GLI INDESIDERABILI
NUMERO UNICO - MARZO 2000
PONT ST. MARTIN (AOSTA) - PARIGI
Ci sono sempre più indesiderabili nel mondo. Ci sono troppi uomini e troppe donne per cui questa società non ha previsto alcun ruolo, se non quello di crepare per far funzionare tutti gli altri. Morti al mondo o a se stessi: la società non li desidera che così.
Senza lavoro, essi servono per spingere chi ce l’ha a qualsiasi umiliazione pur di tenerselo stretto. Isolati, essi servono per far credere ai cittadini che si pretendono tali di avere una reale vita in comune (tra le carte bollate dell’autorità e i banconi delle merci). Immigrati, essi servono per dar l’illusione di avere delle radici a chi, proletario senza nemmeno più la prole, è disprezzato dai propri figli, solo con il suo nulla in ufficio, in metropolitana o davanti alla televisione. Clandestini, essi servono per ricordare che la sottomissione salariale non è il peggio - esistono anche il lavoro forzato e la paura del controllo che stringe ad ogni pattugliamento. Espulsi, essi servono per ricattare, con la paura del viaggio verso una miseria senza ritorno, tutti i rifugiati economici del genocidio capitalista. Prigionieri, essi servono per minacciare con lo spettro del castigo chi non vuole più rassegnarsi a questa miserabile esistenza. Estradati in quanto nemici dello Stato, essi servono per far capire che nell’Internazionale del dominio e dello sfruttamento non c’è spazio per il cattivo esempio della rivolta.
Poveri, isolati, ovunque stranieri, carcerati, fuorilegge, banditi: le condizioni di questi indesiderabili sono sempre più comuni. Comune può farsi allora la lotta, sulla base del rifiuto di una vita ogni giorno più precarizzata e artificiale. Cittadini o stranieri, innocenti o colpevoli, clandestini o regolarizzati: le distinzioni dei codici statali non ci appartengono. Perché la solidarietà dovrebbe accettare queste frontiere sociali, quando i poveri sono continuamente sballottati da una all’altra?
Noi non siamo solidali nei confronti della miseria, bensì del vigore con cui gli uomini e le donne non la sopportano.
IL SOGNO DI UNA PERGAMENA
Al di sotto dell’alveo dove scorre la storia, un sogno sembra aver resistito all’usura del tempo e al susseguirsi implacabile delle generazioni. Guardate la pergamena ingiallita di questo codice rinascimentale, guardate
sulla pagina queste xilografie che ci riportano alla giovinezza di un millennio appena spirato. Vedrete gli asini cavalcare i cardinali e gli affamati di sempre affogare gioiosi nel cibo, vedrete le corone calpestate, vedrete la fine del mondo o — meglio ancora — il mondo alla rovescia. Eccolo dunque quel sogno, eccolo nudo che si racconta in una incisione di cinquecento anni fa: uccidere il mondo per poterlo afferrare, rubarlo a Dio per farlo nostro e plasmarlo finalmente con le nostre stesse mani. Le epoche, poi, gli han prestato abiti di foggia sempre differente. Si è vestito da contadino durante le insurrezioni medioevali e da blouson noir nel Maggio francese, da operaio italiano durante l’occupazione delle fabbriche e da tessitore inglese ai tempi in cui i primi telai industriali venivano distrutti con rabbiosi colpi di mazza. La voglia di rovesciare il mondo è riemersa ogni volta che gli sfruttati hanno saputo cogliere i fili che li legano tra loro, fili che in ogni epoca vengono rotti e riannodati dalle differenti forme dello sfruttamento. Sono queste forme, infatti, che in qualche maniera "organizzano" gli sfruttati: li concentrano di volta in volta nelle fabbriche o nei quartieri, nei ghetti metropolitani o di fronte all’ufficio di collocamento, imponendo loro condizioni di vita simili e simili problemi da affrontare ogni giorno. Fermiamoci un attimo a scavare il fondo delle nostre memorie e facciamo appello ai racconti dei nostri padri. La fabbrica nella nebbia o il sudore nei campi bruciati dal sole, il tormento di una occupazione coloniale che ti ruba i frutti della terra o il ritmo sempre più frenetico di una pressa che, in un qualsiasi Stato "comunista", promette per un domani che non arriva mai di liberarti dallo sfruttamento. Ad ognuna di queste immagini del nostro passato possiamo associare le differenti maniere di stare assieme degli sfruttati e, quindi, le basi concrete di quelle lotte che hanno voluto rovesciare il mondo e sopprimere lo sfruttamento. Oggi che, pur figli di memorie e di rivolte così diverse, siamo tutti fianco a fianco, quale è il filo che ci unisce? Cosa ci ha portato fin qua dal Magreb o dall’Est, dall’Asia o dal cuore dell’Africa? Perché anche chi ha sempre calpestato questa stessa terra non la riconosce più, la trova tanto differente da quella della memoria?
