#title Alcuni testi inediti sulla rivolta contro il G8 di Genova
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** Introduzione
Anche soltanto per vedere bisogna riuscire a togliersi dagli occhi la sabbia che di continuo vi sparge il presente.
Sabbia. Ecco cosa offusca la nostra vista, facendoci vivere in una fantasmagoria in cui tutto sembra vivo e nulla è reale. Ci perdiamo in un rapido alternarsi di immagini stranamente vivide e attraenti, facendoci trasportare dal loro potere ipnotico. Quella che dobbiamo raccontare non è forse una storia di fantasmi, di ombre scambiate per prede, di specchi deformanti considerati occhiali della verità? E lo è stata fin dall’inizio.
Pensiamo al neoliberismo contro cui lanciano i propri strali le anime belle della sinistra. Anziché criticare l’organizzazione sociale che riduce l’essere umano a merce e pone l’universo e la vita agli ordini dell’economia, ci si lamenta per un dettaglio della sua politica. In sé il neoliberismo non fa altro che abbattere le frontiere nazionali per facilitare l’espansione planetaria del mercato. Battersi per mantenere queste frontiere significa battersi per un capitalismo su scala ridotta, un capitalismo locale, possibilmente dal volto umano, dove la classe dominante indigena non venga scavalcata da quella transnazionale. Come a dire, abbasso le multinazionali straniere perché fanno chiudere le piccole e medie imprese nostrane. È solo questo che desideriamo, consumare merci prodotte sotto casa?
E che dire dei vertici dei potenti della Terra? Appuntamenti mediatici, in cui nulla di concreto viene stabilito giacché chi vi partecipa si limita a formalizzare e a rendere pubbliche decisioni già prese altrove. Il loro susseguirsi nello spazio e nel tempo è solo l’ipocrita risposta alle domande di trasparenza e di eguaglianza che si alzano da più parti. Come se, incontrandosi spesso e dappertutto, i «nostri» rappresentanti intendano dimostrare che non esiste nessuna politica prestabilita, nessun centro direttivo, che tutto è sempre aperto: basta mettersi in fila, farsi avanti e discutere civilmente. Laddove è noto da tempo che non è più questione di se, ma solo di quando e come.
La stessa evanescenza affligge anche i controvertici, in tutte le loro manifestazioni. Dopo lo spettacolo dell’esercizio del potere, non poteva mancare lo spettacolo della contestazione al potere — magari sotto forma di invasione della «zona rossa». A questo ameno attivismo militante si dedicano i vari racket cattolici o di sinistra che seguono gli spostamenti dei capi di governo e dei loro ministri come il cane segue il proprio padrone, cercando in tutti i modi di attirarne l’attenzione. Come se il dominio non fosse espressione dei rapporti sociali ma dipendesse dalla volontà di otto uomini di Stato, su cui occorre per questo esercitare una certa pressione. Come se bastasse sedere a quel tavolo, o farci finire sopra la relazione giusta, per porre fine allo sfruttamento e all’insensatezza dell’esistenza umana.
E un fantasma è stato anche il Black Bloc, una volta finito nelle mani della rappresentazione mediatica. Nato su ispirazione delle lotte degli anni Settanta in Germania e venuto alla ribalta a Seattle nel 1999, è stato reimportato qui in Europa e presentato come ultimo grido in materia di radicalità. Ma, se negli Stati Uniti i rivoltosi nerovestiti avevano costituito in effetti una frattura nella tradizione locale della pacifica contestazione radical-chic, qui in Europa sono diventati, grazie ai media, una moda, una parodia, frutto di quella odiosa abitudine di catalogare ed etichettare per meglio controllare, nonché un fatto di folclore — con tanto di tamburini e sbandieratori che si sono esibiti per la gioia dei teleobiettivi di tutto il mondo. Una certa atletica tattica di strada non può che suscitare simpatia, ma se viene presentata come progetto radicale sovversivo non possiamo fare a meno di avvertirne la miseria.
Ad ogni modo la lanterna magica da cui ridondano tutte queste immagini, sgargianti nella loro inconsistenza, si trovava qui in Italia tre anni fa in occasione del G8 e dalle sue proiezioni non ci si aspettava granché, tanto il canovaccio sembrava scontato. Se non fosse stato che... a furia di rappresentarla, simularla, demonizzarla, la rivolta si è scatenata davvero per le strade di Genova, quel venerdì 20 di luglio. Una rivolta furiosa che ha saputo resistere per ore alle cariche della repressione, ma che ha ceduto in fretta sotto i colpi del chiacchiericcio mediatico, del commento sociologico, del distinguo militante, dell’inquisizione poliziesca. Sepolta sotto una montagna di sabbia, la sabbia del presente.
È ora di cominciare a pulirsi gli occhi.
Dopo gli Stati Uniti, la Svizzera, la Cecoslovacchia, la Francia, la Svezia, spettava all’Italia ospitare il raduno dei politici più potenti del mondo e dei loro pseudo oppositori. Per il governo Berlusconi, da poco in carica, si trattava del primo grande impegno internazionale. Tutto doveva filare alla perfezione, nulla poteva essere trascurato. I bellicosi proclami dei contestatori da avanspettacolo furono enfatizzati dalla stampa assieme alla probabile minaccia del "terrorismo internazionale". Anche se nessuno credeva davvero alle parole dell’autonominatosi tribuno del popolo Casarini, la cui retorica pseudo guerrigliera faceva scorrere più lacrime di risate che brividi di paura; anche se nessuno credeva sul serio a possibili incursioni di kamikaze arabi; il clima si era fatto rovente. Il governo, in cui per la prima volta la destra più reazionaria aveva un ruolo predominante, probabilmente su indicazione stessa dei suoi imminenti potenti ospiti, decise di dare una volta per tutte il buon esempio e affrontò la questione prendendo misure marziali. Già nei vertici precedenti avevamo assistito ad un progressivo incremento della repressione che aveva raggiunto il culmine a Göteborg, nella "civilissima" Svezia, quando un manifestante era stato colpito alle spalle dal fuoco della polizia. Nell’Italia di Berlusconi, Fini e Bossi, una città come Genova è stata messa in ginocchio attraverso una militarizzazione del territorio senza precedenti: strade chiuse e blindate con grate alte cinque metri, l’intera circolazione stradale ridisegnata, i tombini precauzionalmente saldati... e non sono mancati provvedimenti più comici (via le mutande e i calzini dai balconi!). Molti abitanti esasperati lasciarono la città, che assunse le lugubri sembianze di un enorme campo di concentramento. Ventimila uomini di tutti i corpi armati dello Stato confluirono nel capoluogo ligure per pattugliarlo. Vennero istituiti posti di blocco, ordinati sacchi dove rinchiudere eventuali morti, piazzati tiratori scelti sui tetti e sommozzatori in acqua. Fu predisposto un autentico centro di torture per prigionieri a Bolzaneto, la cui gestione venne assegnata ai gentiluomini della squadra speciale antisommossa carceraria (il GOM). Mentre il compito di garantire l’ordine pubblico fu affidato principalmente all’Arma dei carabinieri, i quali formarono per l’occasione i CCIR (contingenti carabinieri a intervento risolutivo), costituiti da militari diretti da ufficiali del corpo d’elite «Tuscania», già attivi in Somalia, in Bosnia, in Albania.
Da parte dello Stato non ci preparava a contenere una contestazione, ma ad affrontare una guerra. Non si trattava di controllare manifestanti, bensì di fare piazza pulita di nemici. A Genova lo Stato ha sperimentato per la prima volta in maniera così sistematica, esplicita, diffusa, contro la propria popolazione, la logica militare che presiede le missioni internazionali. A dimostrazione di come, in un mondo unificato dalla religione del denaro, la linea di demarcazione fra nemici esterni e nemici interni vada scomparendo. Dopo tutto, se la guerra viene considerata una operazione di polizia, una operazione di polizia può ben considerarsi una guerra.
Il campo di battaglia previsto era quello che si snodava attorno alla «zona rossa». È qui, sotto i cancelli e le staccionate eretti a protezione della sede del vertice, che si attendevano gli assalti dei manifestanti. È qui che i capetti della contestazione mediata e mediatica hanno chiamato a raccolta le loro truppe cammellate. È qui che si sono concentrati anche i cani da guardia del dominio per respingere la pressione dei sudditi scontenti venuti ad elemosinare i propri illusori diritti. Tutto sembrava pronto. Una moltitudine di rispettosi cittadini che grida le proprie ragioni, le forze dell’ordine assoldate per respingerle, la scaramuccia concordata a tavolino per evocare ed esorcizzare lo spettro dello scontro, i giornalisti accorsi da tutto il mondo, gli applausi finali perché alla fine tutto doveva svolgersi tranquillamente, vertice e controvertice. Nulla di tutto ciò si è verificato. Da parte delle istituzioni non c’era una reale intenzione di evitare lo scontro, quanto la precisa volontà di dare una lezione indimenticabile agli ingrati consumatori del benessere occidentale; da parte del movimento, di una parte di esso, c’era chi preferiva essere protagonista di una ribellione esplicita contro i cosiddetti Signori della Terra piuttosto che fare lo spettatore o la comparsa di un’agitata sceneggiata a beneficio dei mass media. Così, attorno alla «zona rossa» i rivoltosi non si faranno vedere, preferendo disertare lo scontro virtuale concordato con le istituzioni per andare a cercare lo scontro reale, quello senza mediazioni. Parecchie centinaia di nemici di questo mondo, assai diversi fra loro, senza capi né gregari, senza testa né coda, decisero di rifiutare l’appuntamento prestabilito con la politica per recarsi a quello al buio con i propri desideri. Pur essendosi presentati nella città e nella data stabilite dall’agenda istituzionale, andranno dove non erano attesi. Anziché lanciarsi a testa bassa verso un supposto cuore del dominio preferiranno muoversi altrove, ben sapendo che il dominio non possiede alcun cuore perché si trova dappertutto. Gli spazi fisici dove si pratica il culto del denaro, dove aleggia il fetore della merce, dove si ode la menzogna del commercio — e non i meri «simboli» del capitalismo, come preteso dalla sinistra vulgata degli adoratori dell’esistente — subiranno la critica pratica dell’azione: le banche saranno prese d’assalto, i supermercati saccheggiati, i negozi attaccati.
Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come la propria città:[…] propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.
Nel loro procedere, con il passare delle ore e il montare della rivolta, i flussi dei rivoltosi si trasformavano quanto a composizione (passanti e curiosi si univano ad essi) trasformando l’ambiente circostante. Dopo il loro passaggio, nulla era più come prima. Le auto, da scatole mobili che trasportano i lavoratori alla loro condanna quotidiana, diventarono giocattoli con cui divertirsi e barricate con cui fermare la polizia. Le sirene pubblicitarie furono mese a tacere. Gli occhi elettronici vennero accecati. I giornalisti vennero allontanati. I saccheggi trasformarono le merci da pagare appannaggio di pochi in beni gratuiti a disposizione di tutti. Attraverso scritte colorate le mura si liberarono del loro sconfortante grigiore. Le strade, i cantieri, i palazzi furono usati come arsenali. L’urbanistica, modellata sulle esigenze dell’economia e perfezionata dagli imperativi del controllo, si sciolse sotto il fuoco della sommossa. In tutti questi atti i rivoltosi ritrovarono l’autentica abbondanza, quella che non viene né contemplata in astratto, né scambiata contro l’umiliazione del lavoro. Molte volte si scontrarono con le forze dell’ordine, non di rado seppero evitarle. Come sempre accade in ogni momento di rottura con l’esistente, l’euforia cominciò a dilagare ed il buon senso smise d’essere moneta corrente. Ben presto l’impossibile diventò possibile: il carcere di Marassi, in buona parte svuotato per lasciare spazio ad eventuali arrestati, venne attaccato. Stessa sorte toccò ad una caserma dei carabinieri. Da parte loro, gli uomini in divisa dispiegarono tutta la violenza di cui erano capaci. Chi ha accusato i rivoltosi nerovestiti di aver provocato la repressione farebbe meglio a prendere atto che fin dall’inizio le cariche furono indiscriminate e travolsero chiunque, coinvolgendo spesso e volentieri pacifici manifestanti. Ciò significa che l’operato di polizia e carabinieri era già stato previsto ed organizzato, come forma preventiva di dissuasione nei confronti di tutti. Non fu affatto il risultato di un eccesso di zelo, di troppo nervosismo o di inesperienza, ma fu il vero volto del terrorismo di Stato che si scatenò senza freni, lanciando a folle velocità i suoi veicoli blindati contro i manifestanti inermi. Sotto un diluvio di lacrimogeni sparati perfino dagli elicotteri, le strade cominciarono a coprirsi del sangue di centinaia e centinaia di manifestanti. Fu proprio questo a determinare il dilagare generalizzato della rivolta. Fino a quel momento le devastazioni dei rivoltosi non erano andate molto più in là di quanto già accaduto nelle occasioni precedenti, la prevista azione diretta ad opera di qualche centinaio di compagni che approfittavano della situazione. Ma proprio ciò che avrebbe dovuto fermarla, l’intervento poliziesco, finì per alimentarla. La brutalità degli uomini in divisa portò infatti ad una sollevazione generale. Nel giro di poco tempo, migliaia di manifestanti fino a quel momento pacifici si unirono ai rivoltosi e iniziarono a battersi contro la sbirraglia. Armati solo della loro rabbia si lanciarono in una guerriglia disperata. Fra gli stessi militanti dei racket politici i cui capi invitavano alla calma, alla moderazione e alla non-violenza, ci furono molte insubordinazioni. L’ideologia della disobbedienza conobbe i suoi primi disobbedienti. Di fronte alla ferocia della repressione, non c’era ordine di partito che potesse tenere. Gli scontri con le forze dell’ordine si moltiplicarono, dappertutto giungevano manifestanti non solo nerovestiti pronti a scagliarsi contro la sbirraglia, e fu durante uno di questi scontri che venne abbattuto Carlo Giuliani. Non era un «black bloc». Non era un anarchico. Non era un provocatore. Non era un infiltrato. Era solo un giovane che aveva reagito alla violenza dello Stato. Non uno dei pochi, ma uno dei tanti. Ed è bene chiarire questo aspetto. Nei giorni successivi, tutti i politici in carriera che infestano il movimento presero inizialmente le distanze da quanto accaduto, accusando i rivoltosi di essere un pugno di "provocatori" e "infiltrati" che con le loro azioni avevano sabotato intenzionalmente un grande appuntamento pacifico, facendo perdere un’occasione storica per essere ascoltati. Tutta la canea socialdemocratica — la stessa che fino ad allora aveva sollevato tanta polvere e rumore e che per questo credeva d’essere il carro della storia — riversò loro addosso un mare di calunnie, rinverdendo la vecchia tradizione stalinista della "caccia agli untorelli". Fu questo un modo di sfogare il proprio rancore contro chi aveva deciso di sfuggire al loro controllo, rivelando a tutti la falsità della loro pretesa autorevolezza. E fu un modo di chiudere gli occhi di fronte alla fine del loro progetto politico, la cui vanagloriosa inconsistenza è apparsa alla fine di quelle giornate in tutta la sua miseria, cercando pateticamente di rilanciarlo.
In realtà i rivoltosi che a Genova si batterono contro le forze del vecchio mondo furono davvero numerosi. Anarchici, ma non solo. Nerovestiti, ma non solo. Stranieri, ma non solo. Il sapore della libertà non conosce limiti, etichette, uniformi o confini. E chi tanto si è indignato che centinaia di compagni si fossero recati a Genova con l’intenzione di scatenare una sommossa, dandosi un minimo di preparazione in tal senso e cercando di evitare la trappola dello scontro diretto con la polizia, dovrebbe riflettere maggiormente su chi ha eccitato gli animi per mesi promettendo assalti e invasioni senza avere l’intenzione di realizzarli, senza curarsi minimamente delle possibili conseguenze, su chi ha alzato al cielo le bianche mani della non-violenza, in segno di resa e non di dignità, contribuendo a mandare allo sbaraglio migliaia di manifestanti inermi.
Non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo.
