Negli anni che hanno accompagnato la decomposizione dei regimi burocratici dell’Est, alcuni cantori della nostra civiltà hanno coniato la definizione dell’ultima illusione collettiva che ha segnato la vita occidentale. Quella definizione — e chi se ne ricorda ancora? — era fine della Storia. Non solo la vittoria del capitalismo liberale contro il capitalismo di Stato, a torto chiamato comunismo, ma l’idea che da questa vittoria sarebbe nato un mondo definitivamente pacificato, immemore degli orrori passati, delle guerre e delle stragi. Un mondo felice, forse solo un po’ annoiato; l’avvento planetario della civiltà, dopo secoli di sangue. Questa idea ha vissuto alterne fortune per qualche tempo, a scapito di quei pochi che ancora vedevano l’orrore proprio dentro questa civiltà e di quei tanti che questo orrore quotidiano della civiltà se lo sono visto tatuare per sempre sulla pelle. Mentre i più ingenui tra gli interessati al mantenimento dell’ordine del mondo dormivano notti tranquille sulla fine della Storia, una parte non piccola di quelli che la storia la volevano rimettere in moto sognavano altrettanto placidamente. Epigoni fuori tempo massimo del positivismo, anche questi si erano in fondo convinti dell’ineluttabilità del progresso civile. Si doveva ancora lottare duro per cambiare il mondo, ma l’avversario non era sanguinario come un tempo: si era posto alcuni limiti invalicabili di correttezza, se non di umanità. E le bestie peggiori del passato, quelle nascoste in qualche angolo della coscienza di ciascuno di noi — e non solo in quella dell’avversario —, promettevano di non riaffacciarsi più. Civili gli sfruttatori, irreprensibili gli sfruttati.

Ma è stata sufficiente una sola parola a segnare le esequie di queste due brevi illusioni moderne. Provate a dire «Bosnia» , e tutto quel che si credeva sepolto per sempre ricompare oltre le siepi del nostro giardino. La Bosnia è la misura di quanto sangue ancora pretende il capitale, mentre ci ripete quel che non vorremmo sapere: per quanto avanzi la Storia o per quanto si arresti, viviamo sempre sul filo dell’orrore.

Quanto è lontana la Jugoslavia?

Come era prevedibile, alla Bosnia è seguito il Kosovo e al Kosovo seguirà forse la Macedonia, in una stretta sequenza di massacri che ci fa tremare i polsi. Da Sarajevo in poi, i responsabili del macello jugoslavo hanno cercato di nascondere il proprio ruolo negli avvenimenti, hanno scaricato di volta in volta ogni colpa sui sanguinari condottieri balcanici e sono arrivati a definire intervento umanitario i bombardamenti Nato. Dall’altra parte, invece, ognuno ha cercato un porto sicuro contro le tempeste della propria coscienza e tanti dei «no alla guerra!» urlati fino allo sfinimento sono serviti solo a coprire l’impotenza di fronte ad avvenimenti tanto paurosamente vicini ed incomprensibili.

In cerca di una certezza qualsiasi, in molti hanno dato ascolto agli orfani del Vietnam e del Nicaragua, che hanno dipinto quello serbo come un piccolo popolo aggredito e deciso a difendere armi in pugno quel che resta del socialismo. Di qui gli improponibili slogan antimperialisti sui muri e gli elogi postumi a Tito. Altri hanno invocato la diplomazia e la politica, vale a dire la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Altri ancora hanno pensato di scampare all’orrore rifugiandosi nelle chiese a pregare il dio nel nome del quale vengono commessi i peggiori misfatti. Queste impostazioni non sono soltanto i frutti dell’incontro fecondo tra stalinismo e cristianesimo, sono modi come altri per tenere lontana la Jugoslavia dalle nostre case.