Un pianeta irriconoscibile
Se leggiamo con attenzione la storia di questi ultimi trent’anni possiamo individuare una linea di sviluppo, una serie di modificazioni che hanno sconvolto il pianeta. Questa situazione nuova viene comunemente chiamata "globalizzazione". Non si tratta di dati definitivamente acquisiti, ma di cambiamenti che sono ancora in corso — con ritmi e peculiarità diversi per ogni singolo paese — e che ci lasciano lo spazio per azzardare qualche previsione. Scansiamo subito, però, un luogo comune sulla "globalizzazione". La tendenza del capitale a cercare su scala planetaria mercati da conquistare e forza lavoro a basso costo è sempre stata presente, non è certo una novità. Sono cambiati gli strumenti per farlo: grazie allo sviluppo della tecnologia il capitale può realizzare questa tendenza con ritmi e conseguenze impensabili fino a qualche anno fa. Non esiste, quindi, un punto di rottura tra il vecchio capitalismo e quello moderno, né è mai esistito un capitalismo "buono" che si sviluppa prevalentemente su basi nazionali e al quale bisognerebbe ritornare — come invece danno ad intendere tanti avversari del neoliberismo. Dal 1973, data che segna convenzionalmente l’inizio del "ciclo dell’informatica", fino ad oggi, il capitale non ha affatto cambiato natura, non è diventato più "cattivo". Ha semplicemente delle armi in più, tanto potenti da rendere il pianeta irriconoscibile. Per comodità di analisi, possiamo provare a leggere questo processo attraverso i cambiamenti che hanno subìto tre differenti aree geografiche: i paesi ex coloniali, quelli appena usciti da regimi sedicenti comunisti, e quelli occidentali.
I figli non voluti del capitale
Come è noto, con l’acquisizione dell’indipendenza le antiche colonie non hanno affatto reciso i rapporti con i propri colonizzatori; nella maggior parte dei casi, anzi, li hanno semplicemente modernizzati, seppur dopo tormentati sussulti. Se l’antico sfruttamento coloniale mirava soprattutto all’accaparramento di materie prime a basso costo che venivano poi lavorate in occidente, da un certo momento in avanti intere fasi della produzione industriale sono state impiantate nei paesi più poveri, approfittando del bassissimo costo del lavoro. Talmente basso da coprire le spese di trasporto delle materie prime, dei macchinari, dei prodotti finiti e i costi dei finanziamenti ai regimi locali, garanti dell’ordine pubblico e della regolarità della produzione. Per lunghi anni i capitali occidentali hanno invaso questi paesi, modificandone profondamente il tessuto sociale. Le antiche strutture contadine sono state distrutte per fare spazio all’industrializzazione, i legami comunitari recisi, le donne proletarizzate. Una immensa quantità di mano d’opera strappata alla terra si è ritrovata — proprio come nell’Europa del secolo scorso — a vagare nelle bidonville alla ricerca di un lavoro. Questa situazione trovava una sua seppur tremenda stabilità fino a quando le industrie manifatturiere impiantate dagli occidentali hanno potuto assorbire una parte consistente di questa manodopera. Ma ad un certo punto, una ad una queste industrie hanno cominciato a chiudere. Lassù al Nord qualche cosa era cambiato: la forza lavoro occidentale era di nuovo concorrenziale con quella del Sud del mondo. Molte industrie hanno chiuso, ma sono rimasti questi nuovi proletari, tanti ed inutili.
