“Individui o cittadini?” - Continua il dibattito
È significativo che, nella loro «Risposta a Machete», “alcuni anarchici” abbiano scelto come viatico le parole del più noto anarchico italiano sostenitore, oltre che dell’organizzazione formale, della necessità di stringere alleanze tattiche pur di arrivare all’agognata rivoluzione, scritte nel pieno della sua battaglia contro gli untorelli individualisti. Ancor più significativo è che di quel testo abbiano preferito ricordare solo il nome del periodico che lo ha ospitato, omettendone il titolo: «Andiamo fra il popolo».
La nostra impressione è che la vera spina dorsale della replica di “alcuni anarchici” sia costituita per l’appunto dal loro riferimento a Malatesta, a questo Malatesta — e da tutto ciò che si trascina dietro. Differenziandosi solo nella forma — dove non v’è traccia di flemma — il loro intervento ripete pari pari la secolare apologia dell’utilità pratica del buon senso con la conseguente riprovazione di chi, essendone privo, viene a rompere le uova nel paniere a chi si appresta a venderle alle masse. Infatti, così si legge nell’articolo in questione di Malatesta: «Ma quando si credeva di poter infine ricominciare un lavoro serio ed a larga base, ecco che venner fuori alcuni compagni i quali, per una malintesa intransigenza, elevarono l’isolamento a principio, e secondati dall’indolenza e della timidezza di tanti, che trovavano in quella “teoria” una comoda scusa per non far nulla e non correr nessun rischio, riuscirono a ricacciarci nell’impotenza».
Come si vede, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Da oltre un secolo ci viene impartito che reale, concreta, pratica, è l’azione collettiva che sola può avere presa sullo stato delle cose. Per cui non bisogna dare ascolto agli ineffettuali sognatori che, amando starsene al calduccio delle proprie pervicaci convinzioni, impediscono agli operosi anarchici ragionanti di convincere il popolo a fare la rivoluzione. Da qui il viaggio in Val Susa trasformato in un obbligo sacro per i sovversivi come la visita alla Mecca per i musulmani, il cui mancato adempimento pare comporti un disonore di cui rispondere che squalifica in anticipo ogni parola pronunciata dal blasfemo che se ne macchia. Per inquinare il dibattito si cerca di buttarlo in rissa, aprendo la botola identitaria che sprigiona i suoi nauseanti miasmi.
Non è chiaro, mentre ci si tura il naso, se a brontolare tanto siano vecchi ammiratori di Errico Malatesta o giovani neofiti convertitisi sulla via di Venaus. Sebbene «l’indolenza e la timidezza di tanti» non spingano affatto oggi a disertare il fronte della popolare lotta, ma caso mai a prendervi parte senza chiedersi troppo quale sia il modo migliore per lasciarvi impresso il segno della propria singolarità, può darsi che essi non gradiscano comunque che si insinuino domande in questa epoca di risposte. O forse, chissà, può darsi che ci troviamo di fronte alle difficoltà che travagliano i periodi di transizione, quelli in cui si sta con un piede nel vecchio e uno nel nuovo cercando in tutti i modi di conciliarli, quelli in cui si tenta di trascinare con sé il maggior numero di antichi compagni per farsi forza, quelli in cui si fa leva sull’affetto per cementare i rapporti e mettere a tacere ogni eventuale spiacevole critica.
Bizzarro. A detta di “alcuni anarchici” l’articolo Individui o cittadini? ha perfino sollevato questioni «molto importanti» avviando un dibattito «utile per i compagni»; ha formulato «diverse considerazioni puntali e condivisibili sui rischi che alcune lotte attualmente in corso vengano recuperate dal cittadinismo — e che gli stessi anarchici in esse impegnati portino involontariamente acqua al mulino del riformismo»; e, al fine di scongiurare tali rischi, ha invitato ad un «rigore» dell’analisi ritenuto benvenuto. Ma se questo dibattito è meritevole di essere affrontato da tutti i compagni, che senso ha irrigidirsi con chi l’ha infine iniziato? “Alcuni anarchici” ci ricordano il vecchio Luigi Fabbri allorché, scagliandosi contro le solite mele marce che guastavano il movimento, cercava di curare le influenze borghesi sull’anarchismo: «E anche quando le loro idee o le loro critiche sono originariamente giuste, essi le esagerano e le sformano talmente da rendere a quelle il più cattivo servigio, quale peggiore non potrebbe il più dichiarato nemico».