Sin dal suo inizio, sono stati proprio gli interpreti e commentatori salariati della politica internazionale a svelare le singole ragioni di questa ultima guerra jugoslava e dell’intervento occidentale. Gli elementi del conflitto sono stati pazientemente elencati, quelli geopolitici e quelli economici; nessun forzato della controinformazione ha scoperto verità nascoste e determinanti. Di questa guerra si è detto tutto fuorché l’essenziale, quel che nessun ulteriore elenco di dati riesce a dirci. Se vogliamo tentare di dare una lettura della cancrena diffusasi nei Balcani in questi anni non dobbiamo mai perdere di vista la questione sociale: la storia di chi, da una parte, tenta senza molti scrupoli di accumulare potere e ricchezze e di chi, dall’altra, patisce le condizioni di vita che gli sono imposte e tenta, a volte, di ribellarsi. La storia recente della Jugoslavia aggiunge una consapevolezza nuova. Lo scontro che nasce dalla divisione sociale non porta obbligatoriamente verso mondi nuovi e liberi. Né con il sovrapporsi di piccoli cambiamenti che modellano man mano la realtà sul calco dei nostri sogni, né con l’accumularsi delle condizioni che determineranno in futuro un’esplosione definitiva di questa realtà che non ci piace. Lo svolgersi di questo scontro può soltanto provocare quelle fratture sociali al cui interno tutto diventa finalmente possibile. E in mezzo a questo tutto c’è la libertà, così come la peggiore delle oppressioni.

È solo alla luce della questione sociale che l’insieme dei dati che ci vengono sputati in faccia sulle moderne guerre balcaniche può assumere una certa, spaventosa, coerenza. Se la divisione sociale c’è anche qua, come c’è in Jugoslavia; se le forme specifiche che ha assunto lo scontro sociale in Jugoslavia sono state determinate in parte consistente da necessità maturate nel nostro occidente — allora siamo già in guerra, anche noi. E se ciò non ci bastasse, è bene sapere che nulla garantisce che i meccanismi che portano oggi tanti sfruttati jugoslavi a farsi partecipi dell’orrore non possano presentarsi domani proprio nel cuore del nostro mondo civile.

Non è più così lontana, ora, la Jugoslavia.

I Balcani su di una carta

Facendo il cammino inverso a quello di Teseo, seguiamo il filo dello scontro sociale fino al centro del labirinto balcanico, per fare conoscenza col Minotauro. Ancora fuori del labirinto c’è l’Europa d’inizio secolo, l’insieme di interessi che hanno tracciato gli attuali confini dell’Albania nel 1912 e che hanno condotto, alla fine della prima guerra mondiale, ad organizzare intorno allo Stato serbo la potenza territoriale che prenderà il nome di Jugoslavia.

I Balcani non hanno conosciuto quel lungo processo storico, caratteristico dell’Europa occidentale, che ha portato a far coincidere approssimativamente i confini dei differenti regni con l’idea di altrettante nazioni. L’idea stessa di Stato nazionale si è affacciata da poco in questa penisola, in buona parte suddivisa fino a tempi relativamente recenti tra l’impero asburgico e quello ottomano. Proprio il territorio della vecchia Federazione jugoslava, poi, era quello nei Balcani dove più le differenti popolazioni si erano mescolate all’epoca dei grandi Imperi. Macedoni, bulgari, albanesi, croati, serbi e altri ancora popolavano queste regioni senza dare ad esse alcuna omogeneità nazionale.

Così come il Risorgimento italiano ha portato in sé quelle speranze nei cambiamenti sociali che lo hanno reso possibile, anche le lotte delle popolazioni balcaniche contro il dominio austriaco e quello turco hanno avuto carattere sociale.

Ma non solo. Se nell’Europa occidentale il concetto di nazione si basa oramai sulla continuità di un potere su di un dato territorio, nei Balcani l’elemento mitologico è ancora preponderante: ad una presunta "età dell’oro" segue l’oscurità della dominazione straniera e della sofferenza, dando all’affrancamento di ogni etnia un significato mistico, quasi messianico. Ogni singola mitologia nazionalista, poi, è sopravvissuta al crollo dei due grandi Imperi, di volta in volta esaltata o repressa a seconda degli interessi dei differenti paesi occidentali che hanno cercato di controllare la regione.

L’identità nazionale albanese ha conosciuto un impulso formidabile a partire dal 1910 — quando le Cancellerie italiana e austriaca, per garantire la propria egemonia sull’Adriatico, cominciarono a costruire uno Stato albanese sotto la propria tutela — e ha raggiunto il suo culmine con l’annessione del Kosovo, della Ciamuria e di alcuni territori bulgari — la grande Albania — sotto la guida dei fascisti di Galeazzo Ciano.

