non intendono armi ai cortei, intendono argomenti. Ma intendono anche che tipo di autodifesa. E la tattica della "disobbedienza" è o non è un comportamento illegale? Rossanda sa tutto: sa dei ragazzi con le magliette a strisce di Genova, luglio '60 ("creavano disordini", non c'è dubbio), sa dei picchetti duri davanti alle fabbriche e dei cortei duri dentro le fabbriche (a volte erano "distruttivi"). Niente è come prima, d'accordo, tutto cambia, anche se "il monopolio statale della violenza" rimane e si potrebbe ragionevolmente considerare un problema politico serio. Ma la discussione è aperta, non serve chiuderla con anatemi tipo Pci anni 70.

Intanto siamo sicuri che il salto di qualità politico, culturale, di proposte, di azioni capillari che il movimento ha compiuto non comprenda nemmeno per un centesimo il contributo degli odierni demoni, degli odierni candidati all'espulsione, dei colpevoli già riconosciuti, dei "provocatori"? (A proposito: in rete si leggono comunicati dl balck bloc che dicono: a Genova gli infiltrati c'erano, eccome!, c'erano in tutti gli spezzoni dei cortei). Rossanda è sicura che i gruppetti anarchici, neo-situazionisti, post-post autonomi – tento goffamente di "designarli" – non abbiano niente da dire, non abbiano detto niente, sul piano di un abbozzo di nuova cultura politica, negli ultimissimi anni?

Almeno Rossanda non chiede che i "devianti" del movimento vengano messi in catene per sempre. Lo ha chiesto non sul Secolo d'Italia, non sul Giornale, ma a "Primo piano" del Tg3 la salutista Grazia Francescato («sono criminali, bisogna sbatterli in galera»). La tragedia è che qualcosa del genere hanno chiesto Riccardo Barenghi e Valentino Parlato sul manifesto. Occorreva intervenire contro di loro, ha scritto Barenghi dopo Genova. Intervenire come? Barenghi non sa come si muovono Ps e Cc? Teste fracassate, braccia e gambe spezzate, torture in caserma: sì, ma tanto sono del black blov, la "componente sana" li ha già riconosciuti come altro da sé. Vero che questo trattamento è stato riservato ai "pacifisti" e non a quelli là (così si dice: sarà tutto vero?), ma non mi sembra compito del manifesto additare chicchessia alla repressione, comunque è poco simpatico, anzi è odioso. Parlato ha fatto appello all'intelligence. Ah, i servizi! Carini! Bisognava intercettare i "cattivi" alle frontiere, segregarli chissà dove, chissà per quanto. E pensare che tutti desideriamo la libera circolazione globale, che tutti detestiamo la "società del controllo". Tutti noi di una certa mentalità politica, in prima fila i compagni del manifesto, pensavo. Solo che a Genova parecchi, oltre ai membri del black bloc, hanno perso il controllo.

(Mario Gamba, giornalista del Tg3 e collaboratore del manifesto, Indymedia, 12 agosto 2001)


Lo conoscevamo poco, qualche volta lo incontravamo al bar Asinelli. Era un punkabbestia, uno di quelli che non hanno lavoro ma portano tanti orecchini, uno che vuole entrare senza pagare, uno che la gente perbene chiama parassita. Gli faceva schifo il mondo e non aveva niente a che fare con noi dei centri sociali, diceva che eravamo troppo disciplinati.

Matteo Jade, leader delle tute bianche genovesi, di retta radiofonica 20/07/01

Abbiamo dovuto cacciarli da soli dalla testa del corteo. Lo abbiamo fatto con energia, senza violenza, ma da soli. Ci siamo difesi con le nostre mani da quei teppisti che qualcuno ha lasciato scorazzare liberamente per la città.

Maurizio Poletto, membro della segreteria C.G.I.L. torinese, 20/07/01

Il 20 luglio 2001 Carlo Giuliani viene ucciso dal piombo assassino dello Stato. L'ennesima vittima della violenza istituzionalizzata cade sul selciato. Mentre gli sbirri creano scudo intorno al corpo e migliaia di ribelli sociali continuano ad attaccare i luoghi dello sfruttamento, il GSF ed il resto del carrozzone, indignati per le devastazioni di banche e uffici finanziari, abbandonano la piazza.