Pur essendo, com’è noto, allievi di Toni Negri, non si può dire che Casarini e gli altri capibastone della mafia disobbediente abbiano seguito il saggio consiglio di Machiavelli. Dopo i «successi» mediatici ottenuti nei mesi precedenti con gli scontri concordati con la polizia, dopo una puntuale presenza in tutte le manifestazioni internazionali, indispensabile per farsi legittimare come punto di riferimento, dopo un iniziale ipocrita sostegno strategico al «black bloc» (quando si va all’estero, si sa, ogni licenza è permessa), le Tute Bianche pensavano di raccogliere a Genova il frutto di tanto lavoro. Forti del fatto di giocare in casa, con trattative già andate in porto col questore Colucci, pensavano che anche questa volta sarebbe bastato offrire una valvola di sfogo virtuale alla rabbia dei contestatori per evitare ogni forma di violenza incontrollata. In più la loro prevista «invasione» della zona rossa, che doveva avvenire naturalmente sotto i riflettori dei giornalisti di tutto il mondo, doveva servire a consacrarle alla testa del movimento. Avidi teleconsumatori, anche i Disobbedienti pensano che l’immagine conti più della cosa, che solo ciò che compare sullo schermo esista davvero, che i media siano il luogo dove si manifesta la realtà. Come potrebbe essere altrimenti? La loro fama è interamente legata al numero di passaggi televisivi che riescono a strappare, alle interviste che riescono a rilasciare, alle prime pagine che riescono ad ottenere. E per montare un buon numero di spettacolo, capace di far alzare gli indici di ascolto, tutto è lecito, tutto è manipolabile: dal passamontagna di Marcos all’acqua benedetta di Don Vitaliano. Questi buffoni di corte si sono presentati a Genova carichi di plexiglas e di speranze nelle luci della ribalta. Ma dopo poco più di un’ora dalla partenza del corteo, i loro buoni propositi si sono infranti. Se nell’incrociare la prima carcassa d’auto bruciata, i leader delle tutine esortavano ancora i giornalisti al loro seguito a non confonderli con i "violenti", se i fumi che si alzavano in lontananza erano ancora abbastanza distanti da poter essere ignorati, la carica dei carabinieri in via Tolemaide mise fine alla simulazione. Perché, questa volta, gli sbirri caricavano sul serio! Sordi agli appelli dei loro capetti che li invitavano a desistere, a non reagire, molti Disobbedienti iniziarono a battersi contro gli uomini in divisa, con l’aiuto di altri manifestanti accorsi per fronteggiare chi li stava attaccando. È proprio riconoscendo nel momento dell’attacco il nemico comune che i rivoltosi si riconoscono immediatamente fra di loro, rompendo l’isolamento della "folla solitaria", poiché la rottura con la noia e l’angoscia della sopravvivenza ha il merito di svelare gli individui a se stessi e agli altri. Poco importa quali motivi contingenti abbiano prodotto una simile situazione. Resta il fatto che quel venerdì 20 luglio per alcune ore non ci furono più violenti o non-violenti, uomini o donne, socialdemocratici o anarchici, militanti o gente comune, geometri o disoccupati, ma solo individui in rivolta contro i cani da guardia dell’esistente e la vita che viene imposta.
Il giorno successivo, sabato 21 luglio, i calcoli politici e la paura presero il sopravvento sulla rabbia. I vari racket politici militanti si organizzarono per allontanare ed esorcizzare il loro vero nemico: tutti gli incontrollabili che avevano fatto fallire miseramente i loro piani. A sera, come è noto, scatterà da parte di una polizia scatenata nella sua assoluta certezza di impunità l’attacco alla scuola Diaz, sede momentanea del Social Forum, dove tutti i presenti verranno massacrati dagli agenti inferociti. Un’azione apparentemente incomprensibile, perché fra gli altri ha colpito anche alcuni dei migliori alleati della polizia che per tutto il giorno si erano distinti nella loro opera di delazione. In realtà, anche questo episodio si inserisce perfettamente nella logica militare che aveva governato l’operato delle forze dell’ordine. La guerra spietata ai manifestanti — oltre ai continui rastrellamenti per le vie della città, ai pestaggi indiscriminati, alle torture ed umiliazioni inflitte per lunghissime ore agli arrestati — non poteva fare a meno della vendetta contro chi si era dimostrato incapace di poter controllare la piazza come promesso. La prova di forza del governo italiano doveva essere data fino in fondo.
Finita la rivolta, è iniziato il suo commentario da parte di giornalisti, specialisti, periti. E più aumentavano le testimonianze e le interpretazioni di quanto avvenuto, più diminuiva la sua cristallina chiarezza. La rivolta di Genova, nella sua viva totalità, è stata sezionata e smembrata in tante piccole particelle. La burocrazia del dettaglio ha spazzato via l’immediatezza del significato.
Un esempio per tutti, l’inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani. Chi ha sparato? Con quale arma? Da quale distanza? Quanti colpi? Il defender era davvero isolato rispetto agli altri carabinieri? Ma ne siamo sicuri? Rivediamo le immagini, rimisuriamo le distanze, rileggiamo i rapporti... una, due, tre, infinite volte, tante quanto basta per assordare le orecchie, chiudere gli occhi, sfinire il cervello, annegare il fatto originario nell’alta marea del più insulso opinionismo. Fare in modo che non si rifletta più sulla morte di un giovane abbattuto durante una manifestazione di protesta, ma che ci si concentri sulla effettiva provenienza dell’estintore che aveva in mano. Questo stesso procedimento di banalizzazione è stato utilizzato anche per il resto, dalle torture inflitte a Bolzaneto all’irruzione notturna alla Diaz; tutto è stato sbriciolato e ridotto in polvere affinché nulla si potesse più vedere. Naturalmente questa poderosa opera di mistificazione è stata condotta nel nome della verità. La stessa verità che molti aspettano e pretendono si faccia largo nelle aule dei tribunali. Sono piovute denunce contro i massacratori e torturatori in divisa. Gli avvocati si sono mobilitati. Sono stati raccolti centinaia di video che dovrebbero infine mostrare cosa sia veramente accaduto. Sì, perché la rivolta di Genova è stato l’avvenimento più fotografato della storia. Sbirri da una parte, mediattivisti dall’altra, giornalisti in mezzo, tutti si sono lanciati in una folle gara per immortalare le azioni altrui. La rappresentazione, prima di tutto. Per i posteri. Perché si sappia. Perché qualcuno paghi. Perché la giustizia trionfi.
Eppure, tutti sanno cosa è veramente accaduto. È inciso in maniera indelebile nella memoria e nella carne di migliaia di manifestanti presenti. E proprio Genova ha dimostrato l’assoluta inutilità pratica, sovente la pericolosità, di macchine fotografiche e videocamere. A parte la polizia, che ne ha tratto profitto identificando e denunciando molti rivoltosi, compito che le è stato facilitato dall’onnipresenza di portatori di teleobiettivi, e a parte i giornalisti, che hanno incassato lo stipendio per il lavoro svolto, a cosa sono servite tutte quelle riprese? A che pro mostrare a tutto il mondo che il vicecapo della Digos di Genova, Alessandro Perugini, ha sferrato un calcio in pieno volto ad un ragazzo steso a terra immobilizzato dai suoi colleghi? Forse che costui, colto sul fatto, è stato poi messo in condizione di non ripetere più la sua impresa? Un tribunale lo ha condannato, è stato espulso dalla polizia e sostituito con un poliziotto beneducato e rispettoso della Costituzione? Niente affatto, anzi, con umorismo piuttosto macabro lo Stato ha nominato il signor Perugini rappresentante per l’Italia di una campagna internazionale contro la tortura nel mondo.
La convinzione che basti mostrare i soprusi del potere per metterlo in ginocchio è un’illusione ideologica, meritevole di sparire come tutte le ideologie. Erede diretto della vecchia controinformazione, il moderno mediattivismo coltiva una cieca fiducia più nelle virtù taumaturgiche dell’immagine che in quelle della parola. Ma entrambi si basano sul presupposto che, una volta rivelata la verità dei fatti, le menzogne della propaganda saranno infine messe a tacere. Chissà come sono rimasti male, quei poveri idealisti che credono nella luce che sconfigge le tenebre, alla notizia che osservando i filmati il perito della magistratura ha stabilito nientemeno che sarebbe stato un sasso lanciato da un manifestante a deviare il proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani. Lo dimostrerebbe uno sbuffo biancastro comparso repentinamente sopra la sua testa, un attimo prima della sua morte. È proprio vero che, in una immagine, ognuno può far vedere ciò che vuole. E in una competizione di immagini e chiacchiere, fra i media alternativi e quelli istituzionali, è inutile nascondere che a vincere saranno sempre i secondi.
Così come non c’è da attendersi nessuna verità da una immagine, allo stesso modo non possiamo aspettarci nessuna giustizia da un verdetto. Anche perché i tribunali sono istituzioni di quello stesso Stato che ha ordinato il massacro avvenuto a Genova. Perché mai i magistrati dovrebbero condannare uomini che sono abitualmente al loro servizio? Sbarazziamoci del pio luogo comune propiziatore di garanzie che pretende esista una differenza fra Stato di diritto e Stato di fatto, come fossero due entità che è necessario far coincidere per avere la giustizia. Lo Stato inventa il suo diritto e lo applica e modifica come meglio crede, ben sapendo che si tratta solo di carta straccia buona per gli allocchi. I torturatori che a Bolzaneto hanno strappato le carte di identità degli arrestati gridando "qui non avete diritti, siete nessuno", hanno solo espresso senza maschere la natura dello Stato, quello di cui sono i servi obbedienti e leali. Qualsiasi perizia, controinchiesta o verdetto, non potranno mai riconoscere questa banalità: che lo Stato a Genova ha mostrato il suo vero volto. Che non ne siamo affatto i cittadini, bensì i prigionieri. Che la nostra incolumità dipende dal nostro servilismo. Che chi si oppone ai voleri dello Stato è un nemico da eliminare. Non a caso, anche sull’onda della legislazione europea «antiterrorismo» proposta dopo gli attentati alle Torri gemelle, il contestatore che insorge in piazza è stato oramai assimilato al rivoluzionario che uccide un nemico, che a sua volta è stato assimilato al kamikaze che dirotta un aereo per farlo schiantare in mezzo a una città. Nel loro delirio di onnipotenza e nella loro isteria securitaria, gli Stati pongono a tutti un’alternativa secca: o si è fedeli sudditi, a cui al massimo è concesso di esprimere, a bassa voce e col dovuto rispetto, il proprio disaccordo; o si è terroristi destinati al macero e alla galera. O strisciare o crepare. Che si occupino spazi vuoti o si blocchino strade e treni, che si infrangano vetrine o si abbattano funzionari statali, poco importa: tutti questi atti saranno considerati terroristici, con tutto ciò che questo comporta. Definendo in tal modo chiunque non si assoggetti volontariamente, lo Stato intende celare la propria natura terroristica.
Ma i magistrati di Genova sono riusciti ad andare oltre: hanno introdotto il delitto di «compartecipazione psichica», secondo il quale non occorre più prendere parte ad una rivolta per finire nel mirino della repressione, basta essere presente ai fatti. Chi non vuole passare qualche guaio non deve solo astenersi dal lanciare pietre o spaccare vetrine, ma deve farsi poliziotto e controllare attivamente gli altri. Altrimenti può venir incriminato come complice. Ossequioso suddito e potenziale sbirro: ecco come deve essere, nelle fantasie di chi ci governa, il cittadino ideale del nuovo millennio.
Tutto ciò rischia di lanciare una luce inquietante sulle lotte che si apriranno nei prossimi anni, tuttavia potrebbe contribuire a liquidare un vecchio falso problema che attanaglia molte coscienze: quello sulla violenza /non-violenza. Ora è lo stesso Stato a dichiarare che a scatenare la repressione non è l’uso della violenza, come pretendono da sempre i placidi credenti in un miracolo emancipatore, ma sono sufficienti le motivazioni che animano i suoi oppositori. Ciò che è intollerabile è che si possa aspirare ad una vita radicalmente diversa, che lo si affermi e che ci si batta per questo. Stando così le cose, chi si può dire al di sopra d’ogni sospetto? Non ha alcun senso sbandierare il ricorso alla violenza come linea di demarcazione fra «compagni» e «provocatori»; se in passato ciò era stato fatto notare più volte da questo lato della barricata, oggi è lo stesso Stato a mettere le cose in chiaro. Ecco che allora l’uso della violenza torna ad essere ciò che è sempre stato: una scelta individuale, dettata dalle prospettive, dalle circostanze, dalle attitudini di chi la mette in pratica. Anche perché, se le ragioni della distruzione di questa società sono sotto gli occhi di tutti — e sotto gli occhi di tutti si trova quindi anche la necessità dell’uso della forza — quelle della sua conservazione, o anche della convivenza con essa, sono decisamente meno chiare. Chi può scagliare l’anatema contro coloro che a Genova hanno fatto strage di vetrine? Non certo chi ha fatto strage di ossa, di teste e di denti. Né chi si indigna per le aiuole calpestate e poi considera normali i morti sul lavoro. Ma nemmeno chi vuole invadere la «zona rossa» del privilegio partendo dalla «zona grigia» del collaborazionismo. Se chi attacca una banca è un provocatore infiltrato, come si può definire chi consiglia un ministro, discute con un parlamentare, contratta con un questore?
Solo l’11 settembre, con tutte le sue conseguenze, è riuscito a far trapassare il ricordo degli avvenimenti del luglio 2001 a Genova. Un sistema politico e sociale che aveva appena subìto dall’interno la più grande e violenta contestazione degli ultimi decenni non poteva che approfittare dell’attacco militare lanciatogli dall’esterno da alcuni suoi rancorosi collaboratori licenziati. Attraverso la martellante campagna mediatica "ground zero", orgoglioso simbolo di una civiltà vittima, ha preso rapidamente il posto di piazza Alimonda, imbarazzante simbolo di una civiltà carnefice, riuscendo a portare un po’ di tranquillità nell’oceano in tempesta delle ipocrite coscienze occidentali — il salutare attentato di Nassiriya è servito purtroppo da pretesto per completare l’opera, trasformando in martiri da onorare gli assassini e torturatori in divisa che tanto sangue avevano versato nella città ligure.
Eppure, quanto accaduto in quei giorni di luglio di tre anni fa è ancora lì, minaccioso nella sua incompiutezza. Talmente minaccioso che nel frattempo il suo significato non è stato solo eroso dalla ragione di Stato che ha imposto una guerra infinita, ma anche dalla calunnia, dalla mistificazione, dalla rimozione messe in atto da tutti coloro — in uniforme o in tuta — che dovevano garantire l’ordine e la sicurezza nelle strade genovesi, con i risultati che ben conosciamo.
Quegli avvenimenti sono stati definiti la fine delle illusioni. Più che di una fine, si è trattato di una pausa. Purtroppo. L’occasione di rompere la lanterna magica, che per un attimo è rimasta abbandonata a terra, è andata sprecata. Lo Stato può sempre contare su schiere di servitori pronti ad ammazzare e di elettori pronti a farsi ammazzare; ed oggi si appresta a presentare un conto salato per quegli attimi di libertà. Il circo della contestazione, che a Genova aveva perduto i suoi spettatori, ha continuato la sua tournée mondiale permettendo ai propri pagliacci di esibirsi ancora; ed oggi si prepara a perpetuare l’odiosa distinzione fra i buoni da salvare e i cattivi da condannare. Quanto ai rivoltosi, molti di loro sembrano ammutoliti in attesa di un altro giorno festivo strappato alla quotidianità del lavoro per manifestarsi.
La nostra strada, l’unica in grado di portarci in paesaggi fantastici e ad incontri segreti dove tutto può ancora accadere, non passa né dalle aule di tribunale né dagli studi mediatici. Il culto della giustizia e quello della verità non avranno le nostre attenzioni. Se ieri un appuntamento politico prettamente spettacolare è riuscito sotto l’incalzare degli avvenimenti a trasformarsi in una sommossa generalizzata, ciò non significa tenere d’occhio l’agenda del potere nella speranza di una replica. Più che ai periodici rituali della militanza, forse sarebbe il caso di guardare ai conflitti sociali che da più parti aprono brecce nel muro di cemento armato del consenso. Perché non si può aspettare che il calendario ci dica che è carnevale, il solo giorno in cui ogni scherzo vale, per accendere un fuoco allo scopo di sciogliere il ghiaccio sociale in cui siamo ibernati.