Le frontiere politiche jugoslave, così come quelle di buona parte dell’Europa orientale, hanno la particolarità di non essere state tracciate in seguito ai conflitti fra i differenti Stati che compongono i Balcani, ma imposte in base ai rapporti di forza tra i vincitori delle due guerre mondiali. Queste frontiere esprimono, quindi, i successivi equilibri tra varie potenze ed hanno senso solo nella misura in cui questi equilibri perdurano. La fondazione della Jugoslavia non è direttamente figlia delle rivendicazioni in questa direzione provenienti da diversi strati minoritari delle popolazioni slave dei Balcani — rivendicazioni che si erano espresse, tra l’altro, negli sforzi di dare corpo ad una lingua letteraria serbo-croata. Risponde soprattutto a due necessità vitali per i vincitori della Prima guerra mondiale. Intanto quella di creare attorno al reame serbo, aggiungendovi le regioni slave confiscate all’Impero austroungarico, uno Stato sufficientemente solido a far da barriera all’espansionismo germanico verso il Mediterraneo. Poi, quella altrettanto importante di assicurare la presenza nel cuore dei Balcani di una potenza militare alleata in grado di dare una certa stabilità a tutta la regione. Queste stesse opzioni strategiche sono state confermate alla fine della Seconda guerra mondiale, con la garanzia supplementare di una prospettiva di stabilità interna ben più convincente che nel passato, grazie all’organizzazione federale del nuovo Stato. In più, per la prima volta nella breve storia della Jugoslavia, un reale e potente slancio popolare identifica i propri interessi con quelli dello Stato. Alle mitologie nazionaliste già presenti in quella zona dei Balcani ne viene aggiunta una posticcia, quella jugoslava. Se quelle traevano la propria forza dalle lotte passate contro i turchi e gli austriaci, quest’ultima fa partecipare l’insieme delle popolazioni ad una stessa coscienza nazionale tramite il mito fondatore della resistenza al fascismo e della guerra di liberazione dai tedeschi, creando un’ideologia patriottica fino a quel momento inesistente.

Immagini da un labirinto

Eccoci, allora, di fronte all’ingresso di un labirinto nel quale le vie dello scontro sociale e quelle del nazionalismo corrono parallele. Centinaia di anni di sofferenze degli sfruttati dei Balcani vengono rielaborati a favore di classi dirigenti che si presentano come eredi dei protagonisti delle lotte passate, sotto lo sguardo vigile delle Cancellerie occidentali e del Comintern. Il verbo nazionalista è utilizzato permanentemente, sia in Albania che in Jugoslavia, per mantenere un livello minimo di coesione sociale e, non appena qualche turbolenza appare all’orizzonte, i miti etnici vengono amplificati fino all’esasperazione. Il regime di Enver Hoxha, più arretrato e meno flessibile di quello di Tito, arriverà a fondare buona parte della propria stabilità su di una mobilitazione permanente anti-jugoslava ed anti-greca. Hoxha rielabora ed aggiorna i codici tradizionali albanesi, si presenta come il continuatore dell’opera di Scanderbeg, il "padre della patria" albanese, e tenta di sostituire alle tre religioni presenti sul territorio — ortodossa, cattolica e islamica — il culto dell’"albanità" . Al mito dell’internazionalismo proletario viene così affiancato il supposto primato etnico degli albanesi, unico popolo in grado di instaurare il comunismo. Anche le vicende di politica internazionale sono lette attraverso un filtro di tipo etnico. La rottura con Mosca dopo la morte di Stalin, per esempio, viene spiegata con il carattere dei popoli slavi, intrinsecamente portati al dispotismo e alla barbarie. Dunque, il perno del discorso nazionalista ridiventa, dopo la rottura del 1948 tra Tito e Hoxha, la "liberazione" del Kosovo, dove la popolazione albanese deve convivere con degli slavi, inevitabilmente "barbari".

