Titolo: CIVILTÀ ALL’INGROSSO
Autore: David Watson
Note: [Da "Diavolo in corpo - Rivista di critica sociale", n. 3 - novembre 2000]

Avendo avuto il privilegio di vivere per un certo tempo in Brasile fra una popolazione rimasta all’età della pietra, un ipercivilizzato europeo di considerevole erudizione scrisse successivamente: «La civiltà non è più un gracile fiore, da venire conservato con cura e fatto crescere con grande difficoltà qui e là in angoli riparati. Tutto questo è finito: l’umanità è arrivata alla monocultura, una volta per sempre, e si sta preparando a produrre la civiltà all’ingrosso, come se si trattasse di barbabietole da zucchero. Ogni giorno ci verrà servito lo stesso piatto».

Queste parole vennero scritte nel 1955. Ora che la civiltà sta divorando l’intero pianeta, l’immagine del gracile fiore è ampiamente appassita. Alcuni degli abitanti della civiltà stanno ricordando che l’immagine è sempre stata una menzogna; altre maniere di vedere il mondo vengono riscoperte. Vengono riesaminate contro-tradizioni, escogitate vie di fuga, forgiate armi. Per dirla in un altro modo, uno spettro infesta la vecchia attrezzatura mentre sbuffa in profondità dentro la palude che ha creato: lo spettro del mondo primitivo.

Escogitare scappatoie e reperire armi non è un compito semplice: false partenze e materiale povero. I vecchi sentieri sono asfaltati e i materiali che provengono dall’arsenale del nemico tendono ad esplodere nelle nostre mani. La memoria e il desiderio sono stati soppressi e deformati; stiamo stati tutti inculcati nella Storia ufficiale. Il suo nome è Progresso, e il sogno del progresso continua ad alimentare l’espansione globale della civiltà ovunque, trasformando gli esseri umani in pupazzi meccanici e autodistruttivi, la natura in una collezione di statue morte. La Storia ufficiale si può trovare in ogni testo di storia ufficiale per bambini. Prima della genesi (vale a dire, prima della civiltà), non c’era nulla a parte un vasto, oceanico caos, oscuro e terribile, brutale e nomade, una lotta sanguinaria per l’esistenza. Alla fine, attraverso il grande sforzo di un pugno di uomini, alcuni anonimi, altri celebrati, l’umanità emerse dal fango, dagli alberi, dalle caverne, da tende e da interminabili vagabondaggi in un rado e pericoloso deserto per compiere fantastici miglioramenti nella vita. Tali miglioramenti derivarono dal dominio di animali, piante e minerali; lo sfruttamento di finora trascurate risorse; gli splendori dell’alta cultura e della religione; e i miracoli delle tecniche al servizio dell’autorità centralizzata.

Questa solenne panoplia di meraviglie prese forma sotto l’egida della città-Stato e dietro le sue mura fortificate. Attraverso i millenni, la civiltà lottò per sopravvivere in mezzo a una tempesta di barbarie, resistendo al venir inghiottita dall’ululante selvatichezza. Poi un altro "Grande salto in avanti" avvenne in alcuni regni eletti e consacrati di ciò che si soleva chiamare "Occidente" ed il mondo moderno nacque: il lume della ragione scientifica accompagnò nell’esplorazione e nella scoperta della selvatichezza, interna (fisica) ed esterna (geografica). Nei murali ufficiali del regno, gli Scopritori appaiono da un lato, in piedi orgogliosamente sulle loro navi, telescopi e sestanti in mano; dall’altro lato aspetta il mondo, una bella addormentata pronta a svegliarsi e ad unirsi al potente marito nel letto matrimoniale della natura e della ragione.

Finalmente arrivò la prole di questa rivoluzione: invenzione, meccanizzazione, industrializzazione, ed infine la maturità scientifica, sociale e politica, una società di massa democratica ed una abbondanza di prodotti di massa. Certo, qualche difetto resta da risolvere — contaminazione onnipresente, tecnologia incontrollata, fame e guerra (soprattutto nelle "periferie" non civilizzate), ma la civiltà adora le sue sfide, e prevede che tutte queste aberrazioni verranno riportate sotto controllo, razionalizzate attraverso la tecnica, ridisegnate per «servire i bisogni umani», ora e per sempre, amen. La storia è una locomotiva luccicante che corre sulle rotaie — verso la Terra Promessa. E quali che siano i pericoli, non ci può essere nessuna retromarcia.