** L'apparato
Per il vertice del G8, la città di Genova viene presa dall’Apparato come terreno per una gigantesca sperimentazione: verificare il grado di sottomissione dei suoi abitanti e testare, in un appuntamento fissato, nuove tecniche per sedare le possibili rivolte del futuro. Intendiamo per Apparato un insieme di dispositivi architettonici, di sistemi di controllo e di strategie poliziesche, come anche la rappresentazione mediatica finalizzata a fare accettare l’esistenza o la falsa critica di tutto ciò. Genova è contemporaneamente il teatro di un imponente gioco di ruolo al quale partecipano da un lato i "potenti" e dall’altro i "contestatori-riformatori" suddivisi in varie squadre. Come di regola, da un lato e dall’altro ci sono i re e i loro alfieri. Ben si comprende come già prima di luglio 2001 comincino i preparativi per quella che sarà la scacchiera dell’incontro-scontro. Anche a livello internazionale si possono osservare dei precedenti e molti sono i segnali che fanno pensare a una presa di posizione uniforme. L’Europa si mostra unita nell’opera di repressione di tutti i movimenti di protesta, riformisti e non, assorbendo quello che si può dai primi e isolando, colpendo gli altri. Ma Genova deve essere qualcosa di più: con il G8 si riassumono gli aspetti peggiori di due anni di repressione che da Praga va a Göteborg passando per Napoli.
La mano armata del potere si stende su Genova con tutti i suoi dispositivi di controllo, dispiegando un esercito dotato di mezzi per fronteggiare ogni evenienza, compresa la minaccia di coloro che saranno etichettati come "terroristi". Si potranno contare 20.000 pedine tra poliziotti, carabinieri e finanzieri, 3000 tra militari, paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri, incursori, sommozzatori e specialisti della guerra batteriologica, nucleare e chimica. Saranno predisposti cecchini sui tetti delle case del centro storico. Ogni vettura in dotazione alle forze di polizia sarà munita di apparecchiature satellitari. Tutte le forze dislocate sul territorio saranno coordinate da un’unica centrale operativa. I missili predisposti all’aereoporto rendono bene l’idea di come Genova si stia trasformando così in un ottimo terreno per una guerra preventiva. La città sarà monitorata 24 ore su 24 anche grazie all’installazione di decine di telecamere in diversi punti chiave, saranno raddoppiate le antenne per la telefonia mobile (il cui numero sale da 200 a 400).
Viene organizzato e finanziato persino un "battaglione sanitario": una task force (termine che in questi mesi verrà usato per qualsiasi tipo di iniziativa istituzionale) composta da esperti in grado di «intervenire in caso di una situazione di catastrofe che implichi una preparazione e un addestramento specifici». Vengono attrezzate 20 sale operatorie e messe a disposizione 180 ambulanze. Il costo dell’operazione supera i 4 miliardi di lire. Sempre in nome della sicurezza, a maggio vengono stanziati con un apposito decreto legge ulteriori fondi (21 miliardi di lire) per le delegazioni che interverranno al G8.
Nel periodo precedente il vertice, Genova e i suoi abitanti conoscono così una sorta di sperimentazione di uno stato marziale. La città viene divisa nel suo interno con la creazione della "zona rossa" – un perimetro di 3 km e 770 metri che coinvolge 13700 abitanti – e circondata a sua volta da una "zona gialla". Già a marzo si assiste a una prima schedatura di massa della popolazione del centro storico (3050 persone). L’Apparato con il suo tribunale armato giudica e divide le persone in terroristi, clandestini, violenti e oppositori da un lato, cittadini, funzionari, politici, portaborse e giornalisti dall’altro. Questi ultimi, giudicati i soli degni di abitare la città, saranno forniti di uno speciale pass da mostrare ai varchi per accedere alla zona rossa, status symbol di una promozione ottenuta. La città risulterà non solo divisa socialmente ma anche materialmente da reti metalliche come barriere, da check-point, da percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, il tutto accompagnato da una spudorata sospensione della "libera" circolazione.
La zona rossa viene a sua volta spartita tra polizia e carabinieri; la Digos e il Ros accerteranno se fra gli abitanti ci sono "contestatori violenti", clandestini o più in generale indesiderabili. All’indagine si unirà anche la Guardia di Finanza che accerterà la regolarità delle abitazioni, preludio e premessa tecnica per giustificare operazioni di rastrellamento, sgombero, deportazione ed espulsione. Già nei primi giorni di gennaio, vengono denunciati decine di rom che nei mesi precedenti avevano occupato una vasta area interna ad una fabbrica dismessa nella periferia genovese. Questa operazione segna l’inizio di un’imponente opera di "pulizia" e controllo e dà il via a un sempre più crescente attacco della questura nei confronti di immigrati regolari e clandestini, sia nella parte vecchia della città che nei quartieri decentrati come a Sampierdarena e Cornigliano. Identificazioni e fermi continuano a ritmo sostenuto per mesi. La situazione per gli immigrati si inasprisce sempre più; in particolare, la Lega Nord, oltre ad organizzare una manifestazione nel centro cittadino, partecipa in nome della "sicurezza" a una rete di sorveglianza insieme a Forza Italia e a varie associazioni ("Comitato Genova G8 Città Sicura").
Gli sgomberi e i rastrellamenti, per quanto numerosi, talvolta non vanno a buon fine perché le forze dell’ordine si trovano di fronte una determinazione inaspettata; esemplare in questo caso è l’occupazione di uno stabile del Lagaccio, quartiere situato a ridosso del centro cittadino.
Continua per i mesi precedenti il G8 la "pulizia" di quanti, non risultando funzionali all’evento, costituiscono un pericolo per l’ordine della città; nel giro di pochi mesi Genova dovrà essere rimessa a nuovo, sia dal punto di vista architettonico che sociale. In questo "abbellimento" generale per la creazione di una "scenografia" di proporzioni enormi, l’Apparato inaugura numerosi provvedimenti talvolta ridicoli, come il diffidare dallo stendere biancheria alle finestre del centro, e talaltra aberranti, come l’uso di cani anti-barbone nei pressi della stazione di Brignole. Il compito di salvaguardare dal "barbonaggio" e da atti di vandalismo il parco mezzi di Terralba viene affidato alle guardie giurate della Lince che agiscono per conto delle Ferrovie. Varie organizzazioni di volontariato cooperano con il Comune nella pulizia della "scacchiera" dell’evento, individuando destinazioni per la deportazione dei senzatetto (quasi duecento) da Genova. In questo contesto minaccioso, uno dei banchi di prova in vista del G8 è fornito dal Concistoro in Vaticano, in occasione del quale Roma viene blindata per la paura di attentati. L’intelligence ha la convinzione che in Italia integralisti islamici si stiano organizzando per sferrare attacchi e, più in generale, si fa di tutto per diffondere la paura della possibile presenza di elementi pericolosi. Franco Frattini (presidente del comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) il 2 marzo dichiara: «Esiste una rete internazionale per sabotare il G8, una rete che attraversa Italia, Francia e Germania. Gruppi di 15-20 persone di varia nazionalità si sono già incontrati a Nizza, Lione, Berlino, Monaco e Norimberga per preparare la guerriglia. In Italia il cuore organizzativo è il Veneto e il Trentino Alto Adige. A Genova controlliamo con attenzione l’Inmensa».
Il Sisde, attraverso la divulgazione di diverse informative, partecipa e contribuisce al costituirsi di questo clima, segnalando la presenza sul territorio «di coloro che non escludono il ricorso ad azioni di scontro o ad iniziative violente»; vengono ritenuti probabili «il danneggiamento e il sabotaggio anche simbolico di impianti e sedi di industrie del settore delle biotecnologie e della ricerca genetica». Sempre secondo il Sisde, fra i vari blocchi di manifestanti che ha individuato (rosa, giallo, blu e nero) quelli che destano maggiore preoccupazione sono «quello blu (Autonomia Operaia) e quello nero (una quarantina di gruppi anarchici)». Va aggiunto che il 12 giugno, davanti al palazzo della Regione, 400 operai dell'Ilva vengono caricati dalla celere durante un presidio contro i licenziamenti.
L’Apparato si muove per l’affermarsi delle divisioni sociali e per riuscire a creare a Genova un non-luogo in cui si possa svolgere l’incontro-scontro: chiusi le stazioni ferroviarie, il porto e l’aeroporto, la strada sopraelevata lungo mare (una delle arterie della città), il principale ingresso autostradale, chiusi gli accessi in spiaggia, i posti di lavoro, sospese le udienze ordinarie, le operazioni chirurgiche, i matrimoni e i funerali. A partire da una settimana prima del G8, vengono impediti con vari decreti manifestazioni, concentramenti, distribuzione di volantini e quant’altro.
Chiuse le frontiere con la Francia e con l’Austria, il che significa di fatto la sospensione di quanto stabilito in proposito dal trattato di Shenghen; una manifestante viene investita durante una protesta alla frontiera di Ventimiglia e alcuni giorni dopo muore. Sarà il primo morto del G8. In questo clima di vessazioni continue, gli abitanti di Genova sono invitati a lasciare la città durante i giorni del G8 per una "breve vacanza". 200 detenuti vengono trsferiti al fine di far posto ai manifestanti. Forse in base a uno studio statistico (durante le manifestazioni di Quebec City, ad esempio, ci furono 423 arresti), il potere calcola il numero di 600 detenuti a cui far posto.
Genova non ha mai conosciuto nella sua storia uno sfoggio così capillare e ossessivo di controllo, neanche durante l’occupazione nazista o nei giorni della sommossa di giugno-luglio 1960.
In questo contesto, i "sopravvissuti" si preparano per la gestione dell’evento; in vista del G8, da un lato il potere si muove per assicurare un vertice perfetto, dall’altro gli alfieri della "società civile" si mobilitano per un contro-vertice che possa segnare il trionfo delle loro politiche riformiste. Le parti in gioco ebbero già modo di incontrarsi e scontrarsi a Genova durante Tebio (fiera degli o.g.m.) e a Napoli in occasione del vertice OCSE. Allora, come in altre occasioni, Tute bianche e compari avevano concordato scontri simbolici con la polizia ed espresso l’intenzione di bloccare i cosiddetti violenti per assicurarsi il successo del loro contro-vertice. Questi contestatori si mostrano così pienamente inseriti nell’Apparato: là dove il potere rivela ai suoi sudditi di avere delle regole che non si possono violare, anche costoro pretendono la sottomissione dai loro adepti attraverso la regolamentazione della protesta e della rabbia, mostrandosi perfettamente assimilabili a un mondo in cui tutto viene disciplinato. Un esempio significativo sarà l'invito che il Genoa Social Forum rivolgerà ai ferrovieri affinché sospendano il loro sciopero nazionale in programma per il 13 e 14 luglio, sciopero che ostacolerebbe l'arrivo dei manifestanti.
Va inoltre ricordato, ad esempio, come già nei primi giorni di gennaio, 150 fra attivisti di vari centri sociali, sindacalisti, preti e giornalisti si incontrano al porto di Genova e al centro sociale Zapata per simulare diversi tipi di scontro con le forze dell’ordine; le varie rappresentazioni da parte dei contestatori-riformatori saranno numerosissime nei mesi precedentii il G8. Tutto ciò rientra nei meccanismi ben oleati dell’Apparato che, in varie forme, presenta l’avvenimento come già avvenuto; ben prima di luglio vertice e contro-vertice sono analizzati, studiati, descritti in ogni particolare, si ipotizzano perfino i probabili morti.
I mass media sono coinvolti nei preparativi dell’evento con l’inscenare diverse ipotesi su come si svolgerà l’incontro-scontro. In questo quadro di pre-visione, essi assumono un ruolo ben preciso: da un lato creare un finto dibattito («è giusto l’intervento dell’esercito per motivi di ordine pubblico?») dall’altro dare delle direttive prefigurando varie situazioni di scontro, anche attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio (per esempio quelle di Göteborg).
La rappresentazione mediatica assume così l’importante ruolo di far convogliare l’attenzione su percorsi precostituiti che dovrebbero portare a Genova le persone già ammaestrate per calarsi in una delle parti del gioco. In un ginepraio di ipotesi su un incontro ancora da avvenire, i mass media contribuiscono a diffondere uno stato di paranoia generalizzata, facendo risaltare gli aspetti più macabri o terrorizzanti: si paventano, per esempio, deliranti scenari di palloncini con sangue infetto come arma in mano ai manifestanti o si dà un eccessivo rilievo ai continui falsi allarmi bomba come prefigurazione di una catastrofe imminente. Vanno aggiunti, nel clima del pre-vertice, gli attacchi incendiari contro agenzie interinali, l'invio di pacchi-bomba (a una caserma dei carabinieri, dove un milite rimane ferito alla mano, ad Emilio Fede, agli uffici della Benetton e a un sindacato di secondini spagnoli a Barcellona) e un fallito attentato contro la polizia a Bologna – azioni rivendicate da gruppi leninisti e anarchici contro il G8, in solidarietà coi prigionieri, coi Mapuche o in ricordo di alcuni compagni assassinati dallo Stato. Al centro sociale Leoncavallo, spazio delle Tute bianche di Milano, arriva un pacco contenente merda di cane. Rispetto ai pacchetti-incendiari, bisogna precisare che quello idirizzato a Emilio Fede viene aperto dalla segretaria, la quale rimane lievemente ustionata, mentre quello al direttore della Benetton viene aperto, fortunatamente senza conseguenze, da un dipendente. Le dichiarazioni del Genoa Social Forum attribuiscono ai servizi segreti, secondo l'immancabile copione della sinistra italiana, tali azioni, il cui obiettivo – per questi specialisti della menzogna – sarebbe colpire non il potere, ma il movimento (vedi il capitolo "I traghettatori del consenso").
In questa gigantesca fantasmagoria, si cerca di contenere in un’unica cornice tutti i partecipanti alla farsa: il potere, i suoi volenterosi contestatori-riformatori e anche coloro che invece vorrebbero rovinare tutta la messa in scena. Già prima del G8, questi ultimi saranno sottoposti a una campagna repressiva: Digos, Ugigos e Ros formulano richieste di custodia cautelare preventiva o altre misure restrittive per molte persone che dalle informative risultano intenzionate ad andare a Genova con propositi violenti. Questa campagna di prevenzione si traduce di fatto con obblighi di residenza per alcuni e con perquisizioni (effettuate per lo piu’ nel Nord-Italia) per altri.
Nel di marzo Fini annuncia "tolleranza zero" verso i manifestanti violenti e, alla luce del vertice OCSE di Napoli, insiste sulla possibilità di fermarli prima poiché, dice, tutti sanno dove sono e cosa fanno. Il ministro degli Interni Scajola parla, già il 18 luglio, di 850 persone fermate alla frontiera, a cui vanno aggiunti almeno i 150 greci bloccati nel porto di Ancona il 19. Meglio si spiega in questo contesto la creazione della minaccia costituita da coloro che sfuggono alle regole democratiche e che a livello mediatico vengono identificati nei Black Bloc.
Dopo il G8, gli abitanti di Genova ritroveranno la loro quotidianità in uno spazio urbano normalizzato e insieme sfigurato dai dispositivi del potere. A riprova della regola secondo la quale le situazioni di emergenza, imposte con l’ecologia urbana della paura, diventano in seguito la norma. Il controllo elettronico nel frattempo si estende e si incentivano, per esempio, quelle aziende che intendono dotarsene. Alcune vie del centro storico vengono chiuse con cancelli privati, una sorta di versione perbene delle grate e delle transenne. I posti più impensati – come piccole scalinate, piazzette, gradini delle chiese – vengono ora sorvegliati e addirittura trasformati con l’installazione di spuntoni metallici che impediscono la sosta dei passanti. A Genova, come nel resto d’Italia, entrano in servizio poliziotti e carabinieri di quartiere; pattugliamenti e rastrellamenti diventano normali operazioni di polizia. Passati i giorni della protesta, esauritasi la rivolta, molto di ciò che è stato predisposto dall’Apparato è ora un’eredità dei genovesi. Chissà se nell’apparente neutralità di cancelli e telecamere qualcuno riuscirà a vedere la brutalità della polizia, e in quelli oggetti inanimati il sangue di chi si è battuto per liberare le strade e la vita.