Se per un quarantennio la burocrazia albanese affida la propria stabilità a questa incessante produzione culturale e ideologica nazionalista — oltre che ad una feroce repressione e ad alcune concessioni sociali —, quella jugoslava affiancherà al discorso nazionalista quello federalista.

Il "miracolo" di Tito, tanto lodato dagli stalinisti dei giorni nostri, è consistito nel far sviluppare per ogni regione jugoslava burocrazie a base etnica in perenne concorrenza tra loro e nel presentarsi come l’unica figura in grado di farle convivere. Dietro all’ideologia federalista ufficiale derivata dalla Resistenza, l’insieme dei particolarismi nazionali è stato coltivato meticolosamente e la minaccia stessa di esplosione nazionalista utilizzata come elemento di stabilità del regime. Pochi regimi politici al mondo possono vantare un’attenzione pari a quella del vecchio regime jugoslavo per la questione delle "libertà culturali" e del "rispetto delle minoranze". Tutte le etnie presenti in Jugoslavia ricevevano un’istruzione nella propria lingua, leggevano i propri giornali, guardavano il proprio canale televisivo e tutti i documenti ufficiali erano tradotti nelle lingue principali.

In questa maniera il problema nazionale è diventato parte integrante del modo di divisione e di gestione sociale del sistema jugoslavo. La tecnica di fomentare i nazionalismi per rafforzare la Federazione, però, non poteva trovare applicazione in Kosovo. Affossata per forza di cose l’idea di una federazione balcanica che comprendesse anche l’Albania di Hoxha, concedere al Kosovo lo statuto di repubblica avrebbe significato facilitare le mire espansionistiche di Tirana. Così, in flagrante contraddizione con l’ideologia federalista ufficiale, per quarant’anni il Kosovo è rimasto semplicemente territorio della Serbia. Questa scelta ha trovato una giustificazione nella mitologia nazionalista serba, che vede negli albanesi i traditori nella lotta contro i turchi e nel Kosovo la culla della nazione. Le concessioni e le revoche dello statuto di autonomia del Kosovo, perciò, sono state condizionate dalle alterne necessità di Belgrado di soffiare sul fuoco nazionalista per ricompattare la popolazione serba.

Quindi, se le ideologie nazionaliste croata, slovena e serba erano sostenute più o meno apertamente dai burocrati della Lega dei comunisti jugoslava, quella kosovara veniva rinforzata sottobanco da parte del governo di Tirana. Lo stesso Esercito di liberazione del Kosovo è nato dalla fusione di alcuni vecchi gruppi clandestini enveristi e tutta la storia dell’indipendentismo kosovaro si intreccia con i disegni di una grande Albania avanzati dai governi albanesi anche più recenti, in particolar modo da quello di Sali Berisha.

Avanziamo nel labirinto, dunque, e già incombe la presenza del Minotauro. Lo incontreremo fra poco, quando l’odio di classe raggiungerà il suo culmine e sarà troppo velocemente barattato con il suo contrario, l’odio etnico, e quando questo precario equilibrio tra le ideologie nazionaliste balcaniche si dissolverà. Non esiste un preciso punto di svolta in questa nostra storia balcanica. Esistono una serie di processi di varia natura che convergono, determinando esplosioni che di per sé possono aprire le porte a qualsiasi scenario nuovo.

Il fallimento di uno Stato

Durante gli anni ’80, la struttura federale dello Stato jugoslavo ha dimostrato di non essere più in grado di controllare la situazione sociale. Gli organismi internazionali condizionavano la concessione dei prestiti — senza i quali l’economia jugoslava sarebbe stata ridotta all’asfissia — all’applicazione delle ricette di risanamento economico studiate dal Fondo monetario internazionale. Ma i tentativi di ristrutturare i settori pesanti dell’economia si scontravano con un’ondata sempre crescente di resistenze tra gli sfruttati, e lunghi scioperi si susseguivano in tutte le regioni della federazione. Così, le burocrazie jugoslave si sono ritrovate nell’impossibilità di riorganizzare efficacemente l’economia, cominciando a perdere ogni credibilità internazionale.