Ad Est, la situazione non è migliore. I regimi sedicenti comunisti hanno lasciato dietro di loro il deserto, l’apparato produttivo — enorme ed obsoleto — è rimasto in eredità ai vecchi burocrati locali e al capitale occidentale. Così, i figli ed i nipoti di quegli sfruttati che, oltre alla schiavitù settimanale del lavoro salariato, hanno dovuto subire la retorica domenicale delle «cuoche al potere» e dell’internazionalismo proletario, si sono ritrovati disoccupati: ogni ristrutturazione industriale, lo sappiamo, richiede licenziamenti. Come aveva già fatto con le ex colonie, ogni paese occidentale si è ritagliato delle zone di influenza economica e politica nei territori del defunto Patto di Varsavia trasferendovi quella parte della propria produzione a più alto consumo di manodopera. Ma è una goccia nel mare e la mole di poveri diventati inutili ai loro padroni rimane enorme. Ad accelerare in maniera determinante questi processi, ad Est come al Sud, ci hanno pensato il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, attraverso il ricatto dei debiti.
È così che, dal Sud e dall’Est, parte la lunga marcia di questi figli non voluti del capitale, di questi indesiderabili. Ma a chi rimane a casa non spetta una sorte migliore. Le turbolenze sociali provocate da cambiamenti tanto grandi ed improvvisi vengono spesso incanalate nei discorsi etnici e religiosi — nuove e sempre più sanguinose guerre sono dietro l’angolo. Per quelli che scelgono la via dell’emigrazione come per gli altri che rimangono, l’unica certezza è la miseria e lo spossessamento. Ogni rimpianto è vano.
Fino all’altroieri
Intanto, cosa è successo in Occidente? Meno brutale, il cambiamento è stato parallelo a quello del resto del mondo. I grandi impianti industriali che occupavano una parte consistente dei poveri e che hanno determinato per moltissimi anni la fisionomia delle città — e quindi la mentalità, il modo di vivere e di ribellarsi degli sfruttati — sono scomparsi. In parte perché trasferiti, come abbiamo visto, nei paesi più poveri, in parte perché è stato possibile spezzettarli, distribuirli differentemente sul territorio. Attraverso lo sviluppo della tecnologia, i processi produttivi non solo sono stati sempre più automatizzati, ma anche resi più flessibili, più aderenti alla intrinseca caoticità del mercato. Un tempo, il capitale aveva bisogno di sfruttati depositari delle conoscenze e delle manualità necessarie per condurre, più o meno autonomamente, un segmento del processo produttivo — e quindi di sfruttati che restassero anche tutta la vita nella stessa fabbrica, facendo le stesse cose. Ora non più. Le conoscenze richieste sono sempre più basse ed intercambiabili, non c’è più un’accumulazione del sapere, qualsiasi lavoro è uguale all’altro. Il vecchio mito del "posto fisso" viene soppiantato dall’ideologia della flessibilità, vale a dire dalla precarietà e dall’erosione delle vecchie garanzie: bisogna sapersi adattare a tutto, anche ai contratti settimanali, all’economia clandestina o all’espulsione definitiva dal contesto produttivo. Questi cambiamenti sono comuni a tutto l’Occidente, ma in alcune zone sono stati tanto veloci e radicali da rendere il costo complessivo del lavoro concorrenziale con quello del Sud e dell’Est del mondo. È così che si sono realizzati, da un lato, quel ritorno di capitali che ha destabilizzato le economie dei paesi più poveri — dando il via alle guerre e alle migrazioni di massa — e, dall’altro, il peggioramento delle condizioni materiali di vita degli sfruttati occidentali.
Le rivolte a venire
È chiaro che, per quanto violento, il cambiamento in occidente è in parte attutito da quel che rimane del vecchio Stato sociale e, soprattutto, dal fatto che buona parte dei precarizzati occidentali sono figli dei vecchi proletari e quindi godono indirettamente, tramite le famiglie, delle vecchie garanzie. Basterà lasciar passare, però, una generazione e la precarietà diventerà la condizione sociale più diffusa. È così che noi, figli del vecchio mondo industriale, ci ritroveremo ad essere sempre più inutili, affiancati nei fatti alle schiere degli indesiderabili che approdano sulle nostre coste. Con il trascorrere degli anni e con lo stabilizzarsi di questa situazione perderanno di significato tutti quei movimenti che tentano di dare un sostegno dall’esterno ad una parte circoscritta degli sfruttati (immigrati, disoccupati, precari, ecc.). Le condizioni di sfruttamento saranno simili per tutti, spalancando così le porte per lotte realmente comuni. Eccolo finalmente scoperto il filo che ci lega tutti, sfruttati di mille paesi, eredi di storie tanto differenti: il capitale stesso ha riunificato nella miseria le famiglie perdute della specie umana. La vita che ci si disegna all’orizzonte sarà vissuta comunemente sotto il marchio della precarietà. Apparecchiate con cura dall’evolversi dello sfruttamento, ecco le moderne basi materiali per gli antichi sogni di libertà, ecco il luogo delle prossime rivolte.