Sono gli stessi che per mesi hanno cercato e trovato accordi con la polizia per organizzare un'efficace e coadiuvata repressione di chi non vuole essere gestito, di chi non dialoga e non si accorda col nemico di classe, di chi ha deciso di agire direttamente contro l'oppressione del sistema capitalista.

Poco importa il nome di chi premette il grilletto; ci basta sapere che indossava una divisa per riconoscere in lui un assassino, un cane da guardia addestrato per difendere a mano armata la proprietà e i privilegi dei padroni.

Oggi, dopo sei mesi, gli stessi politicanti seguiti da ecumeniche masse di benpensanti che avevano diffamato Carlo e ne avevano strumentalizzato la morte, ripropongono nuove macabre speculazioni. Organizzando pompose commemorazioni, i professionisti della menzogna e della retorica tentano di rilanciare percorsi politici che nulla hanno a che fare con le scelte di chi è morto lottando realmente.

A nulla serviranno indagini e giudizi della magistratura per far luce sull'omicidio. Chi richiede con forza questo tipo di intervento legittima apparati di Stato che nella repressione trovano il loro senso d'esistere.

Riaffermiamo con decisione che ad assassinare Carlo fu lo stesso sistema che ogni giorno, col lavoro salariato, nelle carceri, per strada, sotto le bombe, umilia, sfrutta e uccide milioni di individui aiutato da chi, nel patetico e sterile tentativo di volerlo più docile e umano, non fa altro che rafforzarlo.

(volantino distribuito nel gennaio 2002, firmato csa Inmensa / individualità anarchiche)

Citazioni

Esci di casa e trovi un carabiniere che ti chiede un documento. Giri l’angolo per andare dal lattaio, e scopri che la strada è stata bloccata da una grata di ferro. Percorri dieci metri e un altro carabiniere ti chiede i documenti. Vuoi prendere l’auto che hai lasciato parcheggiata sull’altro lato della strada ma adesso c’è un muro e ti tocca camminare per almeno due chilometri. Torni indietro, e un poliziotto ti chiede un documento. Bevi un caffè, esci dal bar, ti allacci una scarpa e un finanziere ti chiede un documento. Stai per rientrare a casa e un poliziotto ti blocca perché il documento che la Questura ti ha rilasciato era sbagliato: «Mi spiace ma la devo accompagnare fuori dalla zona rossa». Sacramenti e un carabiniere ti chiede un documento. Hai convinto il poliziotto e il carabiniere che abiti davvero in zona rossa, stai finalmente per ritornare a casa e un finanziere ti chiede un documento: «Mi spiace, la devo riaccompagnare fuori»...

La Stampa, 19 Luglio 2001

A Genova verranno impiegati 2.700 militari, io in Libano ne avevo 2.300.

Gen. Angioni, capo del contingente militare in Libano

Si è trattato di una violenza cieca e senza obiettivi prevedibili, così da rendere oggettivamente impraticabili quelle misure di prevenzione che in altre circostanze sono servite ad anticipare e scongiurare attacchi finalizzati ad una strategia intellegibile. Che cosa proteggere nella città se il black bloc ha avuto la forza e l’ardire di attaccare le carceri e le caserme delle forze dell’ordine?

Ansoino Andreassi, ex-vicecapo della Polizia, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 28 agosto 2001

Ogni volta che, su indicazione dei cittadini, cercavamo di fronteggiarli, loro si erano già spostati con le classiche azioni di guerriglia; molte volte non siamo potuti intervenire per bloccarli perché loro, che conoscevano bene la città, si mettevano in posizione tale da non farsi raggiungere: non potevamo scendere da monte, né muoverci dai lati per la presenza del corteo e della massa dei manifestanti. Perciò, non potevamo entrare per fronteggiare i black bloc, che, nel frattempo, avevano già cambiato obiettivo.