Di fronte a questo stallo della macchina economica, gli interessi delle differenti frazioni burocratiche sono diventati improvvisamente concorrenti, esistendo grossi squilibri nello sviluppo industriale della federazione. Ad una Slovenia e ad una Croazia relativamente industrializzate e moderne, si contrapponevano le più arretrate repubbliche del Sud. Ogni repubblica più ricca, poi, era legata alle altre da vincoli di solidarietà obbligatoria che si concretizzavano nel finanziamento di consistenti fondi federali.

Fino a quel momento, come abbiamo visto, le burocrazie portavano avanti un doppio discorso, sovrapponendo ad un richiamo costante alle identità nazionali il culto ufficiale del federalismo e dell’unità jugoslava. A questo punto, però, il discorso federalista cessa di avere utilità e significato visto che, per sopravvivere, ogni unità burocratica deve rinegoziare i vincoli di solidarietà che la legano alle altre. Per far questo non resta che il nazionalismo, al fine di mobilitare la popolazione convincendola che le sue tribolazioni sono causate dalle repubbliche rivali. Il discorso di moda tra i burocrati di ogni repubblica diventa, in sintesi, «Lavoratori, noi siamo con voi e contro gli altri!». I burocrati croati e sloveni, ovviamente, aggiungono che le ristrettezze economiche di questo periodo sono dovute alla quantità eccessiva di fondi federali incamerati dall’arretrata Serbia. Dall’altra parte, quelli serbi tentano di convincere gli sfruttati della propria repubblica che ogni responsabilità è da addebitare a croati e sloveni.

Queste manovre non sono inedite nella storia jugoslava, ma nel passato non hanno mai portato a trasformazioni decisive, riuscendo sempre a ristabilire quella disciplina sociale necessaria a far ripartire la macchina economica dopo un periodo di trattative e qualche concessione reciproca. I gruppi dirigenti che hanno gestito questo processo nel corso degli anni ’80 non hanno compreso in tempo che le pressioni economiche internazionali non lasciavano più il minimo margine di manovra per rinegoziare un nuovo equilibro interno. Ad un certo punto, nessuno poteva più cedere nulla. In più, Tito aveva lasciato in eredità alla Jugoslavia una serie di procedure decisionali abbastanza complesse che impedivano ad ogni interesse regionale di imporsi sugli altri tramite strumenti di tipo istituzionale. Le lotte degli sfruttati hanno così potuto infrangere ogni tentativo di rimettere in moto l’economia e l’insieme della Federazione è stato ridotto all’impotenza.

Gli sfruttati in un deserto

Durante tutti gli anni ’80 i discorsi su cui basavano il proprio potere le burocrazie jugoslave perdono progressivamente di credibilità.

Come abbiamo visto, il sistema di valori che cementava il paese rimane stritolato dalle sue stesse contraddizioni. La mitologia unitaria nata dalla Resistenza si sgretola sotto il peso rinnovato delle propagande nazionaliste e il suo erede ufficiale, l’esercito, si schiera apertamente accanto alla frazione serba del potere centrale. I tentativi di ristrutturazione economica, mettendo in crisi quelle poche "sicurezze" che in quarant’anni erano state offerte agli sfruttati, spingono questi ultimi alla lotta. Non si tratta di una semplice involuzione economica o sociale, è un mondo intero che crolla.

La tensione sociale continua a crescere, dunque, ma chi lotta non ha più nulla cui aggrapparsi. Il ricordo di quell’"internazionalismo proletario" di facciata imposto per quarant’anni dai burocrati ostacola l’idea che gli sfruttati di diversa nazionalità possano essere realmente solidali tra loro contro i padroni comuni. È la stessa consapevolezza che esistano dei padroni comuni ad essere debole. Non si trova con chiarezza il nemico.

In questa situazione, l’utilizzo del nazionalismo assume una portata inedita. Abbellendo gli interessi di ogni frazione della burocrazia jugoslava con i colori della storia passata, vengono risvegliati tutti i rancori sopiti della storia balcanica. Una parte troppo consistente degli sfruttati reagisce al crollo delle certezze del passato aggrappandosi all’ultima di queste, alla propaganda nazionalista, riscoprendo valori da condividere e capi a cui obbedire. Ritrovando una comunità e una storia di cui sentirsi parte e per cui spendere le enormi energie accumulate in tanti anni.