PRIMA DI UNA NUOVA MURAGLIA CINESE
Gli sconvolgimenti che hanno reso così irriconoscibile il pianeta evidenziano una costante: il capitale segue un duplice movimento. Da un lato, esso smembra ogni tessuto sociale che oppone resistenza alla sua espansione; dall’altro, esso ricostruisce i rapporti tra gli individui secondo le sue esigenze. Ogni trasformazione economica è sempre una trasformazione sociale, poiché il modo in cui gli uomini e le donne sono sfruttati modifica il loro modo di stare insieme e quindi di ribellarsi. In questo senso, il profitto e il controllo sociale sono due finalità di un unico progetto di dominio.
Dopo aver distrutto le comunità passate e le loro forme di solidarietà, il capitale ha cominciato a smantellare quell’unità sociale che aveva egli stesso creato attraverso l’industrializzazione di massa. Questo non solo per aggirare la resistenza operaia che l’impianto della fabbrica involontariamente "organizzava", ma anche perché i capitalisti vivevano come una costrizione la necessità di ricorrere al processo produttivo per far soldi. L’asservimento della scienza al capitale e le conseguenti trasformazioni tecnologiche hanno permesso una nuova espansione economico-sociale. La valorizzazione — la trasformazione della vita in merce — abolisce sempre di più il tempo e lo spazio al fine di affrancarsi da ogni base materiale fissa. In questo senso, la realtà virtuale (il cosiddetto cyberspazio, la rete cibernetica mondiale) rappresenta la sua condizione ideale. Ancora una volta il movimento è duplice: se la valorizzazione elimina i rapporti ostili alla circolazione di sapere-capitale e di uomini-risorse, essa ricostruisce, allo stesso tempo, le relazioni sociali all’insegna del virtuale (attraverso simulacri di rapporti umani e narcotici elettronici). Tutto ciò presuppone un processo di formazione di un "uomo nuovo" in grado di adattarsi a condizioni di vita sempre più artificializzate. Nel momento in cui l’economia si è estesa a tutti i rapporti sociali, incorporando l’intero processo vitale della specie umana, la sua ultima utopia non può che essere la circolazione pura di valore che si valorizza: denaro che produce denaro. Parallelamente, dopo essersi esteso a tutto lo spazio sociale, l’ultima frontiera del capitale, l’ultimo suo territorio di conquista, non può che essere il suo nemico per eccellenza: il corpo umano. Di qui lo sviluppo delle bio-tecnologie e dell’ingegneria genetica. Senza entrare qui nel merito dei singoli aspetti di questa guerra al vivente, è importante sottolineare il ruolo fondamentale della tecnologia. Per tecnologia non intendiamo in modo generico il "discorso razionale sulla tecnica" né ogni protesi meccanica delle capacità umane; ripercorrendo la storia stessa dell’uso di questo concetto, ci sembra più corretto definirla come l’applicazione della tecnica avanzata alla produzione industriale di massa nel momento in cui la ricerca scientifica si fonde con l’apparato militare (gli anni Quaranta). Si tratta di quel processo che, partendo dall’industria nucleare e aeronautica, passando attraverso la ricerca sui materiali plastici, l’antibiotica e la genetica, è giunto all’elettronica, all’informatica e alla cibernetica. L’applicazione industriale delle tecniche più moderne procede di pari passo con le conoscenze specializzate in biologia molecolare, in chimica, in fisica, eccetera, e con l’ideologia del progresso che ne è la giustificazione. Questo processo, che comincia durante la seconda guerra mondiale, è inseparabile dallo scontro di potenza tra gli Stati, i veri organizzatori della società industriale. Lo sviluppo di un sapere e di una tecnica