Francesco Colucci, ex-questore di Genova, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 28 agosto 2001

Ancora oggi chi ha partecipato alle giornate di Genova si domanda (e l’elenco ancora non è completo): 1. chi abbia deciso l’impiego, e con quali ordini di servizio, degli agenti infiltrati nel movimento (carabinieri, ma anche agenti stranieri) che hanno anche svolto funzioni di agenti provocatori. 2. come mai siano stati lasciati liberi di operare gruppi ben individuabili e circoscrivibili di cosiddetti black bloc sia il 20 che il 21 luglio, spesso a poche centinaia se non decine di metri da presidi importanti e obiettivi delicatissimi [...] e quali azioni di prevenzione si siano fatte nei loro confronti o indagini nell’ambiente neonazista e neofascista o nei gruppi ultras delle tifoserie del calcio. [...]

da "Genova - Il libro bianco" ed. l’Unità, Liberazione, il manifesto, manifestolibri, Carta

Le chiedo, invece, di farci sapere qualche cosa di più, di farci sapere, cioè, qual è quella zona grigia, a metà tra il nero dei black bloc e il bianco dei pacifisti con i rosari, non identificabili perché vestiti di nero, ma riconoscibili da altro tipo di travisamento, in quanto a me pare di aver visto un altro film rispetto a quello che ci è stato raccontato da altro settore di questa aula. Ho visto riprese ed immagini, ho visto gente a torso nudo con kefiah, persone vestite con magliette disparate, gente invece travisata con caschi da motociclista, uomini sotto i passamontagna, persone con bardature di diverso tipo che, evidentemente, avevano indossato perché non avevano intenzione di partecipare pacificamente a quel tipo di manifestazioni.

Roberto Menia, parlamentare

Lei però mi sta chiedendo se abbia delle informazione sui black bloc quando gli otto servizi segreti più potenti del mondo, con tutte le informative che possono avere e con i blocchi alle frontiere, sono riusciti a far sì che arrivassero tutti questi gruppi violenti nel centro di Genova, lasciandoli liberamente «scorrazzare». Lei capisce che è come chiedermi perché non si sia riusciti noi stessi a fermare i black bloc dopo che il 21 luglio aveva telefonato il dottor Mortola [capo della digos genovese]. Noi in quella circostanza siamo stati chiarissimi, invitandolo ad agire, in quanto sia egli sia le forze di polizia avevano l’autorità e gli strumenti per farlo, mentre noi non avevamo né l’uno né gli altri.

Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001


Il Capo della Polizia ci ha detto che avrebbero trattato bene i buoni e male i cattivi, affermando che il livello di repressione sarebbe stato correlato alle misure adottate: quindi, se uno avesse tentato di passare la linea rossa senza strumenti di offesa, ci sarebbe stato un certo livello di risposta. Il problema è che è successo altro!

Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001

Il Genoa social forum – del quale faccio parte – ha interloquito con voi e ha garantito per se stesso e per le proprie scelte. Naturalmente nessun individuo del nostro gruppo può pensare di attrezzarsi per organizzare servizi d’ordine, ancor più perché il GSF è composto da gente pacifica. Tuttavia, sul terreno della prevenzione, avremmo voluto che venissero impediti arrivi. In questo senso, l’unico risultato ottenuto è stato quello di impedire le manifestazioni a centocinquanta persone di una nave greca, le quali sono state rispedite al mittente.»

Graziella Mascia, parlamentare

Nella tarda mattinata, il capo della DIGOS genovese, Spartaco Mortola, telefona a Massimiliano Morettini, uno dei coordinatori del Genoa social forum, per avvertirlo che nella piazza ci sono dei gruppi di black bloc che vogliono accodarsi in fondo al corteo, chiedendo al Genoa social forum di non farli inserire. Il coordinatore, Massimiliano Morettini, esprime contrarietà al fatto che la Digos non intervenga a bloccare i black bloc, sapendo che ci sono e che sono dietro al corteo e invita le forze dell’ordine a muoversi per prevenire l’aggancio dei black bloc al corteo. Infatti, noi, avendo parlato di iniziative pacifiche, eravamo con le mani alzate, mentre quelli erano armati e di certo, per definizione, questo compito non spettava a noi, ma a loro. Nonostante questa richiesta non succede assolutamente nulla.

Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001

Genova con il suo schieramento di quasi sedicimila uomini è il vero test per il mega apparato messo in campo dal Viminale. Un apparato che potrà contare anche sul sistema di satelliti spia Usa che terrà sotto controllo Genova per tutta la durata del vertice. E a proposito di spie, già da giorni sono arrivati in città gli agenti dei Servizi segreti del Sisde ma soprattutto quelli americani e inglesi. E Genova per le forze di polizia sarà anche terreno di prova per nuove tecniche e nuovi "strumenti" di dissuasione. Scudi in plexiglas più piccoli dei soliti, elmetti in materiale più resistente, manganelli in gomma dura, giubbotti anti-strappo.

Guido Alfieri, Il Messaggero, 19 luglio 2001

Tenuto, altresì, conto della consistenza numerica della popolazione residente nell’area protetta e della insistenza in quel territorio di una zona di per sé a rischio come i carrugi, all’interno della "zona rossa" era stato previsto un servizio di controllo nei giorni antecedenti e in quelli dello svolgimento dei lavori del vertice, coordinato dal direttore del servizio centrale operativo e finalizzato ad individuare le possibili insidie a persone e/o cose, oltre che naturalmente alla popolazione residente. Si è reso pertanto indispensabile un notevole impiego di qualificate risorse della polizia giudiziaria, proprio in ragione della specifica attività da svolgere, che è consistita soprattutto in perquisizioni, ispezioni e ricognizioni, protrattesi per molti giorni, sia prima sia dopo la recinzione dell’area. È stata proprio tale attività preventiva che ha consentito di garantire un’elevata protezione: in particolare, sono state eseguite 92 perquisizioni domiciliari e 273 ispezioni di locali; sono state identificate 4.073 persone per accertarne la legittima permanenza nell’area di massima sicurezza; sono state arrestate 22 persone (7 italiani e 15 stranieri); sono state denunciate in stato di libertà 38 persone (22 italiani e 16 stranieri).

Gianni De Gennaro, capo della polizia, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 8 agosto 2001


Intanto fa discutere il piano di emergenza elaborato dalla regione e che prevederebbe, oltre un locale refrigerato di 500 metri quadri da adibire a obitorio, anche 200 body bag: i sacchi da morto che si vedono nei film sul Vietnam.

Il Manifesto, 20 giugno 2001

"Ci hanno detto che a Genova, come a Québec city, verrà innalzato un muro. Ebbene, noi lo abbatteremo". E le regole? Non sostiene il Genoa Social Forum che, durante le manifestazioni, non verranno danneggiate né cose né persone? "Il muro non fa parte delle strutture della città", taglia corto Casarini. Dunque ci saranno scontri? "Prevedo proprio di sì". Noi Tute Bianche li affronteremo, con i mezzi che abbiamo. Mentre i pacifisti, in Chiesa, pregheranno per la nostra incolumità"

Luca Casarini, Corriere della sera, 4 luglio 2001


Le Organizzazioni Non Governative (ONG) e le Reti italiane - che si riconoscono nel Genoa Social Forum e sono nei network internazionali che si battono per la giustizia sociale e la pace, per la prevalenza dei diritti globali di cittadinanza sulle logiche del profitto - presentano oggi la propria proposta per fermare il G8. Lanciando anzitutto l'idea di un'Assemblea rappresentativa di tutti i popoli che consenta di rifondare le Nazioni Unite.

Dalla dichiarazione del GSF del 5 luglio

C’era da concordare un segnale simbolico per le Tute Bianche, bastavano cinque centimetri di zona rossa… ma non è stato possibile contrattare nulla.

Zanella, deputata dei Verdi, Il manifesto, 22 luglio

Una "internazionale nera" dei "servizi" sembra essere stata messa in piazza contro i contestatori della globalizzazione

Attac France, comunicato del 27 luglio


[Occorre] un’iniziativa nazionale ed europea per mettere fuori legge i gruppi neonazisti e i Black-bloc, allargando il modello della legge Mancino, già esistente in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, [iniziativa che] servirà a evitare confusione tra associazione pacifiche e idioti violenti.

A. Pecoraro Scanio, presidente dei Verdi


Il Capo della Polizia ci ha detto che avrebbero trattato bene i buoni e male i cattivi, affermando che il livello di repressione sarebbe stato correlato alle misure adottate: quindi, se uno avesse tentato di passare la linea rossa senza strumenti di offesa, ci sarebbe stato un certo livello di risposta. Il problema è che è successo altro!