Una falsa svolta

Ma ora che diverse generazioni sono state cresciute con la pappa della monocultura, la civiltà sta cominciando a venir guardata non tanto come una promessa ancora da soddisfare pienamente quanto come un cattivo adattamento delle specie, una falsa svolta o un tipo di febbre che minaccia il tessuto planetario della vita. Come faceva notare una volta un mite ribelle della Storia, «Noi non viaggiamo sopra la ferrovia; essa viaggia sopra di noi». La crisi attuale, che sta avvenendo ad ogni livello, dall’ecosfera al sociale al personale, è diventata troppo manifesta, troppo angosciosa, per essere ignorata. Lo spettro che infesta la civiltà moderna, un tempo solo un senso di perdita, adesso ha partigiani aperti che hanno fatto propria la critica teorica e pratica della civiltà.

Così, iniziamo a riesaminare il nostro elenco di capitoli non dal punto di vista dei conquistatori ma da quello dei conquistati: gli schiavi schiacciati sotto la costruzione di templi o gasati nelle trincee, i fiumi dragati e arginati, le foreste spianate, gli esseri immobilizzati sui tavoli da laboratorio. Quale voce può parlare per loro meglio di quella primitiva? Una simile critica del «mondo moderno visto con gli occhi di un uomo del pleistocene», una simile «sorta di visione geologica», come la definiscono gli indigeni autori del documento Haudenosaunee 1977 (Irochesi), un Richiamo fondamentale alla coscienza [di cui esiste una traduzione italiana, Per un risveglio della coscienza, Edizioni La Fiaccola, 1986, ndt], fa saltare immediatamente la grande Menzogna conquistatrice riguardo il "sottosviluppo" e la "brutalità" della società primitiva, la loro denigrazione della preistoria.

La menzogna è stata più recentemente erosa non solo da un maggiore accesso alle vedute dei popoli primitivi e dei loro discendenti nativi che stanno attualmente lottando per sopravvivere, ma da una più critica e non eurocentrica antropologia desiderosa di sfidare la propria storia, le premesse e il privilegio. La società primitiva, con le sue miriadi di variazioni, è il retaggio comune a tutte le popolazioni. Da essa, noi possiamo dedurre che gli esseri umani vivono circa il 99% della loro esistenza come specie. (E anche buona parte dell’altro 1% concerne l’esperienza di tribù e di altre comunità vernacolari che resistono alla conquista e al controllo in modi creativi, se non idiosincratici).

Osservando con nuovi/antichi occhi il mondo primitivo, vediamo un tessuto di società autonome, splendidamente diverse ma che condividono alcune caratteristiche. La società primitiva è stata definita «la società opulenta originale», opulenta perché i suoi bisogni sono pochi, tutti i suoi desideri vengono facilmente appagati. La sua attrezzatura è elegante e leggera, la sua prospettiva linguisticamente complessa e concettualmente profonda eppure semplice e accessibile a tutti. La sua cultura è espansiva ed estatica. È senza proprietà e comunale, egualitaria e cooperativa. Come la natura, essa è essenzialmente senza autorità: né patriarcale né matriarcale, è anarchica, il che equivale a dire che nessun arconte o dominatore ha costruito o occupato la scena centrale. Piuttosto è una costellazione organica di persone, ognuna unica.

Una società libera dal lavoro

È anche una società libera dal lavoro; non ha nessuna economia o produzione per sé, tranne lo scambio dei doni e una specie di gioco rituale che contribuisce anche a creare mezzi di sussistenza (sebbene sia una società capace occasionalmente di sperimentare la fame senza perdere i propri aspetti spirituali, a volte persino di scegliere la fame per accrescere i rapporti, per giocare o per avere visioni). Sul Haudenosaunee, ad esempio, è scritto che «Gli Hau de no sau nee non hanno istituzioni economiche specifiche, così come non hanno istituzioni politiche distinte». Inoltre, l’attività di sussistenza della società Hau de no sau nee «al di fuori della nostra definizione culturale, non è del tutto un’economia». Quindi, la pienezza della società primitiva risiede nei suoi diversi rapporti simbolici, personali e naturali, non in artefatti. È una società danzante, una società cantante, una società celebrante, una società sognante. La sua filosofia e pratica di ciò che viene chiamato animismo — articolazione mitopoetica dell’unità organica della vita scoperta solo di recente dagli ecologisti occidentali — proteggono la terra trattando le sue molteplici forme come esseri sacri, ognuno con una propria integrità e soggettività. La società primitiva afferma la comunità con tutto il mondo naturale e sociale.