sempre più incontrollabili erige un muro ogni giorno più alto tra il produttore e l’oggetto che questi fabbrica, tra la macchina e la sua capacità di controllarla. Ciò lo priva a un tempo di ogni autonomia materiale e della coscienza di un’espropriazione possibile (strappare ai padroni gli strumenti tecnici e produttivi per un loro uso libero e reciproco). In questo duplice spossessamento, e non nell’"iniquità neoliberista", si trova la fonte delle nostre vite precarizzate e artificiali. Se il capitale si è diffuso su tutto il territorio; se l’espropriazione delle sue tecniche specializzate è impossibile (giacché inutilizzabili da un punto di vista rivoluzionario, o semplicemente umano); se è scomparso ogni centro produttivo (la Fabbrica) a cui contrapporre un’organizzazione centrale (partito o sindacato) con il suo presunto soggetto storico — allora non resta altro che l’arma proletaria per eccellenza: il sabotaggio. Non resta che l’attacco anonimo e generalizzato contro le strutture della produzione, dell’informazione, del controllo e della repressione: solo così si può opporsi al duplice movimento del capitale, ostacolando l’atomizzazione brutale degli individui e impedendo allo stesso tempo la costruzione dell’"uomo nuovo" della cibernetica, prima che le mura sociali che dovranno ospitarlo siano compiutamente realizzate.
IL NOME DEGLI ASSASSINI
Sin dai giorni della loro apertura, un lungo susseguirsi di rivolte ha caratterizzato la vita dei centri di permanenza temporanea per immigrati clandestini. In queste strutture vengono rinchiusi, in condizioni di vita inumane, gli stranieri in attesa di espulsione. È difficile parlare di questo argomento, specie dopo la troppo lunga scia di morti ammazzati durante le rivolte, senza rischiare di cadere nel pietoso chiacchiericcio tanto in voga tra le organizzazioni — più o meno governative, poco importa — tanto esperte nella strumentalizzazione del sangue. Non ci interessa invitarvi alla commozione o alla supplica collettiva per la chiusura di queste galere. La morte di questi stranieri si affianca all’assassinio di altri milioni di sfruttati, uomini e donne che vengono uccisi dalle guerre, dal lavoro, dalla distruzione del territorio, dal carcere o, più sbrigativamente, da un colpo di pistola della polizia. Smettiamola di credere a chi ci dice che si tratta di incidenti di percorso o di abusi sanguinosi: è ordinaria amministrazione, tutte le vittime di questo mattatoio globale sono da mettere sul conto del capitale e degli Stati. Al becero pietismo, ai cristiani aperitivi a base di lacrime, a chi vorrebbe gli immigrati fuori dai "lager" purché stiano tranquilli e in galera solo se colpevoli, a chi vorrebbe un mondo più o meno come questo ma un po’ più "umano", a chi sogna un capitale meno sanguinario o a chi sfrutta questi episodi per allargare la propria conventicola "rivoluzionaria" — insomma a chi predica la solidarietà nell’oppressione preferiamo contrapporre la complicità nella rivolta. Nessuna delle lotte può essere separata dalle altre, perché ogni realizzazione del dominio è profondamente collegata alle altre. È certo importante chiudere i centri di permanenza temporanea, ma chiederlo agli Stati vuole dire semplicemente spingerli a trovare delle forme di controllo e repressione più efficienti e meno visibili. In più, intendere questi centri come semplici strutture fisiche vuol dire nascondere tutte quelle arterie che ne permettono l’esistenza: dalla Croce Rossa che li cogestisce alle ditte che li costruiscono e agli appaltatori dei rifornimenti alimentari, tutti questi sono i centri di permanenza temporanea, anche loro sono degli assassini.