Vittorio Agnoletto, portavoce del GSF, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001


Lo Stato non è più, d’ora innanzi, il nemico da abbattere, ma l’omologo con cui dobbiamo discutere.

Luca Casarini, Il Gazzettino, 23 aprile 1998

Il G8 ha lavorato bene e, per la prima volta, si è aperto alla società civile

Silvio Berlusconi

«Il nostro è uno stato democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi siano soppressioni di libertà»

Gianfranco Fini dopo il G8

È un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto… la nonviolenza significa essere preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepoteza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa.

Aldo Capitini


È più facile battere un centinaio di uomini che uno solo, specialmente se questi colpisce di sorpresa e scompare misteriosamente. La polizia e l’esercito saranno senza potere se Mosca è coperta di questi piccoli distaccamenti inafferrabili. [...] È impossibile per loro prenderli tutti poiché dovrebbero, per questo, riempire ogni casa di cosacchi.

Avviso agli insorti. Mosca, 11 dicembre 1905

[I black bloc] sono centinaia di psicopatici vestiti di nero che il Ministro degli Interni ha infiltrato, aizzato e utilizzato contro il movimento

Francesco Berardi "Bifo"


Tra gli indagati figura anche un giornalista genovese, sorpreso dallo scatto di un fotografo mentre esce da un supermercato devastato dalle tute nere con un paio di confezioni di mozzarella.

Il Secolo XIX, 1 agosto 2002

"Ci rivolgiamo a Lei come massima autorità dello Stato Italiano e come garante delle nostre istituzioni in questa fase di passaggio di legislatura, affinché siano tutelate nei giorni del vertice dei G8 libertà di espressione e di manifestazione ai cittadini del mondo. Crediamo che le istituzioni repubblicane del nostro Paese, proprio per la loro storia e per i principi su cui si fondano, non possano e non debbano decidere di autorità di negare gli spazi del confronto democratico e sospendere i diritti fondamentali dei cittadini. Chiediamo che le nostre istituzioni diano un segnale consapevole di maturità e di apertura nei confronti di quelle campagne, reti e organizzazioni non governative che stanno crescendo in questi anni, impegnandosi per l'affermazione nella società dei principi di equità, giustizia e sostenibilità. Sin ora, nonostante la nostra massima disponibilità al confronto, purttroppo non abbiamo avuto risposte dal Governo. Per questi motivi ci rivolgiamo a Lei affinché a Genova sia garantita la libertà di espressione e manifestazione."

Lettera a Ciampi del Gsf, dalla stampa genovese del 4 aprile

Ci sono anche i maggiori rappresentanti della sicurezza nazionale: il capo della polizia De Gennaro e il suo vice Ansoino Andreassi. Tredici alti funzionari contro sette "nani" antiglobalizzazione.

I nuovi ribelli incontrano i vecchi nemici. La cronaca di ieri è un abbozzo di sceneggiatura, perché i protagonisti ancora non si conoscono. Non loro almeno, questi sette moschettieri che vogliono fustigare i grandi del mondo. Cinque sono in trasferta: Massimiliano Morettini e Chiara Cassurino da Genova, Peppe De Cristofaro da Napoli, Fabio Lucchesi da Lucca e Vittorio Agnoletto da Milano. Luciano Muhlbauer e Anna Pizza venivano invece dai rispettivi uffici romani: la confederazione dei Cobas.

La Repubblica, 29 giugno 2001


Le fantasie del potere

Verso il G8 di Genova: oggi un incontro a Roma. Frattini apre ai dimostranti "pacifici"

Anna Pizzo - Genova

Quanto alla trattativa, il Genoa social forum chiederà al presidente della repubblica di farsi garante "del diritto di espressione e di manifestazione di tutti i cittadini" e di far cessare la campagna propagandistica che disegna scenari apocalittici. E al nuovo presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, di riprendere la trattativa interrotta (o meglio mai realmente iniziata).