** I traghettatori del consenso
Quello che si annunciava come il grande spettacolo di Genova doveva contare su di un’attrice di primo piano: la contestazione simulata. Con un anticipo di mesi rispetto alle giornate di luglio, il Genoa Social Forum (d’ora in poi GSF) aveva cominciato una lunga negoziazione con l’amministrazione comunale, il governo e i vertici delle forze dell’ordine sui finanziamenti e i luoghi del "contro-vertice", nonché sulle modalità della protesta. Dalle lettere a Ciampi agli incontri con il capo della polizia De Gennaro, dai comunicati stampa alle ripetute richieste di essere ricevuti da Berlusconi, i suoi portavoce pretendevano di essere trattati come un legittimo soggetto politico. Da aprile in poi, con una scadenza settimanale, i vari raggruppamenti del GSF (le future "aree tematiche") inscenavano, in centri sociali, palestre e parrocchie, ripetute rappresentazioni di scontri davanti ai giornalisti. Alle diverse "anime del movimento" corrispondeva uno stuolo di consulenti e specialisti che fornivano le attrezzature adeguate e stilavano gli opportuni decaloghi comportamentali. Ovviamente chi rifiutava la logica della gerarchia e delle trattative non aveva alcuna voce in capitolo rispetto alle decisioni prese dai cosiddetti rappresentanti del movimento (i quali, a conti già fatti, proporranno un ridicolo referendum telematico a cui risponderanno solo poliziotti e giornalisti). All’interno del GSF, una sorta di cartello che riuniva una vasta area di democratici, dai cattolici di base di Lilliput a Rifondazione comunista, da settori dei Verdi alle Tute bianche, compresa la Sinistra giovanile, cioè i giovani degli stessi Ds che avevano voluto il G8 a Genova, si stringeva un patto con cui i partecipanti si impegnavano, nella contestazione, a «rispettare la città e le persone, anche in divisa» (vedi il comunicato stampa del 5 giugno, riportato in Appendice). Coordinato con il GSF, ma su basi indipendenti, era anche il Network per i diritti globali, composto dai Cobas e da alcuni centri sociali. In queste note ci soffermeremo soprattutto sulle Tute bianche. Ci sembra più utile smascherare i pacificatori abili nel travestirsi da ribelli. I preti della politica convenzionale si smascherano da soli.
Per creare l’"evento mediatico" non bastava la blindatura della città e la creazione di una vera e propria zona di guerra. Ci volevano le dichiarazioni roboanti dei contestatori. Questo era il ruolo delle Tute bianche, giocato con una precisa strategia pubblicitaria. Così, nelle settimane precedenti il vertice è un susseguirsi di retorica guerrigliera, costruita per lo più con vari slogan ispirati al subcomandante Marcos. Il 26 maggio, a Palazzo Ducale (sede del futuro G8), alcune Tute bianche in costume zapatista, con tanto di passamontagna, allestiscono uno spettacolo davanti alle telecamere. Il loro portavoce Luca Casarini legge una sorta di dichiarazione di guerra copiata dai comunicati dell’EZLN: «Vi annunciamo formalmente che siamo scesi sul piede di guerra. […] Se dobbiamo scegliere fra lo scontro con le vostre truppe e la rassegnazione non abbiamo dubbi: ci scontreremo» (il manifesto, 27 maggio 2001). Nello stesso periodo, all’idroscalo di Milano, simulano con dei gommoni l’"accerchiamento" via mare dei "potenti della terra". Anche in questo caso, i futuri Disobbedienti non risparmiano di leggere l’immancabile dichiarazione ai giornali. Di proclama in proclama, si arriva alle giornate genovesi. Senza perdere prima l'occasione di definire – assieme all'intero Gsf – «bomba contro il movimento» un pacco postale esploso fra le mani di un carabiniere della caserma di San Fruttuoso (successivamente rivendicato da un gruppo anarchico). Spingendosi fino alla delazione indiretta, il portavoce del Leoncavallo Daniele Farina dichiara: «È il Torino style, sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto a inaspeire il clima con fatti cruenti» (il manifesto, 17 luglio 2001).
Contemporaneamente a queste frasi ad effetto, in ripetuti incontri con la polizia Casarini e soci definivano nei dettagli le modalità di un conflitto simulato, secondo un copione più volte sperimentato. Al riguardo, rimane esemplare l’articolo di Luigi Manconi – parlamentare dei Verdi ed ex di Lotta Continua – su La Repubblica del 14 luglio 2001 (che riportiamo integralmente in Appendice). Attraverso accordi preventivi con la polizia e tramite un «gruppo di contatto» («composto da avvocati, parlamentari, portavoce delle associazioni e centri sociali»), il quale doveva dichiarare «apertamente le proprie intenzioni e obiettivi», gli "scontri" avrebbero dovuto risultare una perfetta messa in scena mediatica, autopromozionale per le Tute bianche e conveniente per le forze dell’ordine. Ora, perché uno spettacolo funzioni bisogna assicurarsi che nessun guastafeste ne rovini l’allestimento. Dichiarerà, a questo proposito, l’allora questore di Genova di fronte alla commissione parlamentare, il 28 agosto 2001: «Dirò di più: un funzionario del dipartimento aveva contatti diretti con Casarini. Ciò ha consentito, la sera tra il 20 e il 21 luglio, la collocazione di quei container, perché da lui abbiamo saputo che, pur facendo parte del Genoa social forum, le tute bianche non andavano d’accordo con il network e con i Cobas: egli aveva dunque paura che altri, con frange estremiste, potessero disturbare il suo corteo, che doveva passare per via Tolemaide. A questo punto abbiamo creato quel muro di container che la Repubblica ha descritto bene nel suo articolo. Lo scontro doveva avvenire in piazza Verdi con la famosa "sceneggiata", che dava visibilità al movimento delle tute bianche». Le parole del torturatore e assassino Colucci, a Genova massimo responsabile della piazza, non sono mai state smentite. Solo le date sono sbagliate: si tratta della sera tra il 19 e il 20 luglio. «Casarini ha confermato i contatti. E ha confermato anche un dettaglio ulteriore: già la sera del 19 luglio c’era la consapevolezza che alcuni elementi del cosiddetto network (che comprendeva anche i Cobas) volevano compiere gesti di violenza. Fu proprio in previsione di questa emergenza, come confermano anche fonti del Viminale, che il quartiere della Foce dalla sera alla mattina fu disseminato di container. […]. Proprio dall’area dei disobbedienti sarebbe partita, in una fitta serie di contatti e telefonate con alcuni referenti della Digos locali, l’emergenza per le violenze che una parte dei contestatori stava preparando» ("Digos e disobbedienti uniti contro i black bloc", Il Secolo XIX, 30 gennaio 2003).
Nonostante tutto questo, gli accordi saltano, lo spettacolo finisce. Fin dalla mattina del 20 luglio diverse centinaia di anonimi ribelli cominciano ad attaccare le strutture del capitalismo – banche, sedi di multinazionali, caserme e carceri – infischiandosene della "zona rossa" ed evitando lo scontro frontale con la polizia. Il corteo dei Disobbedienti (questo è ora il loro nome: all’ultimo momento Casarini e soci smettono la tuta bianca per confondersi "con la moltitudine del movimento") parte dallo stadio Carlini alle 13. 15. Il corteo scende molto lentamente con numerose pause. Alle prime immagini di incendi in lontananza, un portavoce arringa i giornalisti diffidandoli dall’attribuire quelle azioni ai Disobbedienti. Il corteo prosegue con cautela disponendosi a testuggine per affrontare gli scontri simulati. Ma in via Tolemaide i carabinieri caricano violentemente. Saltano tutti i propositi di assalto virtuale. Dopo questa carica molti manifestanti abbandonano ogni intento pacifico e si scontrano con decisione. Nonostante i ripetuti inviti dei capi a non lanciare nulla contro i carabinieri, la base, raggiunta da centinaia di rivoltosi, ingaggia una battaglia che durerà fino alle 17. 30. È nel corso di questi scontri che il boia Placanica assassinerà Carlo Giuliani. Mentre numerosi gruppi continuano a battersi con le forze dell'ordine, il corteo ritorna al Carlini, sottoposto alle cariche, ai rastrellamenti e ai pestaggi di chi non riesce a rimanere nelle fila. Una volta giunto allo stadio, la sbirraglia si ritira. Sono le 18. 30. Fino a sera, comunque, l’insubordinazione alle gerarchie sarà totale anche nel campo dei Disobbedienti. Quanto a Carlo, ecco cosa dirà a caldo un portavoce delle Tute bianche genovesi, prima che gli avvoltoi della politica cominciassero a planare sul suo cadavere: «Lo conoscevamo poco, qualche volta lo incontravamo al bar Asinelli. Era un punkabbestia, uno di quelli che non hanno lavoro ma portano tanti orecchini, uno che vuole entrare senza pagare, uno che la gente perbene chiama parassita. Gli faceva schifo il mondo e non aveva nulla a che fare con noi dei centri sociali, diceva che eravamo troppo disciplinati» (Matteo Jade, diretta radiofonica, 20 luglio 2001).
Perché i carabinieri hanno caricato cinquecento metri prima del previsto, con una violenza e in una zona (priva di vie di fuga) che non permettevano altro se non una strenua resistenza da parte dei manifestanti? Perché la repressione era premeditata, perché l’Apparato di sicurezza andava sperimentato (secondo una costante dell’espansione tecnologica e militare: tutto ciò che si può fare, dev’essere fatto). Odiose e patetiche insieme, allora, sono le lamentele sulle forze dell’ordine che non hanno rispettato gli accordi, degne solo di chi collabora col nemico ed è disposto – come abbiamo visto – a vendere altri compagni alla repressione pur di assicurarsi un miserabile teatro di finta radicalità. Tutta colpa dei carabinieri… («sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa. La verità però è che sono stati i carabinieri a far saltare tutto», Luca Casarini, Il Nuovo, 27 agosto 2001). Per quanto riguarda le pratiche di attacco a banche e caserme, sulle prime si strilla contro gli anarchici, poi si ripesca la figura immancabile del provocatore pagato per discreditare il movimento. Ecco allora, per riprendersi da un clamoroso smacco, la calunnia – tipicamente stalinista – dei «black bloc infiltrati e manovrati dai servizi segreti». Gli stessi black bloc che le Tute bianche facevano finta di apprezzare quando questi agivano all’estero, magari a un oceano di distanza. Ecco cosa diceva una Tuta bianca bolognese (lista movimento@ecn.org) prima di Genova: «Peccato che il Black Bloc, per sua stessa scelta ideologica, non abbia capi, né leader carismatici, né portavoce, e agisca esclusivamente per piccoli gruppi di affinità autorganizzati. Lorsignori sono anarchici duri e puri e provano schifo davanti a qualsivoglia figura anche solo lontanamente gerarchica». Che teneri, questi anarchici. Subito dopo, invece, diventeranno «zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per tutti» (Marco Beltrami, portavoce del "Laboratorio del Nord-Ovest"). E ancora, con maggior fiuto politico: «[…] nel momento in cui le pratiche del BB sono state usate contro di noi, dobbiamo dire con forza che queste persone sono politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza dovrebbero essere i primi a fare l’esame di coscienza e suicidare un’esperienza che si è, di fatto, conclusa a Genova» (Roberto Bui, aspirante leader delle Tute bianche, movimento@ecn.org, 23 luglio 2001). Certo, molto meglio fare dichiarazione incendiare di assalto alla "zona rossa" e poi definire quelli che all’assalto vanno veramente «zanzare», «politicamente morti» e «provocatori». Alla calunnia più becera (diffusa soprattutto da Rifondazione comunista e dai Verdi, dal Manifesto e da gruppi come Attac) sui black bloc creati e composti da agenti infiltrati (o da neonazisti) se ne aggiunge un’altra, più sottile e scaltra: «[…] ad agire nella giornata di venerdì erano sei o sette infiltrati dell’Arma, che incanalavano e coordinavano la (giusta, giustissima, ma forse un po’ troppo cieca) incazzatura di qualche centinaio di anarchici che si sono aggregati senza capire in che modo venivano strumentalizzati. Credo che la stessa cosa sia successa sabato» (Anton Pannekoek, alias Roberto Bui). Gli anarchici, insomma, non sono dei provocatori, sono solo degli utili idioti che fanno involontariamente il gioco del potere. Poniamoci, sul problema degli infiltrati e delle presunte complicità poliziesche, queste semplici domande: che bisogno avevano i servi in borghese di attaccare le strutture dello Stato e del capitale quando c’erano centinaia di compagni arrivati a Genova apposta…? È più facile, per gli sbirri, pestare manifestanti inermi oppure piccoli gruppi rapidi nel colpire, nell’erigere barricate e disposti a difendersi? È più agevole, per gli agenti, introdursi in piccoli gruppi di affinità o negli spezzoni di un grande corteo? In realtà, sbirri in borghese nelle manifestazioni ce ne sono sempre, e a Genova molti sono stati smascherati e cacciati dai compagni (come accadrà anche al corteo del 4 ottobre 2003, a Roma, contro la Convenzione europea). Il loro ruolo è in genere quello di identificare i più facinorosi o quello – che nessuno può svolgere al posto loro – di picchiare altri manifestanti pacifici per creare paura e confusione. Per quanto riguarda le famose "prove" sui "black bloc manovrati dalla polizia", invece, dopo anni di calunnie le immagini sono sempre le stesse: qualche sbirro con il fazzoletto sul viso che si aggira nei pressi di un corteo, alcuni carabinieri in borghese che escono con dei bastoni in mano da una caserma presa d’assalto… E questo spiegherebbe una sommossa che ha coinvolto migliaia di persone, alcune organizzate, ma tante altre unitesi spontaneamente… Se c’è un’ideologia che si è suicidata a Genova, è quella riassunta in queste parole: «[…] è parere di molti che la disobbedienza civile protetta abbia contribuito a traghettare ampi settori di movimento da forme di protesta nichiliste e distruttive a una pratica non meno radicale ma eminentemente politica. Peraltro, preannunciare tutto ciò che verrà fatto apre già di per sé lo spazio alla mediazione politica "sul campo", se ve ne è la volontà da parte dei responsabili dell’ordine pubblico» (Luca Casarini, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001). Sul selciato genovese, tra i carrugi e il lungomare, la «disobbedienza civile protetta» non ha traghettato un bel nulla. Ha portato in bocca alla polizia migliaia di manifestanti disarmati (mentalmente e fisicamente), mentre tanti altri passeggeri, ammutinatisi, sono insorti per difendere se stessi e i propri compagni. Invece, di fronte ai rastrellamenti, ai pestaggi, alle torture, si sono sprecate le lamentazioni ("I patti! I Patti!") di chi, oltre che sciacallo, si rivela tanto imbecille da fidarsi delle forze dell’ordine. Insomma, mentre attorno alla zona rossa si allestiva la scena dello scontro fittizio, altrove scoppiava, lontana dai riflettori, la rivolta reale. Mentre chi confidava nella polizia alzava e invitava ad alzare le mani, migliaia di manifestanti si rifiutavano di andare al massacro, rispondendo colpo su colpo alla violenza dei servi in divisa. L’insubordinazione, questa variante non prevista, cominciava ad aggiustare la mira.… «I funzionari di polizia mi dicono che è tutto finito (lo vediamo da soli), e che sarebbe utile andare in via Sturla dove a loro risulta in corso un attacco a una caserma dei carabinieri. Allora con la macchina andiamo in via Caprera, dove incrociamo altre migliaia di persone che intasano la strada. Chiediamo dove possiamo passare, ma, mentre passiamo secondo le indicazioni delle forze dell’ordine, veniamo assaliti da un gruppo di persone che, al grido di "infame" rivolto al sottoscritto, lanciano tutto ciò che hanno a disposizione contro la macchina» (Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001).