È istruttivo osservare le capriole con cui si cerca di circoscrivere a priori una discussione allargata, asserendo per esempio che la critica a un’esperienza può essere effettuata solo da chi l’ha vissuta direttamente e collettivamente. Ci vengono in mente, si magna licet, quei vecchi compagni spagnoli che ancora si imbestialiscono ogni qualvolta qualcuno ha l’ardire di criticare l’ingresso degli anarchici nel governo durante la rivoluzione del 1936. Oppure quei filozapatisti europei che inorridiscono di fronte alle critiche rivolte all’EZNL e al suo mascherato subcomandante. Comodo criticare a cose fatte o a distanza, bisogna esserci! Per mettere un po’ d’ordine in questo casino di movimento dove ognuno ha la scostumanza di dire e fare quel che gli pare, è ora di formalizzare delle regole: a) d’ora in poi la partecipazione a blocchi, presidi, assemblee, battaglie popolari è la discriminante che stabilisce chi lotta davvero e chi non fa un cazzo; b) solo chi può mostrare un cartellino di partecipazione vidimato può criticare queste lotte; c) e poiché in genere durante le lotte sono sempre i soliti pochi che interpretano… Mmmmh, già sentita questa.
Il buon Malatesta scriveva nello stesso articolo: «la rivoluzione non si fa in quattro gatti… non si fa che quando il popolo scende in piazza. E se noi vogliamo farla bisogna che attiriamo a noi la folla, quanto più folla è possibile». Va da sé che — ammettendo l’effettiva esistenza di questa astrazione dalle centomila zampe — il popolo non ha affatto bisogno degli anarchici, che gli sono del tutto indifferenti. Vive, soffre, gioisce, obbedisce, si rivolta e muore benissimo senza di loro. Sono gli anarchici ad aver bisogno del popolo, a dover attirare «quanto più folla possibile» se vogliono fare la rivoluzione. E se questa folla si mostra insensibile alle idee anarchiche, oggi assai più che nel 1894, come fare? Non c’è verso, se si vuole uscire di corsa dalla routine delle iniziative per i soliti intimi non rimane che cambiare queste idee e i conseguenti metodi, diventando più tolleranti (ecco perché sbandierare il pedigree accademico di chi si invita a parlare nelle proprie iniziative è una precisa scelta, non un errore di poco conto. Come potrebbe la folla essere attirata dalla parola di uno sconosciuto autodidatta?).
Il ragionamento di Malatesta aveva una sua logica: poiché una rivoluzione non può essere fatta dai quattro gatti anarchici, questi devono necessariamente unirsi a cani, porci e fauna di varia specie al fine di fare minaccioso branco contro il comune padrone. Tuttavia c’è qualche ostacolo da superare. Per lo più solo i gatti sono indipendenti, gli altri animali tendono a seguire i loro rappresentanti. Per cui, se si vuole fare adunata, bisogna giocoforza prendere qualche accordo con animali più o meno politici che aspirano a diventare capo-branco. Ed essendo i gatti soltanto quattro mentre gli altri animali sono schiere, è ovvio che per comunicare sono i felini a dover apprendere ad abbaiare e grugnire, non gli altri a miagolare. Poco importa, pensava Malatesta, si tratta di concessioni momentanee del tutto trascurabili; «da cosa nasce cosa», e alla fine l’indipendenza felina tornata alla ribalta contagerà la fauna intera.