In qualche modo questo mondo primitivo, un mondo (come è stato osservato da Lewis Mumford) più o meno corrispondente all’antica visione dell’Età dell’oro, si scioglie non appena emergono le istituzioni del potere sovrano e della società di classe. Come sia accaduto è una cosa che rimane a noi sconosciuta oggi. Forse non comprenderemo mai pienamente il mistero di quella originale mutazione da una società egualitaria a una statale. Certamente, nessuna spiegazione standard è adeguata.

«Questa discontinuità radicale — nelle parole di Pierre Clastres — quell’apparizione misteriosa, irreversibile, mortale per le società primitive, a cui diamo il nome di Stato», come si è realizzata?

La società primitiva manteneva il proprio equilibrio ed il proprio egualitarismo perché rifiutava il potere, rifiutava la proprietà. Il potere sovrano non è potuto emergere dal capo perché il capo non aveva potere sugli altri. Clastres insiste: «la società primitiva è il luogo del rifiuto di un potere separato, perché essa stessa, e non il capo, è il luogo reale del potere».

Può darsi che saremmo in grado di avvicinare questa dissoluzione della comunità originale in maniera appropriata solo attraverso il linguaggio mitico come quello che avrebbero usato gli Anziani. Dopo tutto, solo una storia poetica saprebbe esprimere con intensità una simile tragica perdita di equilibrio. La potenzialità latente del potere e della tecnica di emergere come ambiti separati era stata precedentemente tenuta a bada dal ciclo del dono, dalle «tecniche del sacro» e dall’alto livello di individuazione dei membri della società.

I popoli primitivi, secondo Clastres, «ben presto hanno avvertito che la trascendenza del potere racchiude, per il gruppo, un rischio mortale, che il principio di un’autorità esterna e creatrice della propria legalità è contestazione della cultura stessa — ed è l’intuizione di questa minaccia che ha conferito profondità alla loro filosofia politica. Infatti, scoprendo la grande affinità del potere con la natura, in quanto duplice limitazione dell’universo della cultura, le società indiane hanno saputo inventare un mezzo per neutralizzare la virulenza dell’autorità politica».

In effetti, con questo stesso processo i popoli primitivi neutralizzavano la potenziale virulenza della tecnica: minimizzavano il relativo peso delle tecniche strumentali o pratiche ed espandevano l’importanza delle tecniche del vedere: tecniche estatiche. Lo sciamano è, nelle parole di Jerome Rotherberg, un «tecnico» dell’estasi, un «protopoeta» le cui «tecniche dipendono dalla creazione di speciali circostanze linguistiche, vale a dire di canzoni e di invocazioni». La tecnologia, come il potere, viene in questo modo rifiutata dalla dinamica dei rapporti sociali primitivi. Ma quando la tecnica e il potere emergono come funzioni separate invece che come fili inestricabilmente intrecciati nella fabbricazione della società, ogni cosa comincia a dividersi. «La non intenzionale escrescenza che è cresciuta fuori dalle comunità umane e poi le ha liquidate», come veniva chiamata da Fredy Perlman, ha fatto la sua apparizione. Una magia diventata pazza furiosa, una cosa simile a un golem che sopravvive ai suoi fabbricatori: in qualche modo il ciclo del dono è spezzato; il cerchio, il circolo, rotto.

La comunità, sostiene Clastres, «ha cessato di esorcizzare ciò che è destinato a ucciderla: il potere e il rispetto del potere». Avviene una specie di rivoluzione o di controrivoluzione: «Quando, nella società primitiva, il fatto economico è reperibile come campo autonomo e definitivo, quando l’attività produttiva diventa lavoro alienato, contabilizzato e imposto da coloro che godranno i frutti di quel lavoro, vuol dire che la società non è più primitiva, che è diventata una società divisa in dominatori e dominati, in signori e sudditi. (...) La relazione politica del potere precede e fonda la relazione economica di sfruttamento. Prima di essere economica, l’alienazione è politica, il potere è prima del lavoro, l’economico deriva dal politico, l’emergere dello Stato determina l’apparizione delle classi».