FRATELLANZA NELL'ABIEZIONE
In 1984 di George Orwell, libro a cui mezzo secolo di totalitarismo non ha fatto che dare conferme, troviamo la descrizione di due culture completamente separate all’interno della società: quella dei funzionari del Partito e quella dei proletari (come vengono definiti gli esclusi dalla cittadella burocratico-socialista e dalla sua ideologia). I funzionari hanno parole, gesti, valori e persino coscienza totalmente diversi da quelli dei proletari. Tra questi e quelli nessuna comunicazione è possibile. I proletari non si rivoltano contro il partito semplicemente perché ignorano la sua natura al pari della sua localizzazione concreta: non si può combattere qualcosa che non si capisce o che nemmeno si conosce. I funzionari dimenticano sistematicamente — una amnesia selettiva che Orwell chiama «bispensiero» — le menzogne su cui fondano la propria adesione ideologica al dominio sul tempo e sugli uomini. La specializzazione (cioè la parcellizzazione e la ripetizione incessante) dell’attività è interamente al servizio dei dogmi del partito, il quale si presenta come infallibile scienza della totalità storica e sociale. Per questo esso ha bisogno del controllo assoluto del passato, al fine di governare il futuro.
Se si cambia qualche nome, si vedrà che questa divisione di classe, basata su di una netta separazione culturale, rappresenta la precisa tendenza della società in cui viviamo. I funzionari del Partito sono oggi i tecnoburocrati della macchina economico-amministrativa, nella quale si fondono l’apparato industriale, la ricerca scientifica e tecnologica, il potere politico, mediatico e militare. I proletari orwelliani sono gli sfruttati alleggeriti — dal capitale — di quelle funeste illusioni che furono i programmi di classe; precarizzati nel lavoro come in tutto il resto, essi sono spossessati di ciò che è sempre più necessario al funzionamento della macchina sociale: il sapere tecnologico. Sono così costretti a una nuova miseria, quella di chi non desidera più una ricchezza che nemmeno capisce. La separazione tecnologica: ecco la nuova muraglia cinese che gli sfruttatori stanno costruendo in nome della lotta contro il Nemico (facendo credere che questo giunga da un altrove lontano, quando invece è alla guida dei lavori).
La cittadella del Partito è oggi quella telematica, il suo Ministero della Verità sono i mass media; i suoi dogmi, eterni lo spazio di una notte, hanno tutti il suono dolce dell’incertezza. Dalle multinazionali al sistema bancario, dal nucleare agli eserciti, due sono le basi della tecnoburocrazia: l’energia e l’informazione. Chi le controlla, controlla il tempo e lo spazio.
Fuori dalla massa di tecnici-operai senza qualificazione, sono sempre di meno i possessori del sapere altamente specializzato; ma alle conseguenze di questo sapere — prima fra tutte l’impoverimento delle idee e delle parole — partecipiamo tutti. Anzi, lo scopo dei tecnoburocrati e dei loro giornalisti è proprio quello di farci sentire responsabili del disastro che essi producono quotidianamente: il noi che ci rivolgono senza sosta è un comando di fratellanza nell’abiezione. Ci invitano a discutere ogni finto problema, ci accordano il diritto di esprimerci, dopo averci privato della facoltà di farlo. Per questo ogni ideologia della partecipazione democratica (combattere l’"esclusione" è il programma di sinistra del capitale) non è che complicità nel disastro. Proprio come in 1984, gli odierni proletari hanno un sapere, una memoria e un linguaggio separati da quelli del partito; solo sulla base di questa separazione essi hanno il diritto e il dovere di partecipare all’ordine sociale. La differenza è che in Orwell sono i non-funzionari i soli ad avere accesso ad un passato — luoghi, oggetti, canzoni, eccetera — non ancora cancellato. E questo perché essi hanno ancora dei legami sociali, sia pure all’ombra delle bombe. Ma cosa rimane di questi legami quando il Partito (cioè il sistema statal-capitalista) si appropria dell’intera vita sociale?
Ecco perché in queste pagine sugli indesiderabili si parla allo stesso tempo di tecnologia. Una critica del progresso tecnologico che abbandoni il discorso di classe ci sembra altrettanto parziale di una critica della precarietà che non affronti le nuove forme e i nuovi territori dello spossessamento tecnico-scientifico.
La divisione in due mondi che stanno costruendo potrebbe togliere ogni senso alla rivolta: come desiderare una vita altra quando ne sarà scomparsa ogni traccia?