Altri anarchici, viceversa, sostenevano che la via delle alleanze, oltre ad essere discutibile dal punto di vista etico, non dà nemmeno i risultati sperati. L’alleanza è un affare politico i cui incassi vanno sempre al contraente più forte. Poveri quantitativamente, la sola forza “attrattiva” degli anarchici è la loro qualità, cioè quella loro indipendenza che li fa distinguere da tutti gli altri. Rinunciarvi in anticipo è un assurdo. Meglio perciò andare avanti per la propria strada, cercando di crescere e — perché no? — in qualche circostanza di incrociare nel loro cammino la folla, senza per questo adularla. Con la sua parte più umile si può ben cercare di discutere, ma gli animali politici, di qualsiasi razza siano, che se ne stiano alla larga. È pessimo esempio prima criticarli e poi colloquiarci amabilmente assieme. Per diffondere indipendenza bisogna praticarla. Per di più “alcuni anarchici” fanno dell’esperienza il faro dell’azione. Ma l’esperienza storica del movimento anarchico non ha forse puntualmente smentito l’ipotesi malatestiana? Ogni qualvolta gli anarchici si sono alleati con altre forze, alla fine sono stati traditi e tutta la loro opera si è rivelata di bassa manovalanza. Ma almeno ci hanno provato — si dirà. Nemmeno agli altri anarchici è andata meglio, essendosi ritrovati sempre soli contro tutti. Ma almeno sono rimasti se stessi — diciamo. Se ne deduce che, poiché l’esperienza in sé non dà ragione a nessuno — nemmeno quella vissuta — ma fornisce solo indicazioni di massima, restano i tentativi nelle diverse direzioni a seconda delle proprie convinzioni e propensioni.
La via di Malatesta è una via politica, nel senso che attraverso la più adatta strategia mira a raggiungere un risultato quantitativo. Come diceva un vecchio refrattario, «il politico ha orrore della solitudine» e per questo ama l’ambivalenza. I colori troppo netti, precisi, lo irritano perché forniscono poche opportunità di manovra. Meglio le sfumature, quelle che permettono in ogni istante di spaziare e confluire in più gradazioni.
Prendiamo l’uso di concetti di cui “alcuni anarchici” riconoscono l’ambivalenza, pur rivendicandone il ricorso. Notiamo di sfuggita che, se definire popolare la lotta in Val Susa ha valore descrittivo, lo stesso non si può dire per l’organizzazione di sedicenti iniziative popolari: qui l’aggettivo popolare non è una oggettiva constatazione a posteriori, ma una calda proposta a priori. A nostro avviso, il pericolo rappresentato da questa ambivalenza non è affatto una innocua incomprensione: è un’esatta comprensione, del tutto opposta alla nostra. La parola popolo è da sempre vessillo dei peggiori reazionari. Perché dovremmo usarla anche noi, pur nelle sue declinazioni? Solo perché nel secolo scorso se ne faceva un grande uso anche fra gli anarchici? O perché può avere anche un altro significato? Seguendo questa logica, potremmo rivendicare anche la virtù della politica. E dopo aver fatto due, facciamo tre. Perché non rispolverare il concetto di partito? Sì, insomma, partito nel senso di «essere di parte», com’era usato dallo stesso Malatesta. Così, di ambivalenza in ambivalenza, dove siamo arrivati? Ad un partito anarchico che pratica una politica popolare (non mancando di definire terrorismo la violenza anarchica come Libertad o di condannare il luddismo come Déjacque…). Chissà se è malignità rilevare l’opportunismo di una simile scelta che gioca intenzionalmente con l’ambiguità, nella speranza di ottenere… cosa? Fino al secolo scorso, si invitava a non usare la lingua di legno del potere se non si voleva riprodurlo. Solo che per attirare la massa bisogna farsi capire, e alla massa è stata insegnata soltanto questa dannata lingua. Per cui oggi ci viene detto che, laddove questa lingua è ambivalente, si può fare. Eccola qua, la «buona novella» apprezzata da “alcuni anarchici”.