L’emergere dell’autorità, della produzione e della tecnologia sono tutti momenti interni ad un unico processo. In precedenza, il potere non risiedeva in nessuna sfera separata, ma piuttosto all’interno del circolo — un circolo che includeva tutta la comunità umana e la natura (stirpe non umana). "La produzione" e "l’economico" erano allo stesso modo non divisi; erano parte integrante del circolo attraverso la condivisione del dono che trascende e neutralizza l’artificialità o "l’esser cosa" degli oggetti che passavano da una persona all’altra. (Essendo considerati persone — persino stirpe — animali, piante e oggetti naturali, la sussistenza non è mai né lavoro né produzione, ma piuttosto dono, dramma, venerazione, fantasticheria). Anche la tecnica ha dovuto essere integrata nei rapporti fra stirpe, e quindi aperta, partecipativa, ed accessibile a tutti; oppure essa era interamente personale, singolare, visionaria, unica e non trasferibile.

L’equilibrio esploso

La «grande affinità del potere con la natura», come ha detto ancora Clastres, spiega la profonda spaccatura tra di loro quando il potere divide e polarizza la comunità. Per la comunità primitiva, per seguire il ragionamento di Mircea Eliade, «il mondo è contemporaneamente "aperto" e misterioso. La "natura" contemporaneamente svela e "camuffa" il "sovrannaturale" [che] costituisce il mistero fondamentale ed imperscrutabile del Mondo». La coscienza mitica apprende ed interviene nel mondo, partecipa in esso, ma questo non necessita un rapporto di dominio; ciò «non vuol dire che si sono trasformate [le realtà cosmiche] in "oggetti di conoscenza". Queste realtà mantengono ancora la loro condizione ontologica originale».

Il trauma dello squilibrio ha fatto saltare ciò che femministe pagane contemporanee hanno chiamato «potere interno» ed ha generato «potere sopra». Ciò che una volta era mutualità diventa gerarchia. In questa trasformazione, lo scambio del dono scompare; lo scambio del dono con la natura scompare con esso. Ciò che veniva condiviso diventa ora accumulato: il mistero a cui una volta ci si abbandonava diventa ora un territorio da conquistare. Tutte le storie delle origini diventano storie delle origini del Padrone. L’origine del Mondo viene raccontata di nuovo come l’origine dello Stato.

La donna, che attraverso il processo di nascita esemplifica tutto della natura e che mantiene il processo della vita attraverso la sua attività quotidiana di allevamento di piante, animali e bambini, viene soppressa dal nuovo eroe trasformatore. Il potere maschile, cercando di rivaleggiare con la fecondità femminile, simula la fecondità della nascita e della natura attraverso la manifattura di artefatti e di monumenti. Il ventre — un contenitore primordiale, un cesto o una scodella — viene ricostruito dal potere dentro le mura della città.

«Così», come dice Frederick W. Turner in Beyond Geography: The Western Spirit Against the Wilderness, lo «sviluppo della civiltà può essere visto non tanto come il trionfo di una porzione progressiva della razza sopra le sue umili origini legate alla natura, quanto come un severo e aggressivo voltafaccia contro tutta la natura non corretta, la cui eco risuonerà ancora millenni dopo quando gli uomini civilizzati incontreranno ancora una volta la sfida della selvatichezza oltre le mura delle loro città».

Nessuna spiegazione e nessuna speculazione possono racchiudere la serie di eventi che hanno fatto esplodere la comunità e generato la società di classe e lo Stato. Ma il risultato è relativamente chiaro: l’istituzionalizzazione delle élite gerarchiche e l’ingrato lavoro degli spossessati per sostenerle, la monocultura per nutrire le loro bande armate, l’organizzazione della società in battaglioni di lavoro, l’accumulazione, la tassazione e i rapporti economici, e la riduzione della comunità organica in risorse prive di vita da venir sfruttate e manipolate dall’arconte e dalle sue istituzioni.