Ma torniamo alle Tute bianche, la cui storia non comincia certo a Genova. Per capire il loro ruolo in quelle giornate è utile fare qualche passo indietro. Le Tute bianche nascono all’interno dell’Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall’alleanza di alcuni centri sociali firmatari della cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora. Si tratta dei centri sociali che hanno accettato, sin dal 1994, la legalizzazione (su proposta del verde Falqui) degli spazi occupati e i finanziamenti statali. Questa prospettiva, abbracciata da tutta un’area dell’ex-Autonomia Operaia, ha portato su posizioni sempre più istituzionali, con tanto di partecipazione alle elezioni e di collaborazione con vari ministeri (un esempio fra i tanti, Casarini è stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato nonché autrice, assieme a Napolitano, della legge che ha introdotto in Italia i lager per immigrati clandestini). È questa la strada che porterà agli accordi con la polizia a Genova (e anche in seguito, visto che, in occasione del vertice di Riva del Garda del settembre 2003, Disobbedienti e Social forum si siederanno di nuovo al tavolo con… Colucci, il massacratore di Genova divenuto nel frattempo questore di Trento). Uno degli aspetti più ripugnati di questa pratica di collaborazione con le istituzioni è che essa viene giustificata in nome della "nonviolenza", quando sono fin troppo noti i metodi con i quali questi leninisti storici affrontano chiunque non condivida le loro scelte (cioè chiunque disturbi i loro spettacoli). Significativo, a questo proposito, un loro volantino-decalogo dal titolo Disobbedienza civile. Istruzioni per l’uso, distribuito in varie occasioni prima del G8 (e riprodotto in Appendice). Ma la questione fondamentale, in realtà, è un’altra. Si può davvero essere "nonviolenti" e collaborare con lo Stato, massima espressione della violenza? È per rispetto della "nonviolenza" che si aggrediscono e calunniano coloro che praticano l’azione diretta contro le strutture di morte del capitalismo? A chi si vuole dare il proprio messaggio "nonviolento" quando si partecipa, come ha fatto Casarini, ai funerali di un servo dei padroni come D’Antona? Qui l’etica non c’entra, si tratta unicamente di opportunismo politico. Decalogo per decalogo, leggete cosa diceva Gandhi a proposito della nonviolenza contro l’oppressione: «1. Rinuncia ad ogni titolo onorario. 2. Non accettazione di finanziamenti del Governo. 3. Sospensione dell’attività da parte di avvocati e giudici. 4. Boicottaggio delle scuole del Governo da parte dei genitori. 5. Non partecipazione ai partiti di governo, e ad altre funzioni politiche ». L’esatto contrario di quello che fanno i Disobbedienti e tutti gli altri movimenti legati ai partiti e alle burocrazie sindacali: chiedere i soldi allo Stato per… disobbedire all’Impero. Insomma, come ha scritto qualcuno, serve a poco sfidare le zone rosse del potere se non si disertano le zone grigie della collaborazione. Tutto questo dimostra che «la differenza importante non è tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o no appetito di potere» (G. Orwell). E quando si mira al potere, ogni metodo è lecito. Tanto più che non mancano mai, come sappiamo, i brillanti linguisti capaci di trasformare i compromessi in altrettante prove di "intelligenza tattica".
Nate nel 1998, a Genova le Tute bianche sono diventate Disobbedienti. Che cos’è la disobbedienza per costoro? Non certo la scelta coraggiosa di Henry David Thoreau, padre di quella disobbedienza civile a cui lo stesso Gandhi si è ispirato. Thoreau non era affatto un "nonviolento" – come dimostra la sua apologia per Padre Brown, di cui difese la scelta di usare le armi contro gli schiavisti – ed odiava il conformismo prodotto dalla civiltà. Del solitario di Walden i Disobbedienti riprendono unicamente un aspetto: l’accettazione dell’autorità. Ma diamo la parola a un Disobbediente stesso: «Per prima cosa la disobbedienza presuppone un piano dialettico. Viene riconosciuto un ente che produce norme e viene prevista un’interazione dialettica con questo ente. Si disobbedisce affinché il soggetto che ha emanato norme di un certo tipo riveda le sue posizioni e si appresti a normare in maniera diversa. Non si mette dunque in discussione, anzi si conferma, la legittimità e il funzionamento della funzione normativa, come anche la cornice giuridica complessiva nella quale questa s’inscrive». E poco oltre: «Per paradosso, se e quando la costituzione imperiale si alimenta del caos, quando – per dirla in altri termini – è l’Impero stesso a disobbedire, forse il compito dei cives, dei soggetti che lo avversano, diventa quello di normare in modo nuovo, a partire da istituzioni nuove, piuttosto che quello di disobbedire» (Federico Cartelloni, Il tempo della disobbedienza, in AA.VV., Controimpero. Per un lessico dei movimenti globali, Manifestolibri, 2002). Non avremmo saputo dir meglio. L’illusione di riformare il dominio collaborando con le sue istituzioni e con la sua polizia è stata sepolta a Genova. Gli insorti non la rimpiangono.
** Giù la maschera. Le forze dell'ordine al lavoro
Il G8 ha visto un dispiegamento di forze dell’ordine che per mezzi e uomini non ha precedenti in Italia. Oltre a questo importante dato della strategia della repressione, però, l’operato dei suoi uomini ha messo in luce un altro fatto: nelle strade, in quei giorni, si è mostrato il vero volto di questi corpi. Cani da guardia che con il massacro e la violenza sulle persone si prestano al ruolo di custodi dell’ordine. Strategie di palazzo e di piazza, repressione calcolata o violenze estemporanee di singoli "agenti esagitati", la differenza non conta, sono tutti aspetti dell’essenza di un corpo di persone piegate a una mentalità clanica che per l’interesse del tiranno che gli dà il pane e la divisa sono pronte ad alzare il bastone contro chiunque.
A Genova sono stati richiamati i corpi più svariati, i più selezionati per questioni di sicurezza e repressione: c’erano i carabinieri delle Brigate Sassari e Tuscania, protagonisti delle spedizioni italiane in Somalia, in Iraq e Albania, più 2700 uomini delle truppe speciali dell'esercito (i paracadutisti della Folgore, i marines del S. Marco, i commandos sommozzatori del Corsurbin e la divisione NBC, specializzata nella guerra chimica, batteriologica e nucleare); c’era il Gom (Gruppo Operativo Mobile) un reparto – partorito nel ’97 dal governo di centro-sinistra ed entrato realmente in funzione nel 1999 con il decreto firmato dal "comunista italiano" Dilimberto – i cui uomini non sono fissi ma vengono scelti di volta in volta dalla polizia penitenziaria; c’erano la Finanza, vari squadroni di Celere e poi gli uomini del CCIR, un corpo speciale dei carabinieri creato apposta per il G8. Nel complesso, più di 20 000 uomini.
Prima dei pestaggi e delle violenze di piazza che hanno fatto il giro del mondo nelle immagini televisive gli agenti si sono distinti anche per un lavoro di controllo. Già il 16 luglio, a Genova, una perquisizione veniva effettuata all'interno del centro sociale Pinelli. Il 19 luglio e nei giorni prima ancora i manifestanti venivano identificati e schedati per le strade, mentre dai documenti ufficiali si sa che agenti infiltrati erano presenti ad un'assemblea del 18 e ad altre tenutesi nelle settimane precedenti in Germania e in Slovenia. La mattina del 20 vengono identificati e schedati durante cinque ore tutti i presenti al centro sociale Inmensa e un'operazione simile si svolge al Pinelli. Questi centri sociali sono due luoghi di ritrovo di manifestanti che non si riconoscono nel GSF.
L’istituzione in città delle varie zone ad accesso limitato e della cittadella dei carabinieri calava già uno scenario da regime totalitario.
Il 19 si svolge il corteo dei migranti senza scontri di rilievo, se non qualche sassaiola contro la polizia. Dal 20 inizia il massacro, un massacro calcolato, quasi scientifico nella sua apparente illogicità.
La famosa carica dei carabinieri al corteo dei Disobbedienti in via Tolemaide, che ha dato il via agli scontri generalizzati, è avvenuta lontano da dove i più determinati attaccavano i luoghi di sfruttamento e oppressione, e ai danni di un corteo per lo più disarmato. Ma a conti fatti è risultata sicuramente più efficace e funzionale ai piani dei potenti che non rincorrere per la città gruppi di facinorosi oltre tutto pronti allo scontro. Coi pestaggi ai manifestanti pacifici la polizia ha dovuto togliersi la maschera, ma ha dato un colpo, una lezione brutale a chi credeva di infastidire i Grandi 8 con minacce fatte e poi ritirate o dichiarazioni di guerra nascoste dietro la bandiera della nonviolenza, come avevano fatto Casarini e compagni nel mese precedente il vertice. Difficilmente i dirigenti ignoravano che il luogo scelto per la carica (una zona senza vie d'uscita) avrebbe provocato una strenue resistenza da parte dei manifestanti, a cui non rimaneva altra possibilità che difendersi.
Durante tutti gli scontri la polizia ha sparato 6200 lascrimogeni del famigerato gas CS (si sa di molte persone ricoverate successivamente per averlo respirato e anche i chimici diranno di non conoscerne le conseguenze a lungo termine). Gli aspetti apparentemente più insensati e paradossali della condotta e delle scelte strategiche delle forze dell’ordine vanno inseriti in un più ampio quadro (anche internazionale, visti i diversi incontri al vertice e i corsi di addestramento per agenti allo scopo di definire alcune direttive comuni). Se la repressione era pianificata e alcuni scontri sembrano stati provocati appunto per "giustificarla", va detto che è un'illusione poliziesca – condivisa anche dai capi della contestazione – quella di ridurre tutte le variabili di un conflitto sociale ad un disegno pre-ordinato. Di sicuro la sbirraglia era poco preparata ad affrontare le pratiche di attacco messe in atto lontano dalla "zona rossa", dov'era concentrato il grosso degli agenti. La centralizzazione delle strutture si riflette anche nella mentalità degli uomini di Stato: per questi il compito principale era comunque proteggere il vertice dei loro padroni. Quando una sommossa raggiunge le dimensioni di quella genovese, per di più in una città non ancora del tutto ridisegnata dagli urbanisti del controllo, le forze dell'ordine sono costrette ad improvvisare. La loro brutalità risponde certo a delle consegne ben precise (Fini non era per caso nelle centrali operative), ma esprime anche la reazione di chi sfoga sugli inermi il proprio bisogno di sopraffazione, un bisogno frustrato dai tanti manifestanti che hanno reagito alle cariche. Per il resto, lo schieramento di carabinieri "giovani e inesperti" in materia di guerriglia urbana, l’episodio del Defender dell’Arma lasciato in preda ai manifestanti inferociti, l’abbandono della piazza del carcere di Marassi, fino al culmine dell’assassinio di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, sembrano un misto di piani precisi e di benemerite sbracate; e tutto ciò a dispetto dell'apparente invincibilità di un dispiegamento di forze come quello predisposto a Genova. Subito attorno a piazza Alimonda c’erano uomini della polizia ma nessuno è intervenuto in aiuto dei carabinieri sulla jeep; le forze dell'ordine hanno sparato a Genova ma lo avevano fatto anche il mese prima in Svezia, a Göteborg, e solo per miracolo non c’era scappato il morto. Inoltre in quelle ore vicine all’uccisione di Carlo, giravano voci insistenti su altri due morti tra i manifestanti svanite, nel giro di poco tempo, senza conferma né smentita, mentre i colpi d’arma da fuoco sono stati sicuramente di più di quelli sparati in piazza Alimonda. A questo proposito va aggiunto che il ritrovamento – qualche giorno o addirittura un mese dopo – di persone nelle vicinanze di Genova e nelle acque territoriali del suo porto, morte in circostanze quantomeno oscure e liquidate con autopsie rapide e raffazzonate, non permette di considerare campate in aria quelle voci.
In generale gli agenti si sono prodigati in pestaggi e violenze su persone inermi, per strada e soprattutto nella famigerata caserma di Bolzaneto e in quella di S. Giuliano, dove si sono divertiti con torture, umiliazioni e violenze sistematiche come il macabro rituale del corridoio (un pestaggio fra due ali di servi in divisa) o i gas nocivi spruzzati nelle celle. I rastrellamenti non hanno risparmiato neanche gli ospedali dove gli agenti hanno fatto irruzione alla ricerca di manifestanti feriti che erano dovuti ricorrere alle cure, e dove hanno picchiato ripetutamente.
Il 21 la strategia delle forze dell’ordine cambia: i carabinieri, su cui pesava l’omicidio di Carlo Giuliani, vengono spostati nella zona rossa dandosi il cambio con la polizia che questa volta carica in modo calcolato e massiccio l’imponente corteo con l’intenzione di spezzarlo da subito e, quando ci riesce, massacra i manifestanti riversatisi sul lungomare. Già alle nove del mattino un nucleo di carabinieri tenta un'irruzione nel campo dei Cobas a Sturla. Ritiratisi dopo una trattativa, gli uomini dell'Arma tornano due ore dopo, arrestano una ventina di persone e distruggono tutto.
Le giornate del G8 si concludono con il blitz notturno alla Diaz, effettuato col pretesto della presenza in quella scuola di manifestanti appartenenti al "Black Bloc". Alla Diaz era stato installato lo studio di Radio Gap. Alla Pascoli, un'altra scuola sempre in via Cesare Battisti, di fronte alla prima, si trovavano la sede del Genoa Legal Forum, il centro sanitario e il media center (Indymedia). In questi locali gli agenti si sono "limitati" a spaccare tutta l’attrezzatura e a sequestrare il materiale video; alla Diaz, là dove i manifestanti dormivano, è stato invece organizzato – staccati luce e telefono – un pestaggio violentissimo. Dalla Pascoli si sentivano le urla terrorizzate dei ragazzi e di lì a poco le ambulanze ne portavano via a decine, mentre altri venivano caricati sui cellulari della polizia, probabilmente troppo malconci per essere lasciati lì con tutti i giornalisti intorno. Dopo il passaggio di polizia, carabinieri e reparto mobile di Roma (giudato da Canterini) il sangue dei manifestanti chiazzava muri e pareti di tutta la scuola, ma secondo gli agenti era dovuto alle ferite che i manifestanti si erano procurati durante gli scontri del pomeriggio! A detta delle forze dell'ordine i pestaggi e gli arresti sono stati una risposta all’aggressione subita entrando nella scuola e al ritrovamento di due bottiglie molotov; si saprà successivamente che un poliziotto aveva simulato maldestramente di esser stato pugnalato nel giubbotto antiproiettile e che le molotov erano state raccolte dagli sbirri nel pomeriggio e portate lì apposta (un agente interrogato, all’oscuro di tutto, riconoscerà le bottiglie incendiarie che aveva lui stesso trovato in strada). In questa operazione era coinvolto in prima linea l’allora capo dell’"anti-terrorismo" Antonio La Barbera, lo stesso che una settimana prima di Genova aveva proposto 150 custodie cautelari in tutta Italia al fine di impedire a varie persone "note alle forze dell'ordine" di partecipare al contro-vertice (in seguito alle perquisizioni, invece, le procure di Milano non avevano ritenuto di essere in presenza degli estremi per eseguire l’ordinanza, "limitandosi" a disporre una quarantina di obblighi di dimora). La Barbera è stato l’unico, dopo i giorni del G8, ad essere cassato dai suoi superiori con la rimozione dal posto che occupava – poi, finalmente, è morto.
In quei giorni sono state arrestate qualcosa come 390 persone, la gran parte rilasciate nel giro di poco, dopo essere state pestate in strada e torturate nelle caserme (non solo di Bolzaneto e S. Giuliano, ma anche in varie del Levante Ligure); le altre, per lo più manifestanti stranieri, furono trasferite – e alcune torturate – nelle carceri di Pavia, Vercelli, Alessandria e Voghera. Gli stranieri, accompagnati di forza alla frontiera o agli aeroporti, sono stati espulsi con provvedimento ministeriale/prefettizio. Le ultime scarcerazioni avverranno il 4 ottobre 2001.
I numeri e i documenti ufficiali dimostrano dunque una calcolata pianificazione della repressione: il terrore diffuso dal potere ha dato ai suoi uomini l’occasione di usare il proprio brutale armamentario sul nemico. D’altronde, mezzi e uomini sono in dotazione per venire impiegati e al codardo in divisa che non ha alcuna capacità decisionale, disposto com’è ad esguire qualsiasi ordine, basta avere la possibilità perché sfoghi il peggio di sé.