Purtroppo quest’aria possibilista produce effetti diversi a seconda di chi la respira. Mentre chi non ha mai letto un testo rivoluzionario in vita sua è stato capace all’improvviso di erigere barricate (e di questo non ci si può che rallegrare), chi ne ha letti parecchi è stato capace all’improvviso di organizzare iniziative con politicanti e recuperatori di varia natura. Ci domandiamo se sia questa l’apertura verso l’ignoto descritta da «alcuni anarchici», i quali, per decantare la bellezza insita nel non andar troppo per il sottile quando si tratta di stringere rapporti, ricorrono a parole capaci di far scattare l’applauso: «fare le cose assieme a chi non è anarchico, battersi senza sapere in anticipo quali saranno i risultati, sperimentare idee e metodi in una lotta i cui tempi non li determiniamo solo noi, capire — fuori dai libri e dall’aria familiare delle iniziative che nascono e finiscono tra compagni – che avvedutezze ed errori hanno un loro peso specifico». Fatti i complimenti per lo stile, ci si perdoni la cafoneria di approfondire il contenuto. Chi sono questi altri, questi non anarchici nei cui occhi è tanto bello perdersi? Sono forse «sia il farmacista che l’operaio» che partecipano alle lotte popolari? Certo, se avessero scritto «sia il consigliere comunale che l’ambientalista di Stato», si sarebbe infranto il pathos eversivo. Eppure, è proprio quel che sta accadendo. Se ne sono accorti “alcuni anarchici”? Sarebbe sconcertante scoprire che è per un rigido schema mentale privo di esperienza vissuta, per ossequio nei confronti di un progetto astratto, che fino a qualche anno fa ci si teneva ben distanti da tutta questa brava gente. Si evitavano solo perché non li si conoscevano di persona? Con stizza ci viene fatto notare che l’incontro con chi non è anarchico cambia profondamente chi ha la determinazione di viverlo, sconvolge ogni previsione e schema. È «avventura, cioè qualcosa di ben diverso dal dir la nostra sul mondo».
E ce ne siamo accorti! Ci sono anarchici per cui l’avventura inizia quando si smette di dire la nostra sul mondo, per iniziare a dire la loro. Questo improvviso voltafaccia da cosa è ispirato? Dall’esperienza vissuta da conservare nel cuore con gratitudine o dal calcolo formulato dal realismo delle alleanze? Malatesta non aveva dubbi su quale fosse il vero imbroglio che sta dietro alle alleanze strategiche: azzeccare quelle più convenienti. Niente da fare: noi continuiamo ottusamente a ritenerle in sé un imbroglio e a pensare che l’avventura consista nel cercare di diffondere e mettere in pratica la nostra visione del mondo.
Ci rendiamo conto che questa nostra attenzione per il significato di quanto viene espresso è incompatibile con un certo possibilismo malatestiano (i cui ammiratori con una mano salutano il rigore e con l’altra accarezzano l’ambivalenza). Per togliercela dalla mente, ci viene chiesto: «Se gli anarchici del tempo avessero valutato la Comune di Parigi unicamente attraverso i suoi proclami, l'avrebbero difesa così energicamente? Una Comune elogiata dai federalisti e da Bakunin, ma anche da Marx e poi da Lenin...». Ottimo esempio. Partendo dal fatto che la Comune ha attirato gli elogi di tutti i sovversivi (ma per fortuna anche critiche), “alcuni anarchici” suggeriscono che una certa ambivalenza di significato in un’esperienza è inevitabile — quindi, inutile perderci tempo sopra. Solo che un conto è l’ambivalenza riscontrata a posteriori, quella che risulta dall’incontro/scontro delle forze in gioco. E un altro è l’ambivalenza premeditata, quella di chi sapendo che tanto prima o poi qualcosa andrà perso si presenta già ambivalente alla partenza.
Vero è che una esperienza storica non può essere valutata esclusivamente per i suoi proclami scritti. Ciò significa che è superfluo lasciare chiara traccia delle proprie idee? Se le cose affermate sono ininfluenti rispetto alle cose fatte, ne consegue che si può dire tutto e il contrario di tutto. Anarchia o democrazia, azione diretta o politica, barbari o cittadini, chi se ne frega? Si possono perfino sostenere tesi riformiste, se il fine è rivoluzionario (scusate, ma i disobbedienti ragionano in maniera poi tanto diversa?). La parola non va più apprezzata per il suo significato, ma solo per l’effetto ottenuto dalla sua performance e la buona intenzione di chi la emette. Le idee non sarebbero più parte di noi stessi, come la nostra pelle, ma indumenti che si possono tranquillamente variare a seconda dell’occasione. Se così fosse, ogni dibattito diventerebbe un inutile intralcio ad un fare coatto che non ha più bisogno di concedere spazio alla riflessione.