In questi stessi anni, un processo simile a quello jugoslavo si mette in moto in Albania. Vediamone i tratti che hanno potuto influenzare la situazione del Kosovo, che è quanto ci interessa in queste righe.

Con la morte di Enver Hoxha, i dirigenti albanesi si ritrovano ad affrontare una serie di problemi spinosi. Dai tempi della rottura con Pechino, il paese vive in un isolamento quasi assoluto. L’isolamento stesso, come abbiamo visto, trova una giustificazione ideologica nel particolarismo albanese ma, con il passare degli anni, finisce col causare il congelamento irreversibile di tutto l’apparato industriale. Gli enormi impianti importati prima dall’Unione Sovietica e poi dalla Cina, ormai obsoleti per mancanza di manutenzione e di pezzi di ricambio, girano a vuoto. Dentro le fabbriche gli operai continuano a lavorare per non produrre nulla e il regime non può permettersi licenziamenti perché uno dei suoi vanti è ancora quello della piena occupazione. Per sopravvivere, l’unica strada percorribile che si presenta a Ramiz Alia, il delfino di Hoxha, è di affiancare alla ristrutturazione industriale una completa svolta nei rapporti con l’estero. Per un certo periodo, la propaganda albanese deve smorzare i toni ultranazionalistici per poter riaprire le relazioni con i paesi confinanti, in particolar modo con la Serbia.

Così il problema kosovaro attorno al quale era stata costruita l’identità collettiva albanese, diventa improvvisamente, nella seconda metà degli anni ’80, una semplice questione interna jugoslava. Le prospettive di liberalizzazione economica aperte dal regime di Alia, intanto, fanno cadere nell’immaginario albanese l’antica inimicizia verso l’occidente. È lo stesso erede di Hoxha, quindi, a minare le fondamenta ideologiche di un regime che fino a quel momento aveva tentato di costruire la propria identità completamente in negativo, fingendosi accerchiato dalla "barbarie" slava da un lato e dalla "immoralità" occidentale dall’altra.

Nel volgere di pochi anni gli sfruttati albanesi si ritrovano in pieno deserto. Nessuna sicurezza economica — neanche quelle misere del passato —, nessun valore collettivo esistono più per tranquillizzarli, l’unica lingua ancora comprensibile da parte loro ridiventa quella dei Kanun, i codici delle antiche strutture claniche. Insurrezioni senza dirigenti e senza rivendicazioni si susseguiranno fino a culminare in quella del 1997 e nel successivo intervento occidentale che ridarà all’Albania l’antico status di protettorato italiano. L’unico che riuscirà a controllare per un breve periodo la situazione prima dell’arrivo dei militari italiani sarà l’ex medico di Hoxha, Sali Berisha.

Il suo governo, travolto poi dall’insurrezione del ’97, ricostruirà per gli albanesi un sistema di valori forti rielaborando, in positivo e in negativo, quelli del passato, mescolando Kanun, nazionalismo, liberalizzazione economica selvaggia e un violento "anticomunismo". Ecco come la "liberazione" dei cugini kosovari ridiventa un problema nazionale, come buona parte delle armi saccheggiate nelle caserme durante le insurrezioni finiranno nelle mani dell’Uck e come il nord dell’Albania si trasformerà nella base logistica della guerriglia indipendentista anti-serba.

Ed eccoci finalmente al centro del labirinto. Da una parte abbiamo l’ignoto, tutte le immense possibilità aperte da una situazione in cui nessuna certezza e nessun valore soffocano più gli sfruttati, in cui un mondo intero sembra aspettare solo l’ultima spallata per crollare. Dall’altra c’è il Minotauro che soffia sul collo. È un mostro che il mondo ha conosciuto fin troppo bene, e che oggi nei Balcani si fa chiamare guerra etnica.

Per il capitale, prima le minacce di guerra e poi la guerra stessa, sono strumenti d’emergenza per ristabilire la pace sociale. Quando non riesce più a produrre certezze, non gli rimane che cavalcare un qualsiasi minotauro. Non si tratta di un ritorno al peggiore passato, come forse credevamo. Le nuove guerre balcaniche sono un segno della modernità.