Le «caratteristiche primarie» di questa nuova società statale, scrive Mumford, «costanti in varie proporzioni attraverso la storia, sono la centralizzazione del potere politico, la separazione delle classi, la divisione del lavoro nell’arco della vita, la meccanizzazione della produzione, l’esaltazione della forza militare, lo sfruttamento economico dei deboli, e l’introduzione universale della schiavitù e del lavoro forzato per scopi sia industriali che militari».

In altre parole, una megamacchina dotata di due braccia principali, una macchina da lavoro e una macchina militare.

La cristallizzazione di una comunità fluida e organica in una pseudocomunità, una macchina gigante, è stata di fatto la prima macchina, la definizione base di ciò che, nota Mumford, è «una combinazione di parti resistenti, operanti sotto il controllo umano, ognuna specializzata in funzione di utilizzare energia e di eseguire il lavoro». Quindi, continua, «i due poli della civiltà allora, sono il lavoro meccanicamente organizzato e la distruzione e lo sterminio meccanicamente organizzati. Difficilmente le stesse forze e gli stessi metodi di operazione [sono] applicabili in entrambe le aree». Nella visione di Mumford, il più grande strascico di questo sistema è stato «il mito della macchina» — la convinzione che essa è irresistibile oltre che sostanzialmente benefica. Questa meccanizzazione degli esseri umani, egli scrive, «ha di molto preceduto la meccanizzazione dei loro strumenti lavorativi. Ma una volta concepito, questo nuovo meccanismo si è diffuso rapidamente, non solo venendo imitato per autodifesa, ma venendo imposto con la forza».

Si può qui vedere la differenza fra un genere di tecniche implicite in una società egualitaria e le tecniche relative al potere. Come sostiene Mumford, le persone «di ordinaria capacità, contando solo sulla forza muscolare e sull’abilità tradizionale, erano capaci di eseguire una vasta varietà di mansioni, incluse l’arte delle ceramiche e la manifattura e la tessitura, senza alcuna direttiva esterna o guida scientifica, oltre a quella disponibile nella tradizione della comunità locale. Non è così per la megamacchina. Solo i re, aiutati dalla disciplina della scienza astronomica e sostenuti dalle sanzioni della religione, avevano la capacità di unire e dirigere la megamacchina. Questa era una struttura invisibile composta da parti umane viventi, ma rigide, ognuna delle quali era assegnata al suo speciale ufficio, ruolo e mansione, per rendere possibile l’immenso rendimento e l’enorme progetto di questa grande organizzazione collettiva».

Civiltà come gulag

Nella sua intuitiva storia della megamacchina, Fredy Perlman descrive come un «Ensi» sumero, o sorvegliante, in mancanza delle razionalizzazioni dell’ideologia del Progresso che sono abitualmente impiegate per vaccinarci contro la nostra selvatichezza, possa vedere il colosso appena uscito:

«Può pensare a lui come ad un verme, un gigantesco verme, non ad un verme vivente ma ad una carcassa di verme, un cadavere mostruoso, il suo corpo consistente di numerosi frammenti, la sua pelle foruncolosa di aste e ruote ed altri apparecchi tecnologici. Egli sa per propria esperienza che l’intera carcassa è portata alla vita artificiale dai movimenti degli esseri umani che vi sono intrappolati dentro, gli zeks che azionano le aste e le ruote, proprio come sa che la testa del cadavere è azionata da un semplice zek, lo zek della testa».

Non è un caso se Fredy ha scelto la parola zek — che significa prigioniero del gulag — che ha trovato nell’opera di Solgenitsyn. Non è stato solo per enfatizzare il fatto che la civiltà è stata un campo di lavori forzati fin dalle sue origini, ma per illuminare i parallelismi fra le antiche forme embrionali e la moderna macchina lavorativa globale che sta attualmente soffocando la terra. Mentre le differenze in importanza e in sviluppo storico sono profonde abbastanza per dar conto di contrasti significativi, elementi essenziali condivisi da entrambi i sistemi — elementi sottolineati sopra — collocano entrambe le civiltà in una polarità con la comunità primitiva. Ad una estremità si trova la comunità organica: un organismo, nella forma di un circolo, una tela tessuta dentro la struttura della natura. Tutto il resto è civiltà: non più un organismo ma frammenti organici ricostituiti come macchina, come organizzazione; non più un circolo ma una piramide rigida di gerarchie opprimenti; non un tessuto ma una griglia che espande il territorio dell’inorganico.