A proposito delle esperienze del passato, ci chiediamo su cosa oggi si potrebbe riflettere se gli anarchici del tempo non ne avessero tramandato la lezione storica. Avendo tante cose da fare, potevano magari limitarsi alle parole che evaporano nelle assemblee senza fare da contrappeso alle interessate interpretazioni di altri, o al più potevano narrare i fatti con fumetti deturnati o lettere dall’oltretomba. Quanto alla Comune, Marx e Lenin avrebbero di certo ringraziato; agli autoritari il nutriente piatto forte, agli anarchici il simpatico contorno. Anche qui, non si può fare a meno di intravedere i risvolti pratici di una simile ipotesi: si tralascia o diluisce ogni critica che divide gli animi in favore di una occasionale narrazione che li incanta e li unisce.
Per parte nostra, ciò di cui maggiormente avvertiamo la mancanza è l’autonomia: autonomia di pensiero, di azione, di strumenti. E a nulla vale andare con la mente ai tempi in cui si auspicavano tentativi di decentralizzare le lotte per sottrarle alla gestione dei soliti mestatori (Vicenza è dappertutto, si sarebbe sostenuto, preparando per altro così il terreno a un ben diverso tentativo di “svolta”). Se oggi si confrontassero gli aspetti qualitativi/quantitativi della “proposta anarchica” con quella delle altre forze sociali, l’esito sarebbe quasi vergognoso. Non siamo in grado di evocare una nostra visione della vita, del mondo, che sia affascinante. Non siamo in grado di formulare ed esercitare una nostra critica che sia originale e dirompente. E di questo siamo tutti responsabili, nessuno escluso. Se a ciò si aggiunge il più o meno inevitabile avvelenamento dei rapporti e l’incremento del controllo sociale e poliziesco, il quadro si fa desolante. Comprendiamo perciò la tentazione di «andare fra il popolo». Una boccata d’aria, certo, ma che rischia — senza le necessarie “precauzioni”— di far perdere gli ultimi residui di autonomia.
Temiamo che questo dibattito potrebbe tranquillamente proseguire all’infinito, senza giungere a capo di nulla. In fondo, come dimostra la citazione iniziale scelta da “alcuni anarchici”, è dalla fine dell’Ottocento che se ne discute. Il motivo della sua puntuale riproposizione è semplice. Qui non siamo di fronte a un problema tecnico risolvibile con una giusta soluzione, ma a una questione che può conoscere diverse interpretazioni anche molto contraddittorie fra loro. La preoccupazione di Malatesta mira ad intraprendere la strategia migliore per ottenere un primo successo quantitativo: attirare le masse. Se per arrivare a questo risultato bisogna sacrificare qualche principio, come si suol dire, pazienza. Meglio male accompagnati che soli. La nostra preoccupazione è esattamente quella opposta: prende in considerazione solo secondariamente l’aspetto numerico, a cui non intende sacrificare un bel nulla delle proprie idee che considera l’unico punto di forza. Se poi rischia di portare all’isolamento, pazienza. Meglio soli che male accompagnati.
Si crea una sorta di doppio cortocircuito. Da una parte si fa notare: come possiamo conquistare gli altri se non li frequentiamo? Dall’altra si fa notare: come possiamo conquistarli davvero, se pur di frequentarli ci travestiamo e rinunciamo a noi stessi? Forse non c’è che un modo per uscirne: aprendosi all’esterno senza perdere l’interno. Facile a dirsi, difficile da farsi, ne conveniamo. Ma tanto più difficile, a nostro avviso, se non ci si pone affatto il problema. Se il sasso nello stagno lanciato da Machete riuscirà a smuovere le sue acque, ben vengano gli schizzi limacciosi.
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