Allora analisi sulle strategie delle forze dell’ordine, interpretazioni politiche o anche condanne incredule a un carattere "cileno" della polizia sono del tutto secondarie o, peggio, funzionali a quella rappresentazione il cui scopo è negare l’evidenza delle cose. In molti contestatori si sono impegnati, dopo Genova, a salvare il buon nome della polizia, a non fare di ogni erba un fascio, ad isolare le mele marce al fine di avere un sano paniere della repressione, a riprendere le trattative così miseramente fallite in quelle giornate. Dalle iniziative di riconciliazione (esemplare quella – riportata in Appendice – di far reincontrare alla Diaz picchiatori e picchiati) alla vera e propria espressione di solidarietà alle forze dell’ordine (ad esempio dopo l’attentato alla Questura di Genova del settembre 2002), i vari racket sedicenti nonviolenti si sono fatti in quattro per contenere la rabbia contro gli agenti della repressione. E gli altri? Se i servitori in divisa non sono riusciti a far capire, con il lavoro svolto a Genova, qual è la natura dello Stato e di chi lo difende, di certo non ci riusciranno né qualche riflessione teorica né un’intera enciclopedia di storia del terrore poliziesco.
** Gli ammutinati
Lungi dal voler tracciare una psico-geografia dei gruppi e degli individui che hanno partecipato alla rivolta di Genova rimanendo fuori dalla contestazione concordata, in queste righe parleremo di come la diserzione della «zona rossa» e l’incontro delle esperienze di spossessati da tutto il mondo abbiano convertito una farsa annunciata in una sommossa reale.
Se da mesi la propaganda riformista martellava con roboanti «dichiarazioni di guerra» che circoscrivevano il nemico da attaccare alla «zona rossa» – cioè ai rappresentanti dei Grandi Otto e al sopruso eccezionale delle transenne e dei check-point -, molti erano i messaggi che lasciavano presagire che a Genova lo spettacolo del rifiuto sarebbe stato scalzato da forme concrete di critica della vita quotidiana.
Già due anni prima, nel novembre del 1999, Seattle era stato un momento di rottura dopo anni di passeggiate simboliche organizzate dal movimento cosiddetto «no-global»: la radicalizzazione di una parte di questo movimento necessitava di un modo altro di scendere in piazza e l’emergere prepotente dell’azione diretta a Seattle andava in questa direzione. È da quel momento in poi che, ogni volta che le mobilitazioni contro i vertici dei grandi della terra – a Davos come a Praga, a Nizza come a Québec City o a Göteborg – travalicano la protesta simbolica, si parla di «black bloc» in azione. Il fatto che il black bloc non sia una organizzazione formale ma il nome dato ad un raggruppamento occasionale di piccoli gruppi di affinità che agiscono in maniera autonoma – o un modo per definire certe tecniche di guerriglia – non impedisce la sua trasformazione in uno degli attori dello show della contestazione. Che questo ruolo spettacolare sia stato ricercato o semplicemente subìto dai suoi protagonisti non ci è dato saperlo, vista proprio l’estrema eterogeneità degli individui che partecipano alle azioni etichettate «black bloc». Quello che ci preme sottolineare, però, è che sono state proprio queste azioni a funzionare da detonatore per la situazione che si è creata venerdì 20 luglio nelle strade genovesi, cioè qualcosa che ha più i tratti di una rivolta generalizzata che quelli della classica contestazione di un vertice condita con qualche scontro tra polizia e militanti. Già negli anni precedenti, negli Stati Uniti, le azioni «black bloc» riuscivano a coinvolgere i giovani dei quartieri neri e poveri, mentre il resto del movimento contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio e più in generale contro il neoliberismo ne lamentava la cronica assenza. Se soltanto un mese prima, durante il vertice di Québec City, migliaia di rivoltosi avevano attaccato le strutture dello Stato e del capitalismo, a Genova si è andati oltre: l’azione diretta è riuscita a scavalcare il muro della militanza, aprendosi alla partecipazione gioiosa non solo di altri manifestanti, ma anche di abitanti dei quartieri, di semplici passanti e di curiosi, creando momenti di rivolta collettiva e di liberazione. E questo nonostante la criminalizzazione preventiva e il terrorismo psicologico che avevano come obiettivo quello di dividere i contestatori in buoni e in cattivi. Ma è stato proprio l’incontro tra contestatori «cattivi» – vale a dire chi non voleva farsi guidare dai Casarini o dagli Agnoletto di turno – di varie tendenze e quelli che i mass media e gli organi di propaganda dei gruppi riformisti concordano nel definire hooligans, teppisti, casseurs o semplici «idioti violenti» ad esplodere in faccia agli specialisti del controllo e ai pretesi leader della contestazione. Chi ciarla di «disagio esistenziale» con la pretesa di governarlo (e senza mai considerarsi, ovviamente, parte in causa) ne ha assaggiato la natura esplosiva. Durante la prima delle giornate genovesi tutto si svolge tranquillamente, a parte qualche sassaiola contro gli schieramenti della polizia. È giovedì 19 luglio, il giorno del corteo dei migranti, e in molti tengono conto della possibile presenza nella manifestazione di clandestini e del conseguente pericolo, in caso di arresti, di espulsioni e di internamenti nei lager (i cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea). Al corteo partecipano circa 50 mila persone. Il rispetto per le consegne degli organizzatori (per alcuni) e la meditata rinuncia allo scontro (per altri) tramontano con la fine di questa giornata.
Per il giorno successivo è prevista una lunga serie di «piazze tematiche», ciascuna occupata da differenti organizzazioni, e un grosso corteo capeggiato dai Disobbedienti. In questo dovrebbe consistere l’inizio del tanto sbandierato assedio alla «zona rossa». Piazza Paolo da Novi è assegnata al Network per i diritti globali ed è proprio da qui che uno ad uno gli accordi e le contrattazioni cominciano a saltare. Nelle assemblee che hanno preceduto il vertice sono state preparate azioni a partire dalle 13. Diverse centinaia di rivoltosi si danno appuntamento in questa piazza a partire dalle 12 (altri invece decidono di incontrarsi ad ovest, al corteo della Federazione anarchica italiana, dei Cub e delle Rdb). Le azioni decise sono abbastanza semplici e veloci, anche se non prive di rischio, e la loro riuscita dipende in buona misura da come saranno disposti i 20 mila uomini delle forze dell’ordine (il corteo del giorno prima ha permesso di capire che saranno per lo più concentrati nella cosiddetta zona rossa). Alle assemblee partecipano svariate realtà di lotta provenienti da tutta Europa e gli orari del concentramento e delle azioni sono pensati in relazione altre «piazze tematiche».
In moltissimi, però, sono determinati ad ignorare le contrattazioni e vogliono bruciare le tappe, tanto che la piazza si riempie un paio d’ore prima del previsto da gente che non esita a procurarsi sul posto tutto quel che può servire per andare all’assalto non solo della zona rossa, ma di tutto quello che in città ha il sapore della sottomissione. Molti Cobas presenti non gradiscono affatto questi preparativi per un festa non annunciata, e ne nasce qualche acceso diverbio. Non è ancora mezzogiorno e già vanno in frantumi i primi vetri di banche e caserme, di agenzie immobiliari e turistiche. Le telecamere vengono sistematicamente distrutte, automobili e arredo urbano sono liberamente utilizzati per fronteggiare le prime cariche della polizia.
Intanto i grossi cortei autorizzati si preparano alla marcia, circondati dai cordoni di polizia e dai servizi d’ordine degli organizzatori, mentre Genova si popola sempre di più grazie all’arrivo, dopo ore e ore di ritardo, dei treni carichi di manifestanti. Molti dei nuovi giunti, dalla stazione di Brignole, si uniscono ai gruppi di rivoltosi che percorrono la città e ne modificano i piani. La polizia, concentrata sulla zona rossa, sembra quasi assente. Quando viene assaltato il Credito Italiano di via Torino c’è la prima grossa carica.
Ogni piano prestabilito, oramai, è saltato e l’avventura genovese comincia davvero.
Sotto la spinta della carica di via Torino i «cattivi» si dividono: una parte (circa 1500) si disperde nel quartiere attorno a piazza Alimonda, dove erige barricate e riesce a respingere la polizia con lanci di sassi e molotov, rimanendo fino alla fine del corteo delle tute bianche. A loro si aggiungono molti ragazzi di Genova che conoscono bene la zona e la cui complicità risulterà preziosa.
Un’altra parte s’incammina con il corteo dei Cobas verso sud, verso piazzale Kennedy, dove alza barricate per tenere lontana la polizia e assalta le banche. I Cobas continuano a non gradire questa rumorosa compagnia e tentano di rifugiarsi nel centro di convergenza del GSF lasciando fuori cinquecento rivoltosi. La maggior parte di questi riesce comunque ad entrare e a sfuggire all’attacco dei Carabinieri, che però sfondano i cancelli coi blindati e cominciano i rastrellamenti sulla spiaggia e sul molo. Il gruppo allora si divide ancora: in duecento decidono di allontanarsi dagli «allontanatori» dei Cobas andando verso nord; in quattrocento, invece, continuano a seguire il corteo verso est, su corso Italia, dove attaccano una caserma dei Carabinieri, per poi dirigersi verso nord e ricongiungersi al corteo dei Disobbedienti che giunge dal Carlini. Sono le 13: lo spettacolo avrebbe dovuto cominciare adesso, ma Genova è già un campo di battaglia.
A saltare ora sono i patti tra le forze dell’ordine ed i caporioni del Social Forum: il corteo dei Disobbedienti viene caricato cinquecento metri prima di quanto previsto dagli accordi con la questura e, soprattutto, le cariche sono vere. Intanto giunge la notizia che in contrada Cavallotti, dopo un esproprio ad un supermercato, la polizia ha sparato. Inoltre, il gruppo che arriva da corso Italia porta con sé il carico delle esperienze fatte in un paio d’ore di sommossa.
Comincia il massacro generalizzato. Cobas, Disobbedienti, lillipuziani, pink bloc e le altre migliaia di persone scese in piazza si ritrovano schiacciate dalle cariche e dai lacrimogeni. L’asfalto si macchia del sangue dei manifestanti e dei passanti pestati. Le forze dell’ordine manganellano inferocite donne e uomini, vecchi e giovani, lanciano le camionette a tutta velocità sulla folla, investono manifestanti.
Impotenti di fronte alla repressione, moltissimi tra i manifestanti si convincono che la responsabilità del massacro non siano di polizia e carabinieri, ma dei ribelli. «È tutta colpa del black bloc», si sente ripetere. La logica di questa affermazione, che nasconde le cause reali dei fatti dietro giustificazioni di comodo, è la stessa che fa dire a tanti che la disoccupazione è causata dagli extracomunitari che rubano il lavoro agli italiani. Sta il fatto che da questo momento in poi si susseguono scene paradossali in cui sedicenti pacifisti sprangano ragazzi colpevoli di essere vestiti di nero, in cui altri chiedono protezione alla polizia oppure arrivano ad indicare agli agenti scatenati chi picchiare al proprio posto.
Altra sorte e altro clima, invece, accompagnano quei millecinquecento che, dopo la carica di via Torino, si sono diretti verso Brignole e piazza Giusti. Lì una parte della popolazione, a differenza dei tanti militanti presenti a Genova, ha saputo unirsi ai facinorosi e tutti – dal nerovestito all’anziana signora genovese con i suoi nipoti, ai vari manifestanti appena arrivati alla stazione – hanno potuto condividere la gioia di riappropriarsi di ciò di cui in quel momento avevano bisogno senza passare attraverso il ricatto del denaro, gustando il dolce sapore della gratuità e l’aria fresca della rottura delle regole. Vengono assaltati un tabaccaio ed un supermercato; quest'ultimo rimarrà aperto fino a sera, trasformandosi in un banchetto gratuito e in un luogo di discussione. Con la tecnica ormai assodata di non offrire le spalle alla sbirraglia, erigendo continuamente barricate lungo il percorso, gli insorti liberano, per qualche ora, un quartiere dalle banche e da altre espressioni del dominio. Nessuno sbirro riuscirà ad entrare nella zona fino alle 18.
Mentre le tute bianche si preparano per la «vestizione» con l’armatura da «buoni» al fine di «mettere in gioco i loro corpi», i millecinquecento «cattivi» si dirigono verso piazzale Marassi. Prima di arrivarvi si suddividono ancora in due gruppi. Alcuni se ne vanno perché non condividono la scelta degli obiettivi fatta fino a quel momento: si sarebbero accontentati volentieri di banche e grosse multinazionali, il resto è sembrato loro una perdita di tempo e di energie quando non un eccesso. Chi rimane quasi non si accorge di cosa gli si erge dinnanzi: lì c’è il carcere, lì ci sono centinaia di amici, fratelli, parenti, possibili complici rinchiusi. Le forze dell’ordine a difesa del carcere si dileguano in un battibaleno sotto gli attacchi dei rivoltosi, mentre dalle finestre i nonni osservano divertiti quanto sta succedendo.
Viene dato fuoco alla grande porta (purtroppo ignifuga), poi si cerca invano di sfondarla; vengono sfasciate le vetrate della sala colloqui, le finestre del primo piano (i detenuti sono concentrati all'ultimo) e l'ufficio del direttore, ma le poche molotov non bastano… a qualcuno sarà venuta voglia di tirarla giù coi denti! Ma chi avrebbe mai immaginato di arrivare fino a lì? E invece la complicità nella rivolta sincera e reale (non simulata, non rappresentata ma vissuta) si è svelata in tutta la sua potenzialità. Quale grande lezione: sottrarsi alla mafia dei collaborazionisti, della Nuova Polizia è possibile, ed è la chiave per liberare le diversità in modo che possano creare un reale pericolo per questa società fatta di gabbie. Sembra quasi che non resti altro che tornare a casa e mettere in pratica la lezione anche al di fuori dei grandi appuntamenti. Ma non è finita.
Sono passate ormai molte ore dall’inizio degli scontri e il gruppo di ribelli, finite le "munizioni", abbandona il carcere per salire la lunga scalinata Montaldo. Ritenendo la scalinata un ostacolo sufficiente a tener lontana la polizia, i rivoltosi non erigono barricate. Finiti i gradini c’è piazza Manin, la piazza tematica della Rete Lilliput. I cattolici, capeggiati da un prete, intimano al gruppo di allontanarsi e subito dopo la polizia sbuca dalla scalinata e bastona chi si trova davanti, cioè quelli che alzano le mani.
Inseguiti dalla polizia e scacciati dai preti, i ribelli ripiegano verso sud. Tutti i gruppi (compresi i rivoltosi che si erano uniti alla manifestazione della Federazione anarchica e del sindacalismo di base) si ritrovano ora ad ingrossare il corteo, inizialmente capeggiato dai Disobbedienti, ma che conta ormai più di 15.000 persone delle più varie tendenze. Quando il corteo giunge in via Tolemaide, verso le 14. 30, gli scontri sono già in corso. Mentre i portavoce si sgolano per dissociarsi dai danneggiamenti, dalle barricate e dalla violenza contro la violenza delle forze dell’ordine («è tutta colpa del black bloc», «sono stati gli anarchici»...) alle loro spalle una marea di manifestanti, tra urla di rabbia e di gioia, travolge i gendarmi e per ore tiene testa alle cariche. Oramai sono gli stessi militanti disobbedienti a sfuggire ai propri caporioni, anche perché la zona, priva di via uscita, non lascia altra scelta. Gli scontri sono violentissimi: un blindato dei carabinieri viene assaltato e dato alle fiamme; nel quartiere di San Fruttuoso vengono erette barricate e una parte della popolazione si unisce ai rivoltosi. Le forze dell'ordine usano gli idranti e le autoblindo. Più volte, attaccati da vie laterali a colpi di molotov, sono gli agenti a fuggire. Intanto, in Piazza Alimonda, alle 17.30, Carlo Giuliani viene assassinato durante un assalto a un Defender dei carabinieri. L'incredulità e una rabbia quasi paralizzante s'impadroniscono dei manifestanti, subito scosse dai gruppi che continuano a scontrarsi con le forze dell'ordine con un odio senza confini, urlando vendetta. Il grosso del corteo si ritira verso il Carlini, con la sbirraglia che carica, rastrella e pesta chi non riesce a stare nelle fila. Quando i manifestanti raggiungono lo stadio, le forze di polizia si ritirano dalla zona. Sono le 18. 30. Piccoli gruppi rimangono in centro continuando a scontrarsi con le forze dell'ordine. Gli ultimi gruppi si disperdono verso le 20, ma non prima che siano andate in fumo le banche di via Torti e di p.zza Rossetti.