Secondo la storia ufficiale, questa griglia è il risultato naturale di una evoluzione inevitabile. Quindi la storia naturale non è un pluriverso di potenzialità ma piuttosto una progressione lineare dal furto del fuoco di Prometeo al Fondo monetario internazionale. Più di un milione di anni di vita di specie sperimentate in comunità organiche sono rimosse come una sorta di periodo d’attesa in anticipo sui pochi millenni di anni di grandeur imperiale che seguiranno. Le società primitive restanti, anche ora trascinate per i capelli dentro l’orbita della civiltà lungo la sua frontiera bagnata di sangue, vengono respinte come fossili viventi («prive di promesse evolutive», secondo la definizione di un filosofo), in attesa della loro gloriosa iscrizione nella macchina mirabile.

Quindi, come sostiene Fredy Perlman, l’imperialismo è ben lontano dall’essere l’ultimo stadio della civiltà ma è iscritto nei primi stadi dello Stato e della società di classe. Così c’è sempre una brutale frontiera dove c’è impero e sempre impero dove c’è civiltà. L’instabilità e la rapidità di cambiamento così come la violenza e la distruttività del cambiamento, entrambe smentiscono il proclama dell’impero sulla legittimità naturale, suggerendo ancora una volta una svolta evolutiva sbagliata, uno squilibrio profondamente esteso. La frontiera si espande lungo due assi intersecanti, centrifugo e centripeto. Nelle parole di Stanley Diamond, «La civiltà nasce con la conquista all’estero e la repressione a casa. Ognuno è un aspetto dell’altro». Così all’apparenza, l’impero è espresso geograficamente (nord Canada, Malesia, Amazzonia, etc; i fondali dell’oceano, persino lo spazio esterno) e biosfericamente (disgregamento del tempo e del clima, estesi esperimenti chimici nell’aria e nell’acqua, eliminazione e semplificazione degli ecosistemi, manipolazione genetica).

Ma il processo è replicato interiormente allo spirito umano; ogni zek trova un impero in miniatura «legato» al sistema nervoso. Così, è repressione naturalizzata la crisi permanente nel carattere e la piaga autoritaria legittimata. Inizia con l’impaurita obbedienza all’arconte o al patriarca, poi si sposta a mo’ di proiezione verso un violento, intorpidito rifiuto della soggettività vivente e dell’integrità dell’altro — sia che si trovi in natura, nella donna, o in popolazioni sottomesse.

Ad una estremità della piramide gerarchica sta il potere assoluto; all’altra, la sottomissione mescolata all’isolamento, la frammentazione e la rabbia. Tutto viene giustificato dall’ideologia del Progresso — conquista e soggezione dei popoli, devastazione delle terre e zone sacrificali per l’impero, autorepressione, dipendenza di massa dalle cariche dell’impero, materializzazione della cultura. L’ideologia mantiene operanti le macchine del lavoro e della guerra. Infine, questo vortice porta alla quasi completa reificazione della natura. Ogni rapporto è sempre più strumentalizzato e tecnicizzato. La meccanizzazione e l’industrializzazione hanno rapidamente trasformato il pianeta, facendo saltare gli ecosistemi e le comunità umane con la monocultura, la degradazione industriale e i mercati di massa. Il mondo adesso corrisponde da vicino più ai profetici avvertimenti dei popoli primitivi che ai falsi proclami pubblicitari del sistema industriale: le piante stanno scomparendo e gli animali stanno morendo, i terreni sono spogli come lo spirito umano, vasti oceani avvelenati, la pioggia è diventata corrosiva e mortale, le comunità umane sono in guerra le une contro le altre per bottini in via di sparizione — e tutto si trova in equilibrio sull’orlo di un annichilimento anche maggiore alla mercé di alcuni pulsanti a portata di mano di teste di zek, rachitici e mezzi morti, in bunker fortificati. Il binario della civiltà conduce non solo all’ecocidio, ma ad un suicidio evolutivo. Ogni impero vacilla verso l’oblio che fabbrica, e sarà alla fine ricoperto di sabbia. Può un mondo che vale la pena di essere abitato sopravvivere alla rovina che rimarrà?

 
 

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