UN'IDRA A DUE TESTE
Sono in molti ormai, fra i democratici radicali e il "popolo della sinistra", ad attribuire allo Stato un ruolo puramente decorativo nelle decisioni prese sulla nostra pelle. Si individua, in sostanza, una gerarchia mondiale che vede al vertice le grandi potenze finanziarie e le multinazionali e, sui gradini più bassi, i singoli Stati nazionali che diventano sempre di più dei valletti, dei semplici esecutori di decisioni inappellabili. Questo conduce ad una illusione che sta avendo le peggiori conseguenze. In molti, infatti, stanno tentando di imporre alle lotte, che in tutto il pianeta si sviluppano contro i singoli aspetti della "globalizzazione", un indirizzo riformista e in qualche maniera nostalgico: la difesa del "buon" vecchio capitalismo nazionale e, parallelamente, la difesa del vecchio modello di intervento dello Stato nell’economia. Nessuno osserva, però, che le teorie ultra-liberiste tanto alla moda di questi tempi e quelle keynesiane, di moda fino a qualche anno fa, propongono semplicemente due diverse organizzazioni dello sfruttamento.
Certo, non si può negare che allo stato attuale delle cose tutta la nostra vita venga determinata in funzione di necessità economiche "globali", ma questo non significa che la politica abbia perso la sua nocività. Pensare allo Stato come ad un’entità ormai fittizia, o esclusivamente come al regolamentatore dello sfruttamento e dei conflitti sociali, è quanto meno limitante. Esso è un capitalista tra i capitalisti e tra questi assolve delle funzioni vitali per tutti gli altri. Non di meno, la sua burocrazia, legata ma non subordinata ai quadri dell’impresa, tende innanzitutto a riprodurre il proprio potere. Lo Stato, preparando il terreno al capitale, sviluppa allo stesso tempo se stesso. Il progressivo abbattimento delle barriere di tempo e di spazio — condizione essenziale della nuova forma di dominio capitalista — è predisposto dalle strutture statali, le quali mettono a disposizione territori, fondi e ricerca. La possibilità di far viaggiare sempre più velocemente le merci, per esempio, è data dallo sviluppo delle reti autostradali, dell’Alta Velocità ferroviaria, del sistema dei porti e degli aeroporti: senza queste strutture, organizzate dagli Stati, la "globalizzazione" non sarebbe neanche pensabile. Nello stesso modo, le reti informatiche non sono altro che un utilizzo nuovo dei vecchi cavi telefonici: ogni innovazione nel settore (comunicazioni via satellite, fibre ottiche, ecc.) viene curata, ancora una volta, dalla struttura statale. È in questa maniera, dunque, che viene soddisfatta anche l’altra necessità basilare dell’economia mondializzata, la possibilità di far viaggiare dati e capitali in pochi istanti. Anche dal punto di vista della ricerca, del continuo ammodernamento delle tecnologie, gli Stati hanno un ruolo centrale. Dal nucleare alla cibernetica, dallo studio dei nuovi materiali all’ingegneria genetica, dall’elettronica alle telecomunicazioni, lo sviluppo della potenza tecnica è legato alla fusione dell’apparato industriale e scientifico con quello militare.
Come tutti sanno, il capitale ha bisogno di tanto in tanto di ristrutturarsi, cioè di cambiare gli impianti, i ritmi, le qualificazioni e quindi i rapporti tra i lavoratori. Spesso questi mutamenti sono tanto radicali (licenziamenti di massa, cadenze infernali, riduzione drastica delle garanzie) da mettere in crisi la stabilità sociale e da richiedere, obbligatoriamente, degli interventi di tipo politico. A volte le tensioni sociali sono talmente forti, la polizia sindacale così impotente e le ristrutturazioni tanto impellenti, da non suggerire agli Stati altra possibilità che la guerra. Attraverso questa non solo si indirizza la rabbia verso nemici fittizi (i "diversi" per etnia o religione, per esempio), ma si riesce a rivitalizzare l’economia: la militarizzazione del lavoro, le commesse di armi e l’abbassamento dei salari fanno fruttare al massimo i resti del vecchio sistema industriale, mentre le distruzioni generalizzate fanno posto ad un apparato produttivo moderno e agli investimenti stranieri. Per gli indesiderabili — gli sfruttati irrequieti e in sovrannumero — l’intervento sociale dello Stato si fa più spiccio: lo sterminio.