Prima degli scontri di via Tolemaide, ad ovest, nel corteo dei sindacati di base, una sassaiola colpisce le truppe giornalistiche. Un folto gruppo si stacca dalla manifestazione per attaccare diverse banche prima di disperdersi inseguito dalla polizia. Altrove le forze dell'ordine incontrano diversi gruppi determinati a fronteggiare le cariche, anche con bombe carta. Mentre infuria la battaglia intorno a piazza Alimonda, viene attaccatala caserma dei carabinieri in via S. Martino.
Per il giorno successivo, sabato 21 luglio, molti sono quelli che spingono perché nulla succeda. Tra le voci istituzionali spiccano i DS che chiedono la sospensione del vertice ed invitano a non partecipare al corteo conclusivo. Usando il morto e gli scontri, sferrano un attacco ai concorrenti di destra, e definiscono il vertice un totale fallimento. Ma già dalle dieci varie azioni dirette vengono realizzate nelle zone limitrofe al concentramento del corteo.
In 300.000 scendono in piazza. Ligi alle richieste della questura e dei giornali, i servizi d’ordine del GSF (Rifondazione, Attac e Disobbedienti) aiutati dai Cobas concentrano la propria attenzione sui «black bloc». Addirittura, quando, dopo diverse cariche a freddo della polizia, alcuni costruiscono barricate dando fuoco alle macchine per proteggere il corteo, i servizi d’ordine tentano di cacciarli. Migliaia di manifestanti, non cogliendo affatto la lezione del giorno precedente, di fronte alle cariche alzano le mani pensando che questo li risparmierà: è un vero massacro. Finanzieri e poliziotti manganellano e prendono a calci persone inermi, intere famiglie con bambini, mentre gli elicotteri bombardano i manifestanti con i famigerati lacrimogeni "a grappoli". Alcuni rivoltosi attaccano la caserma di S. Giuliano (la stessa caserma dove gli arrestati saranno, nelle ore e nei giorni successi, sistematicamente torturati).
Verso nord, dopo che il corteo è stato spezzato in due dalle cariche, oltre il tunnel sotto la ferrovia vengono erette barricate che attutiscono di molto l’avanzata della polizia: qui tutti sembrano complici, cosiddetti black bloc, autonomi e anche gente di Rifondazione e dei Cobas. Lontano, in piazza Ferraris, si tengono i comizi che erano stati programmati, come se in città non stesse succedendo più nulla. In realtà sono proprio le barricate e gli scontri a tenere la polizia impegnata, lontana.
Le banche che si trovano lungo il percorso del corteo vengono sfondate e saccheggiate, quelle visitate il giorno prima ricevono una nuova visita: gli espropri del venerdì avevano sollecitato l’interesse e la voglia di emulazione di non poche persone («Vengo anch’io!» titolerà una successiva testimonianza sul 21 luglio).
Tra le 6 e le 7 del pomeriggio, le manifestazioni volgono al termine: tutto quello che la gente vuole adesso è ritornare a casa sana e salva. Non è un compito facile visti i rastrellamenti della polizia nelle strade, nei bar, negli anfratti, ovunque. Gli elicotteri volano ancora bassi, le sirene non smettono mai di assordare. Nella ritirata gruppi di rivoltosi continuano gli attacchi a banche e altri luoghi del capitale e, in via dei Mille, un commissariato di polizia si ritrova con il portone sfondato. Un gruppo consistente si dirige verso Brignole, attraversando il quartiere di Albaro, senza trascurare banche ed altre strutture nefande prima di unirsi con quelli che agivano al di là della ferrovia. Verso le 17. 30 tutti i gruppi si disperdono.
Molti si recano alla stazione di Brignole, altri nei centri di convergenza: non c’è molta possibilità di andare altrove. Anche muoversi dalla scuola Diaz, centro del GSF, alla stazione non è, nonostante la breve distanza, una decisione semplice. E poi: che fine hanno fatto tanti compagni? Sono molti quelli che mancano all’appello.
Qualcuno preferirà aspettarli alla Diaz, visto che lì c’è anche il primo soccorso dei sanitari e c’è anche posto per dormire. Quelli che si sono illusi che tutto sia finito, dimentichi di quello che è successo a Göteborg e a Praga, pagheranno cara la stanchezza. Alla fine dei precedenti controvertici, infatti, la polizia era entrata in azione nella notte ed aveva massacrato i manifestanti che si erano rifugiati nei luoghi fissati come ricovero. Era abbastanza verosimile che la sbirraglia avrebbe fatto la stessa cosa a Genova. Già la notte precedente si erano avute avvisaglie di questo tipo: continuavano a girare voci di assalti della polizia in vari campi e minacce che sarebbero arrivati anche altrove. La sera del 21, dopo la cacciata di Agnoletto, che durante tutto il giorno si era prodigato a calunniare, infamare e chiedere più repressione, e la sassaiola contro una colonna di macchine della polizia, qualcuno avrà cominciato ad avvertire un certo brivido di terrore. La voce si spargerà, ma per l’ennesima volta un’ingiustificata fiducia nei limiti della violenza dello Stato ridimensionerà l’imminente pericolo. Il resto della nottata è, purtroppo, la storia di una nota mattanza.
Alle tre, mentre una colonna di blindati della polizia passa nel quartiere della Foce, c'è un fitto lancio di pietre e bottiglie. Dalla mattina, invece, piazza Alimonda si riempie di persone che portano il proprio saluto a Carlo.
Chi crederà ancora, dopo Genova, che sia possibile traghettare l’odio per la miseria, l’isolamento, i disastri ecologici e le guerre verso il paradiso di un capitalismo dal volto umano, più equo e solidale?
Ma la piatta apologia non è mai il sale della terra. Il nostro intento non è solo quello di difendere il senso della sommossa genovese, come memoria di un avvenimento in sé conchiuso, bensì quello di rimetterlo in gioco. Per far questo è necessario evitare le schematizzazioni ed affrontare i nodi critici.
A Genova non c'erano soltanto i racket politici da un lato e i rivoltosi dall'altro (in parte organizzati e in parte unitisi spontaneamente alla sommossa). C'erano tante persone abituate a manifestazioni pacifiche e, più in generale, ad un "impegno politico" da dopolavoro che coinvolge ben poco la vita quotidiana. Per molti di questi, i capibastone delle varie mafie militanti non sono dei "recuperatori" – concetto che presuppone una soggiacente radicalità della quale i leader si approprierebbero per svuotarla –, bensì l'espressione di ciò che effettivamente desiderano: un modo un po' migliore, ma da ottenere senza grandi sforzi. Le buffonesche dichiarazioni di guerra dei Casarini volevano recuperare – quelle sì – la rabbia di un movimento che a Genova era comunque minoritario – ed è quello il recupero che è miseramente fallito. Per tutti gli altri la violenza dello Stato è stata un autentico trauma e le azioni di attacco una pratica difficilmente comprensibile. Quanto alla calunnia dei «black bloc infiltrati e manovrati dalla polizia», essa risultava rassicurante per le loro coscienze, dunque credibile. Anche la visione schematica del racket che manipola e recupera è in fondo, pur nella sua assoluta differenza, rassicurante. Il rapporto fra dirigenti e diretti non è così semplice, e va criticato nei due sensi. L'esplosione di Genova ha fatto i conti con anni di assenza di conflittualità sociale, segnati da cortei pacificati e da un'ideologia del dialogo democratico che è penetrata fin nelle ossa. Tutto ciò non si scalza in qualche ora. Dopo i fatti di luglio, molti rivoltosi non hanno saputo alimentare le fiamme di quei giorni nella continuità dei loro progetti, fuori dalle scadenze prefissate.
Se è vero che la rivolta non propone solo risposte diverse agli stessi problemi, ma cambia profondamente le domande (dagli Otto Grandi da fermare, a un intero modo di vita da sovvertire, per restare all'esempio genovese), è altrettanto vero che essa non fa sparire per magia i problemi, ma li distribuisce diversamente. Se in genere nella rivolta, oltre al piacere di vivere, s'innalza anche la capacità di smascherare i propri nemici, nessuna sommossa regala uno spirito critico che l'esperienza non abbia affinato. Da questo punto di vista è, ancora una volta, rassicurante bollare di «moralismo» chi preferiva attaccare banche e multinazionali piuttosto che sfasciare le cabine del telefono, o chi preferiva agire lontano dai cortei piuttosto che coinvolgere suo malgrado altri manifestanti – non i sedicenti disobbedienti, ma i tanti, tristi democratici – in possibili scontri. È vero che limitarsi ai "simboli" (che poi tali non sono) del capitalismo può essere un cliché militante rispetto al salto di qualità di una sommossa che mette in discussione tutta la città con i suoi rapporti alienati; ma è ideologico – questa volta nel senso dell'ideologia della teppa – vedere chissà che lucidità laddove non c'è che una muscolosa assenza di idee. La natura delle nostre analisi si riflette anche in ciò che distruggiamo, perché l'azione stessa contiene un suggerimento teorico.
Se la rivolta è un immenso spazio di possibilità che si apre, sta a ciascuno attraversalo a modo suo. Chi dice sommossa dice anche tanta miseria e tanta stupidità che si sprigionano, miseria e stupidità che la normalità capitalista organizza, incarcera e diluisce allo stesso tempo. Evitare ciò non è possibile – se non buttando, assieme all'acqua sporca, anche il bambino –, perché la libertà nasce sulle rovine e sul fango. Ma appiattirsi nella loro ripetizione non è necessario.
Nella difesa dei rivoltosi di Genova, nell'attacco senza mediazioni ai traghettatori del consenso, i problemi vanno tenuti aperti. Per far meglio la prossima volta, giacché solo le occasioni affilano le armi.
** Documenti
*** G8, la paura della violenza e la scomparsa delle molotov
Esci di casa e trovi un carabiniere che ti chiede un documento. Giri l’angolo per andare dal lattaio, e scopri che la strada è stata bloccata da una grata di ferro. Percorri dieci metri e un altro carabiniere ti chiede i documenti. Vuoi prendere l’auto che hai lasciato parcheggiata sull’altro lato della strada ma adesso c’è un muro e ti tocca camminare per almeno due chilometri. Torni indietro, e un poliziotto ti chiede un documento. Bevi un caffè, esci dal bar, ti allacci una scarpa e un finanziere ti chiede un documento. Stai per rientrare a casa e un poliziotto ti blocca perché il documento che la Questura ti ha rilasciato era sbagliato: «Mi spiace ma la devo accompagnare fuori dalla zona rossa». Sacramenti e un carabiniere ti chiede un documento. Hai convinto il poliziotto e il carabiniere che abiti davvero in zona rossa, stai finalmente per ritornare a casa e un finanziere ti chiede un documento: «Mi spiace, la devo riaccompagnare fuori»... La Stampa, 19 Luglio 2001 A Genova verranno impiegati 2.700 militari, io in Libano ne avevo 2.300. Gen. Angioni, capo del contingente militare in Libano Si è trattato di una violenza cieca e senza obiettivi prevedibili, così da rendere oggettivamente impraticabili quelle misure di prevenzione che in altre circostanze sono servite ad anticipare e scongiurare attacchi finalizzati ad una strategia intellegibile. Che cosa proteggere nella città se il black bloc ha avuto la forza e l’ardire di attaccare le carceri e le caserme delle forze dell’ordine? Ansoino Andreassi, ex-vicecapo della Polizia, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 28 agosto 2001 Ogni volta che, su indicazione dei cittadini, cercavamo di fronteggiarli, loro si erano già spostati con le classiche azioni di guerriglia; molte volte non siamo potuti intervenire per bloccarli perché loro, che conoscevano bene la città, si mettevano in posizione tale da non farsi raggiungere: non potevamo scendere da monte, né muoverci dai lati per la presenza del corteo e della massa dei manifestanti. Perciò, non potevamo entrare per fronteggiare i black bloc, che, nel frattempo, avevano già cambiato obiettivo. Francesco Colucci, ex-questore di Genova, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 28 agosto 2001 Ancora oggi chi ha partecipato alle giornate di Genova si domanda (e l’elenco ancora non è completo): 1. chi abbia deciso l’impiego, e con quali ordini di servizio, degli agenti infiltrati nel movimento (carabinieri, ma anche agenti stranieri) che hanno anche svolto funzioni di agenti provocatori. 2. come mai siano stati lasciati liberi di operare gruppi ben individuabili e circoscrivibili di cosiddetti black bloc sia il 20 che il 21 luglio, spesso a poche centinaia se non decine di metri da presidi importanti e obiettivi delicatissimi [...] e quali azioni di prevenzione si siano fatte nei loro confronti o indagini nell’ambiente neonazista e neofascista o nei gruppi ultras delle tifoserie del calcio. [...] da "Genova - Il libro bianco" ed. l’Unità, Liberazione, il manifesto, manifestolibri, Carta Le chiedo, invece, di farci sapere qualche cosa di più, di farci sapere, cioè, qual è quella zona grigia, a metà tra il nero dei black bloc e il bianco dei pacifisti con i rosari, non identificabili perché vestiti di nero, ma riconoscibili da altro tipo di travisamento, in quanto a me pare di aver visto un altro film rispetto a quello che ci è stato raccontato da altro settore di questa aula. Ho visto riprese ed immagini, ho visto gente a torso nudo con kefiah, persone vestite con magliette disparate, gente invece travisata con caschi da motociclista, uomini sotto i passamontagna, persone con bardature di diverso tipo che, evidentemente, avevano indossato perché non avevano intenzione di partecipare pacificamente a quel tipo di manifestazioni. Roberto Menia, parlamentare Lei però mi sta chiedendo se abbia delle informazione sui black bloc quando gli otto servizi segreti più potenti del mondo, con tutte le informative che possono avere e con i blocchi alle frontiere, sono riusciti a far sì che arrivassero tutti questi gruppi violenti nel centro di Genova, lasciandoli liberamente «scorrazzare». Lei capisce che è come chiedermi perché non si sia riusciti noi stessi a fermare i black bloc dopo che il 21 luglio aveva telefonato il dottor Mortola [capo della digos genovese]. Noi in quella circostanza siamo stati chiarissimi, invitandolo ad agire, in quanto sia egli sia le forze di polizia avevano l’autorità e gli strumenti per farlo, mentre noi non avevamo né l’uno né gli altri. Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001
Il Capo della Polizia ci ha detto che avrebbero trattato bene i buoni e male i cattivi, affermando che il livello di repressione sarebbe stato correlato alle misure adottate: quindi, se uno avesse tentato di passare la linea rossa senza strumenti di offesa, ci sarebbe stato un certo livello di risposta. Il problema è che è successo altro! Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001 Il Genoa social forum – del quale faccio parte – ha interloquito con voi e ha garantito per se stesso e per le proprie scelte. Naturalmente nessun individuo del nostro gruppo può pensare di attrezzarsi per organizzare servizi d’ordine, ancor più perché il GSF è composto da gente pacifica. Tuttavia, sul terreno della prevenzione, avremmo voluto che venissero impediti arrivi. In questo senso, l’unico risultato ottenuto è stato quello di impedire le manifestazioni a centocinquanta persone di una nave greca, le quali sono state rispedite al mittente.» Graziella Mascia, parlamentare Nella tarda mattinata, il capo della DIGOS genovese, Spartaco Mortola, telefona a Massimiliano Morettini, uno dei coordinatori del Genoa social forum, per avvertirlo che nella piazza ci sono dei gruppi di black bloc che vogliono accodarsi in fondo al corteo, chiedendo al Genoa social forum di non farli inserire. Il coordinatore, Massimiliano Morettini, esprime contrarietà al fatto che la Digos non intervenga a bloccare i black bloc, sapendo che ci sono e che sono dietro al corteo e invita le forze dell’ordine a muoversi per prevenire l’aggancio dei black bloc al corteo. Infatti, noi, avendo parlato di iniziative pacifiche, eravamo con le mani alzate, mentre quelli erano armati e di certo, per definizione, questo compito non spettava a noi, ma a loro. Nonostante questa richiesta non succede assolutamente nulla. Vittorio Agnoletto, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001 Genova con il suo schieramento di quasi sedicimila uomini è il vero test per il mega apparato messo in campo dal Viminale. Un apparato che potrà contare anche sul sistema di satelliti spia Usa che terrà sotto controllo Genova per tutta la durata del vertice. E a proposito di spie, già da giorni sono arrivati in città gli agenti dei Servizi segreti del Sisde ma soprattutto quelli americani e inglesi. E Genova per le forze di polizia sarà anche terreno di prova per nuove tecniche e nuovi "strumenti" di dissuasione. Scudi in plexiglas più piccoli dei soliti, elmetti in materiale più resistente, manganelli in gomma dura, giubbotti anti-strappo. Guido Alfieri, Il Messaggero, 19 luglio 2001 Tenuto, altresì, conto della consistenza numerica della popolazione residente nell’area protetta e della insistenza in quel territorio di una zona di per sé a rischio come i carrugi, all’interno della "zona rossa" era stato previsto un servizio di controllo nei giorni antecedenti e in quelli dello svolgimento dei lavori del vertice, coordinato dal direttore del servizio centrale operativo e finalizzato ad individuare le possibili insidie a persone e/o cose, oltre che naturalmente alla popolazione residente. Si è reso pertanto indispensabile un notevole impiego di qualificate risorse della polizia giudiziaria, proprio in ragione della specifica attività da svolgere, che è consistita soprattutto in perquisizioni, ispezioni e ricognizioni, protrattesi per molti giorni, sia prima sia dopo la recinzione dell’area. È stata proprio tale attività preventiva che ha consentito di garantire un’elevata protezione: in particolare, sono state eseguite 92 perquisizioni domiciliari e 273 ispezioni di locali; sono state identificate 4.073 persone per accertarne la legittima permanenza nell’area di massima sicurezza; sono state arrestate 22 persone (7 italiani e 15 stranieri); sono state denunciate in stato di libertà 38 persone (22 italiani e 16 stranieri). Gianni De Gennaro, capo della polizia, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 8 agosto 2001