Il Manifesto 24 maggio 2001

I mille nodi di una rete multicolore

Mario Pianta

Se è già in qualche misura consolidato il dialogo con le istituzioni e i vertici che hanno definito i termini dei problemi globali, la sfida oggi è aprire alla società civile anche le istituzioni e i vertici che hanno poteri di definire direttive o decisioni. E' per questo che Fmi, Banca mondiale e Organizzazione mondiale per il commercio sono ora gli obiettivi principali dei movimenti globali. In gioco c'è una prova decisiva per le possibilità di democratizzare il sistema internazionale e di consolidare in istituzioni di tipo nuovo la carica di cambiamento portata dai movimenti.

Manifesto 12 giugno 2001

"Un atto contro il Gsf"

Cinzia Gubbini

"E' il Torino style - aggiunge Daniele Farina - sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto a inasprire il clima con fatti cruenti".

"E' una provocazione. Vogliono farci cadere nella spirale della violenza, nella logica dell'azione-reazione. L'unica risposta possibile è una partecipazione ancora più ampia alle manifestazioni di Genova". Questo il commento a caldo di Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa social forum, il viso tirato dopo l'annuncio dello scoppio nella caserma dei carabinieri di San Fruttuoso. "Bisogna guardare alle frange interno allo stato - aggiunge - quelle che possono mirare alla distruzione di un movimento trasversale che ha saputo tessere relazioni con le istituzioni, con pezzi della società civile finora lontani". Oggi Agnoletto andrà a trovare in ospedale il carabiniere ferito: "Deve essere chiaro che i nostri nemici non sono certo i ragazzi obbligati a svolgere mansioni di ordine pubblico. Noi manifesteremo, ma le nostre azioni, come abbiamo più volte ribadito, saranno nel totale rispetto della città e delle persone, anche in divisa".

Insomma, la lettura degli "antiglobalizzatori" è chiara: non sono loro ad avere interesse che la tensione salga. "La bomba esplosa questa mattina a Genova è una bomba contro il movimento - si legge nel comunicato unitario del Gsf - non è casuale che questo attentato avvenga nel giorno dell'apertura del Public Forum. L' attentato cerca di chiudere la bocca alle nostre ragioni". "Sconfiggiamo la paura, veniamo tutti a Genova", diventa così il nuovo motto del Gsf (che ormai conta mille adesioni), mentre la città è già pacificamente invasa dalle prime delegazioni di manifestanti: l'accoglienza regge benissimo e si respira un bel clima nonostante i controlli, le perquisizioni, e l'alacre lavoro per blindare la zona rossa.

"Ecco che l'apputamento di Genova diventa un'occasione ancora più interessante - osserva Matteo Jade, uno dei portavoce delle Tute bianche - abbiamo l'opportunità di riscrivere il finale di un copione già noto. In Italia è sempre andata così: nel momento in cui migliaia di persone contestano il potere, come ora per chiedere una globalizzazione all'insegna della dignità e della persona, arriva la bomba. Una strategia per mettere il bavaglio al movimento, per intimorire le persone, per farle stare a casa. Questa volta, però, possiamo dimostrare che le cose possono andare in un altro modo. Venite in tanti". La condanna dell'attentato è dunque ampia e senza ambiguità. "Il pacco bomba inviato a Genova costituisce un atto gravissimo di terrorismo. La nostra condanna è come sempre fermissima", dichiara Tom Benettollo dell'Arci. "I fatti di questa mattina confermano che a Genova è in gioco la democrazia di questo paese e questo rafforza l'appello a esserci", rilanciano il Leoncavallo e le Tute bianche di Milano. "E' il Torino style - aggiunge Daniele Farina - sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto a inasprire il clima con fatti cruenti". Un appello a "svelenire il clima" scendendo in piazza arriva anche dalle congregazioni missionarie. "Il corteo del 21 va fatto assolutamente - dice padre Giovanni La Manna - è l'unica possibilità di dialogo pacifico". E non mancano i consigli, da parte di chi una certa esperienza ce l'ha: "Vigilate. A Barcellona durante la manifestazione contro la Banca mondiale abbiamo fotografato poliziotti vestiti da contestatori intenti a spaccare vetrine", ricorda José Maria Antentas della Campagna contro la Banca mondiale. Walden Bello, del Focus on the global south, nota: "Il movimento antiglobalizzazione sta crescendo e per questo fa paura".