Una delle caratteristiche del nostro tempo è il sempre più massiccio flusso migratorio verso le metropoli occidentali. Le politiche dell’immigrazione — per sommi capi, l’alternarsi di sanatorie e di chiusura delle frontiere — non sono determinate da un presunto buon cuore dei governanti, ma dal tentativo di gestire una situazione che è sempre più ingestibile e, nel contempo, di trarne profitto. Da una parte non è possibile chiudere ermeticamente le frontiere e dall’altra una seppur piccola percentuale di migranti è utile — specie se clandestini e quindi più ricattabili — perché rappresenta un buon serbatoio di forza lavoro a basso costo. Ma la clandestinità di massa crea turbolenze sociali che sono difficilmente controllabili. I governi devono navigare tra queste necessità, il buon funzionamento della macchina economica ne dipende.
Così come il mercato mondiale unifica le condizioni di sfruttamento senza eliminare la concorrenza tra capitalisti, allo stesso modo esiste una potenza pluristatale che coordina i progetti di dominio senza cancellare la competizione politica e militare tra i singoli governi. Gli accordi economici e finanziari, le leggi sulla flessibilità del lavoro, il ruolo dei sindacati, il coordinamento degli eserciti e delle polizie, la gestione ecologica delle nocività, la repressione del dissenso — tutto ciò viene definito a livello internazionale. La messa in pratica di queste decisioni spetta tuttavia ad ogni governo, il quale deve rivelarsi all’altezza del compito. Il corpo di questa idra sono le strutture tecnoburocratiche. Non solo le esigenze del mercato si sono fuse con quelle del controllo sociale, ma utilizzano le stesse "reti". Per esempio il sistema bancario, assicurativo, medico e poliziesco si scambiano continuamente i propri dati. L’onnipresenza di tessere magnetiche realizza una schedatura generalizzata dei gusti, degli acquisti, degli spostamenti, delle abitudini. Tutto ciò sotto gli occhi di telecamere sempre più diffuse e in mezzo a telefoni cellulari che mimano la versione virtuale e anch’essa schedata di una comunicazione umana che non c’è. Neoliberismo o meno, l’intervento dello Stato sul territorio e nelle nostre vite è sempre più capillare senza tuttavia essere separato dalle strutture di produzione, distribuzione e riproduzione del capitale.
La presunta gerarchia fra il potere delle multinazionali e quello degli Stati, di fatto, non esiste, perché sono allo stesso titolo parte di quell’unica potenza inorganica che sta muovendo guerra all’autonomia degli uomini e alla vita della Terra.
La storia del capitalismo moderno si è aperta con un’immensa insurrezione di operai e artigiani che rifiutavano di fabbricare oggetti di pessima qualità e di non poter controllare le macchine e la produzione. Era il 1811, in Inghilterra, e gli insorti si chiamavano luddisti. La loro organizzazione spontanea ed informale, che attraversava città e campagna, era estesa a tutti i lavoratori senza distinzioni di mestiere. Passarono alla storia per la distruzione a colpi di mazza dei macchinari industriali e per la potente congiura di una popolazione che la polizia non riusciva a "far cantare". I "criminali", grazie alla complicità dell’anonimato, erano ovunque e in nessun luogo. L’esercito non bastava per ristabilire l’ordine: ci vollero per gli uni il controllo dei sindacati e il ricatto delle elezioni, per gli altri la forca. Le macchine distruggevano la loro comunità: loro distruggevano le macchine. Volevano decidere assieme dei loro rapporti ed erano fieri delle loro mani, non ancora ridotte a protesi del capitale.
In questa società nociva e moribonda, la tecnologia non solo spinge all’emigrazione e alla precarietà, avvelena l’aria e i cibi, collega i padroni, i loro saperi e le loro polizie; essa serve anche a controllare i poveri, ad uniformare i comportamenti, a reprimere la rivolta. Oggi come ieri essa è il centro dello spossessamento capitalista; riduce le capacità umane ed aumenta la concorrenza, sradica i poveri e li isola, spia gli irrequieti, terrorizza i clandestini, denuncia i fuorilegge. L’integrazione che impone è in realtà un’accumulazione di ghetti.
È tornato il tempo di attaccare i mille nodi della nostra miseria e della nostra sottomissione - nuovi colpi di mazza per un luddismo ancora più lucido e radicale. Fratelli e sorelle, è tornato il tempo di una nuova solidarietà anonima e sediziosa, senza capi né mediatori. Il tempo di una nuova congiura.
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