Intanto fa discutere il piano di emergenza elaborato dalla regione e che prevederebbe, oltre un locale refrigerato di 500 metri quadri da adibire a obitorio, anche 200 body bag: i sacchi da morto che si vedono nei film sul Vietnam. Il Manifesto, 20 giugno 2001 "Ci hanno detto che a Genova, come a Québec city, verrà innalzato un muro. Ebbene, noi lo abbatteremo". E le regole? Non sostiene il Genoa Social Forum che, durante le manifestazioni, non verranno danneggiate né cose né persone? "Il muro non fa parte delle strutture della città", taglia corto Casarini. Dunque ci saranno scontri? "Prevedo proprio di sì". Noi Tute Bianche li affronteremo, con i mezzi che abbiamo. Mentre i pacifisti, in Chiesa, pregheranno per la nostra incolumità" Luca Casarini, Corriere della sera, 4 luglio 2001
Le Organizzazioni Non Governative (ONG) e le Reti italiane - che si riconoscono nel Genoa Social Forum e sono nei network internazionali che si battono per la giustizia sociale e la pace, per la prevalenza dei diritti globali di cittadinanza sulle logiche del profitto - presentano oggi la propria proposta per fermare il G8. Lanciando anzitutto l'idea di un'Assemblea rappresentativa di tutti i popoli che consenta di rifondare le Nazioni Unite. Dalla dichiarazione del GSF del 5 luglio C’era da concordare un segnale simbolico per le Tute Bianche, bastavano cinque centimetri di zona rossa… ma non è stato possibile contrattare nulla. Zanella, deputata dei Verdi, Il manifesto, 22 luglio Una "internazionale nera" dei "servizi" sembra essere stata messa in piazza contro i contestatori della globalizzazione Attac France, comunicato del 27 luglio
[Occorre] un’iniziativa nazionale ed europea per mettere fuori legge i gruppi neonazisti e i Black-bloc, allargando il modello della legge Mancino, già esistente in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, [iniziativa che] servirà a evitare confusione tra associazione pacifiche e idioti violenti. A. Pecoraro Scanio, presidente dei Verdi
Il Capo della Polizia ci ha detto che avrebbero trattato bene i buoni e male i cattivi, affermando che il livello di repressione sarebbe stato correlato alle misure adottate: quindi, se uno avesse tentato di passare la linea rossa senza strumenti di offesa, ci sarebbe stato un certo livello di risposta. Il problema è che è successo altro! Vittorio Agnoletto, portavoce del GSF, Audizione di fronte alla commissione parlamentare, 6 settembre 2001
Lo Stato non è più, d’ora innanzi, il nemico da abbattere, ma l’omologo con cui dobbiamo discutere. Luca Casarini, Il Gazzettino, 23 aprile 1998 Il G8 ha lavorato bene e, per la prima volta, si è aperto alla società civile Silvio Berlusconi «Il nostro è uno stato democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi siano soppressioni di libertà» Gianfranco Fini dopo il G8 È un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto… la nonviolenza significa essere preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepoteza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. Aldo Capitini
È più facile battere un centinaio di uomini che uno solo, specialmente se questi colpisce di sorpresa e scompare misteriosamente. La polizia e l’esercito saranno senza potere se Mosca è coperta di questi piccoli distaccamenti inafferrabili. [...] È impossibile per loro prenderli tutti poiché dovrebbero, per questo, riempire ogni casa di cosacchi. Avviso agli insorti. Mosca, 11 dicembre 1905 [I black bloc] sono centinaia di psicopatici vestiti di nero che il Ministro degli Interni ha infiltrato, aizzato e utilizzato contro il movimento Francesco Berardi "Bifo"
Tra gli indagati figura anche un giornalista genovese, sorpreso dallo scatto di un fotografo mentre esce da un supermercato devastato dalle tute nere con un paio di confezioni di mozzarella. Il Secolo XIX, 1 agosto 2002 "Ci rivolgiamo a Lei come massima autorità dello Stato Italiano e come garante delle nostre istituzioni in questa fase di passaggio di legislatura, affinché siano tutelate nei giorni del vertice dei G8 libertà di espressione e di manifestazione ai cittadini del mondo. Crediamo che le istituzioni repubblicane del nostro Paese, proprio per la loro storia e per i principi su cui si fondano, non possano e non debbano decidere di autorità di negare gli spazi del confronto democratico e sospendere i diritti fondamentali dei cittadini. Chiediamo che le nostre istituzioni diano un segnale consapevole di maturità e di apertura nei confronti di quelle campagne, reti e organizzazioni non governative che stanno crescendo in questi anni, impegnandosi per l'affermazione nella società dei principi di equità, giustizia e sostenibilità. Sin ora, nonostante la nostra massima disponibilità al confronto, purttroppo non abbiamo avuto risposte dal Governo. Per questi motivi ci rivolgiamo a Lei affinché a Genova sia garantita la libertà di espressione e manifestazione." Lettera a Ciampi del Gsf, dalla stampa genovese del 4 aprile Ci sono anche i maggiori rappresentanti della sicurezza nazionale: il capo della polizia De Gennaro e il suo vice Ansoino Andreassi. Tredici alti funzionari contro sette "nani" antiglobalizzazione. I nuovi ribelli incontrano i vecchi nemici. La cronaca di ieri è un abbozzo di sceneggiatura, perché i protagonisti ancora non si conoscono. Non loro almeno, questi sette moschettieri che vogliono fustigare i grandi del mondo. Cinque sono in trasferta: Massimiliano Morettini e Chiara Cassurino da Genova, Peppe De Cristofaro da Napoli, Fabio Lucchesi da Lucca e Vittorio Agnoletto da Milano. Luciano Muhlbauer e Anna Pizza venivano invece dai rispettivi uffici romani: la confederazione dei Cobas. La Repubblica, 29 giugno 2001
Le fantasie del potere Verso il G8 di Genova: oggi un incontro a Roma. Frattini apre ai dimostranti "pacifici" Anna Pizzo - Genova Quanto alla trattativa, il Genoa social forum chiederà al presidente della repubblica di farsi garante "del diritto di espressione e di manifestazione di tutti i cittadini" e di far cessare la campagna propagandistica che disegna scenari apocalittici. E al nuovo presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, di riprendere la trattativa interrotta (o meglio mai realmente iniziata). Il Manifesto 24 maggio 2001 I mille nodi di una rete multicolore Mario Pianta Se è già in qualche misura consolidato il dialogo con le istituzioni e i vertici che hanno definito i termini dei problemi globali, la sfida oggi è aprire alla società civile anche le istituzioni e i vertici che hanno poteri di definire direttive o decisioni. E' per questo che Fmi, Banca mondiale e Organizzazione mondiale per il commercio sono ora gli obiettivi principali dei movimenti globali. In gioco c'è una prova decisiva per le possibilità di democratizzare il sistema internazionale e di consolidare in istituzioni di tipo nuovo la carica di cambiamento portata dai movimenti. Manifesto 12 giugno 2001 "Un atto contro il Gsf" Cinzia Gubbini "E' il Torino style - aggiunge Daniele Farina - sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto a inasprire il clima con fatti cruenti". "E' una provocazione. Vogliono farci cadere nella spirale della violenza, nella logica dell'azione-reazione. L'unica risposta possibile è una partecipazione ancora più ampia alle manifestazioni di Genova". Questo il commento a caldo di Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa social forum, il viso tirato dopo l'annuncio dello scoppio nella caserma dei carabinieri di San Fruttuoso. "Bisogna guardare alle frange interno allo stato - aggiunge - quelle che possono mirare alla distruzione di un movimento trasversale che ha saputo tessere relazioni con le istituzioni, con pezzi della società civile finora lontani". Oggi Agnoletto andrà a trovare in ospedale il carabiniere ferito: "Deve essere chiaro che i nostri nemici non sono certo i ragazzi obbligati a svolgere mansioni di ordine pubblico. Noi manifesteremo, ma le nostre azioni, come abbiamo più volte ribadito, saranno nel totale rispetto della città e delle persone, anche in divisa". Insomma, la lettura degli "antiglobalizzatori" è chiara: non sono loro ad avere interesse che la tensione salga. "La bomba esplosa questa mattina a Genova è una bomba contro il movimento - si legge nel comunicato unitario del Gsf - non è casuale che questo attentato avvenga nel giorno dell'apertura del Public Forum. L' attentato cerca di chiudere la bocca alle nostre ragioni". "Sconfiggiamo la paura, veniamo tutti a Genova", diventa così il nuovo motto del Gsf (che ormai conta mille adesioni), mentre la città è già pacificamente invasa dalle prime delegazioni di manifestanti: l'accoglienza regge benissimo e si respira un bel clima nonostante i controlli, le perquisizioni, e l'alacre lavoro per blindare la zona rossa. "Ecco che l'apputamento di Genova diventa un'occasione ancora più interessante - osserva Matteo Jade, uno dei portavoce delle Tute bianche - abbiamo l'opportunità di riscrivere il finale di un copione già noto. In Italia è sempre andata così: nel momento in cui migliaia di persone contestano il potere, come ora per chiedere una globalizzazione all'insegna della dignità e della persona, arriva la bomba. Una strategia per mettere il bavaglio al movimento, per intimorire le persone, per farle stare a casa. Questa volta, però, possiamo dimostrare che le cose possono andare in un altro modo. Venite in tanti". La condanna dell'attentato è dunque ampia e senza ambiguità. "Il pacco bomba inviato a Genova costituisce un atto gravissimo di terrorismo. La nostra condanna è come sempre fermissima", dichiara Tom Benettollo dell'Arci. "I fatti di questa mattina confermano che a Genova è in gioco la democrazia di questo paese e questo rafforza l'appello a esserci", rilanciano il Leoncavallo e le Tute bianche di Milano. "E' il Torino style - aggiunge Daniele Farina - sapevamo che qualcuno avrebbe provveduto a inasprire il clima con fatti cruenti". Un appello a "svelenire il clima" scendendo in piazza arriva anche dalle congregazioni missionarie. "Il corteo del 21 va fatto assolutamente - dice padre Giovanni La Manna - è l'unica possibilità di dialogo pacifico". E non mancano i consigli, da parte di chi una certa esperienza ce l'ha: "Vigilate. A Barcellona durante la manifestazione contro la Banca mondiale abbiamo fotografato poliziotti vestiti da contestatori intenti a spaccare vetrine", ricorda José Maria Antentas della Campagna contro la Banca mondiale. Walden Bello, del Focus on the global south, nota: "Il movimento antiglobalizzazione sta crescendo e per questo fa paura". Manifesto 17 luglio 2001
Dentro la società della comunicazione, la rappresentazione è un elemento formidabile: per loro di controllo, per noi di ribellione. E finora, dal punto di vista della comunicazione, li abbiamo devastati Luca Casarini, La Repubblica, 16 luglio 2001
Al Black bloc, hanno permesso di fare tutto quello che hanno voluto, a noi, che sfilavamo pacificamente, ci hanno sparato addosso" dichiara Luca Casarini, leader dei centri sociali. Newport, 23 luglio 2001 Allo stesso tempo, abbiamo fatto il possibile per difendere le decine di migliaia di persone confluite nei nostri cortei, tenendo a distanza gruppi estranei che volevano infiltrarsi nelle nostre fila. Piero Bernochhi (Cobas), "Un forum da discutere", il manifesto, 29 luglio 2001
Casarini: "Si indaghi sui neonazi infiltrati" - Il leader delle tute bianche: è stato Fini a dettare la linea dura Anais Ginori Roma - Luca Casarini, il più discusso dei leader del Genoa Social Forum, non si considera sconfitto dopo la battaglia di Genova. "Volevano dimostrare di essere più forti, ci sono riusciti. Ma noi continueremo a combatterli con la disobbedienza civile, rifiutando il confronto militare". Rientrato a Padova, il portavoce delle tute bianche contrattacca: "C'è una campagna di veleni su di me e sul movimento. Qualcuno mi vuole vedere in prigione, cercheranno di arrestarmi". Di chi parla? "E' chiaro che do fastidio. Disturbo Gianfranco Fini che, appena arrivato a Genova, è passato a Forte San Giuliano per impartire la linea politica sulla gestione dell'ordine pubblico. E cioè massacrare i manifestanti, dissuadere chiunque a scendere in piazza per esprimere il dissenso". Chi altro la teme? "Metto in difficoltà una certa sinistra perbenista che, come ha spiegato Violante, pensa che violare una legge ingiusta sia sempre sinonimo di criminalità e magari mi accusa di dialogare con i black bloc. E' una bugia. Accreditarmi come l'anello di congiunzione con i violenti, è falso. Tra noi e i black bloc la distanza è abissale. Loro hanno fatto un grande favore al G8". Chi sono i black bloc? "Non è un'organizzazione. È una tattica di lotta che esiste da diversi anni. E' stata già a Seattle, a Praga, a Nizza, in Quebec. E' una logica estranea a noi politicamente e culturalmente. Il concetto della devastazione è l'altra faccia dell'omologazione. I black bloc sono stati cinicamente utilizzati contro di noi". In che modo? "Se non ci fosse stato un campo di battaglia il governo non avrebbe potuto organizzare la gigantesca repressione militare per caricare a freddo un corteo di diecimila persone, con duecento giornalisti, che marciava compatto e non aveva lanciato neanche uno spillo. Nella trappola di via Tolemaide ci hanno massacrato i carabinieri mentre centinaia di poliziotti stavano a guardare. I parlamentari che erano nel corteo telefonavano alla questura, al prefetto, e questi rispondevano: "Non sappiamo cosa sta accadendo". Una repressione mai vista in Italia. Molti amici che hanno vissuto gli anni Settanta sono rimasti sbalorditi". Dopo Genova, il movimento deve fare una scelta netta contro la violenza. "Noi l'avevamo già fatta e la confermiamo. Il conflitto sociale è necessario contro la violenza dell'impero. Non siamo divisi su questo, siamo tutti radicali". Continuerete dunque a manifestare con accanto i black bloc? "Stiamo discutendo nel movimento di come proteggerci. Ma mi interesserebbe che ci fosse una reale indagine su questi black bloc. Un'etichetta di comodo per lanciare una nuova caccia alle streghe. Mi risulta che a spaccare tutto ci fossero anche molti neonazisti, militanti di Forza nuova. Sul vostro giornale è stato intervistato un black bloc inglese che ha detto di essere stato invitato dai camerati italiani. Avete pubblicato foto, nome e cognome. Non mi risulta che sia stato arrestato ed è tornato a casa tranquillamente La Repubblica, 31 luglio 2001