Manifesto 17 luglio 2001


Dentro la società della comunicazione, la rappresentazione è un elemento formidabile: per loro di controllo, per noi di ribellione. E finora, dal punto di vista della comunicazione, li abbiamo devastati

Luca Casarini, La Repubblica, 16 luglio 2001


Al Black bloc, hanno permesso di fare tutto quello che hanno voluto, a noi, che sfilavamo pacificamente, ci hanno sparato addosso" dichiara Luca Casarini, leader dei centri sociali.

Newport, 23 luglio 2001

Allo stesso tempo, abbiamo fatto il possibile per difendere le decine di migliaia di persone confluite nei nostri cortei, tenendo a distanza gruppi estranei che volevano infiltrarsi nelle nostre fila.

Piero Bernochhi (Cobas), "Un forum da discutere", il manifesto, 29 luglio 2001


Casarini: "Si indaghi sui neonazi infiltrati" - Il leader delle tute bianche: è stato Fini a dettare la linea dura

Anais Ginori

Roma - Luca Casarini, il più discusso dei leader del Genoa Social Forum, non si considera sconfitto dopo la battaglia di Genova. "Volevano dimostrare di essere più forti, ci sono riusciti. Ma noi continueremo a combatterli con la disobbedienza civile, rifiutando il confronto militare". Rientrato a Padova, il portavoce delle tute bianche contrattacca: "C'è una campagna di veleni su di me e sul movimento. Qualcuno mi vuole vedere in prigione, cercheranno di arrestarmi".

Di chi parla?

"E' chiaro che do fastidio. Disturbo Gianfranco Fini che, appena arrivato a Genova, è passato a Forte San Giuliano per impartire la linea politica sulla gestione dell'ordine pubblico. E cioè massacrare i manifestanti, dissuadere chiunque a scendere in piazza per esprimere il dissenso".

Chi altro la teme?

"Metto in difficoltà una certa sinistra perbenista che, come ha spiegato Violante, pensa che violare una legge ingiusta sia sempre sinonimo di criminalità e magari mi accusa di dialogare con i black bloc. E' una bugia. Accreditarmi come l'anello di congiunzione con i violenti, è falso. Tra noi e i black bloc la distanza è abissale. Loro hanno fatto un grande favore al G8".

Chi sono i black bloc?

"Non è un'organizzazione. È una tattica di lotta che esiste da diversi anni. E' stata già a Seattle, a Praga, a Nizza, in Quebec. E' una logica estranea a noi politicamente e culturalmente. Il concetto della devastazione è l'altra faccia dell'omologazione. I black bloc sono stati cinicamente utilizzati contro di noi".

In che modo?

"Se non ci fosse stato un campo di battaglia il governo non avrebbe potuto organizzare la gigantesca repressione militare per caricare a freddo un corteo di diecimila persone, con duecento giornalisti, che marciava compatto e non aveva lanciato neanche uno spillo. Nella trappola di via Tolemaide ci hanno massacrato i carabinieri mentre centinaia di poliziotti stavano a guardare. I parlamentari che erano nel corteo telefonavano alla questura, al prefetto, e questi rispondevano: "Non sappiamo cosa sta accadendo". Una repressione mai vista in Italia. Molti amici che hanno vissuto gli anni Settanta sono rimasti sbalorditi".

Dopo Genova, il movimento deve fare una scelta netta contro la violenza.

"Noi l'avevamo già fatta e la confermiamo. Il conflitto sociale è necessario contro la violenza dell'impero. Non siamo divisi su questo, siamo tutti radicali".

Continuerete dunque a manifestare con accanto i black bloc?

"Stiamo discutendo nel movimento di come proteggerci. Ma mi interesserebbe che ci fosse una reale indagine su questi black bloc. Un'etichetta di comodo per lanciare una nuova caccia alle streghe. Mi risulta che a spaccare tutto ci fossero anche molti neonazisti, militanti di Forza nuova. Sul vostro giornale è stato intervistato un black bloc inglese che ha detto di essere stato invitato dai camerati italiani. Avete pubblicato foto, nome e cognome. Non mi risulta che sia stato arrestato ed è tornato a casa tranquillamente

La Repubblica, 31 luglio 2001

[1] in attesa di conferma

 
 

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