Non è una grossa scoperta questa dell’amicizia tra il mostro e il capitale. Ma noi? Proviamo a tacere un attimo, a far sì che le parole che ci hanno accompagnato magari per una vita intera non ci illudano ancora. Nessuna rivoluzione pacifica e ordinata si annuncia all’orizzonte, nessun sole dell’avvenire: quando cadono tutti i freni, quando i miti collettivi e le sicurezze non trovano più posto nei cuori degli sfruttati, quando il rancore accumulato esplode, nulla può più esser garantito. E questo non può che farci paura, timidi civilizzati che siamo, forse ci infonde uno spavento maggiore di quello che ci ispira il Minotauro. Allora, noi, che cosa sceglieremo? Quando la Jugoslavia sarà qui, siamo proprio sicuri che affronteremo questa paura fino in fondo o, come gli jugoslavi, troveremo dolce l’abbraccio terribile di un Minotauro di passaggio?

La piena

Il fiume della lotta sociale, quello della bancarotta di due Stati e quello del crollo di tutti i valori hanno già mescolato le proprie acque. Manca solo un affluente perché tracimino e trasformino questa piena in una carneficina: arriverà dall’occidente.

La crisi dello Stato jugoslavo degli anni ’80 coincide con la necessità di rimaneggiare gli equilibri europei e l’esistenza stessa della Jugoslavia non risponde più agli interessi di quelle potenze che ne avevano patrocinato la costituzione. L’espansionismo tedesco verso il Mediterraneo, essendo attuato oramai nel quadro dell’Europa unita, non ha più bisogno di barriere. Il sistema federale dimostra di non garantire più il buon funzionamento dell’azienda jugoslava e si rischia un’esplosione sociale troppo vicina alle tranquille coste occidentali. Giocoforza, la Cee deve spingere verso la creazione di nuove entità statali che sostituiscano l’ormai inservibile Federazione, segnando quel passaggio che porta dalla crisi interna jugoslava — una crisi costellata di minacce, di repressione e di ricatti polizieschi — alla crisi militare. Fino alle settimane precedenti la dichiarazione d’indipendenza della Slovenia, infatti, la minaccia di secessione viene ritenuta un mezzo estremo di pressione, più che una possibilità reale in quel gioco al rialzo nazionalista attuato dalle burocrazie jugoslave. Ma la garanzia accordata più o meno discretamente dalla Cee di riconoscere questo nuovo Stato permette, e in definitiva impone, la soluzione militare. In quel momento, l’Europa unita coglie l’occasione per confermare ufficialmente che l’unione della Slovenia e della Croazia ad uno Stato inventato per controllare l’espansione tedesca verso il Mediterraneo è storicamente superata, concedendo alla Germania ciò che non ha saputo conquistarsi in due guerre mondiali.

La condotta adottata dalla "Comunità delle Nazioni" durante i conflitti nell’ex Jugoslavia va letta a partire dalla coerenza dei suoi atti e non in funzione delle prese di posizione contraddittorie che le servono da paravento. Questa condotta, contrariamente a quel che tentano di far credere le lacrime di coccodrillo versate regolarmente in pubblico, è ben lontana dall’aver mancato i propri obiettivi. La deriva militare che è seguita alla dichiarazione di indipendenza della Slovenia e che perdura fino ad oggi, dal punto di vista delle potenze occidentali era inevitabile, visto che in Jugoslavia sono inesistenti, a parte il caso sloveno, frontiere determinabili in base a criteri nazionali. Perciò è impossibile fondare nuovi Stati senza ricorrere alla pulizia etnica ed è stata proprio questa strategia internazionale a delinearne la necessità. Le immagini di questa piena sono purtroppo storia di oggi.

La strategia occidentale alla quale abbiamo accennato acquista tutta la propria evidenza nel caso della Bosnia. Sin dal primo piano Vance-Owen, la pseudorisposta alla crisi bosniaca non è stata fondata sulla realtà storica di questa regione, ma su di una realtà ideologica creata artificialmente dallo scontro di interessi burocratici. È così che è stata determinata la spartizione di questo territorio tra le tre correnti nazionaliste che l’avevano fatto a pezzi. La riorganizzazione della Bosnia ricopre il doppio obiettivo della divisione delle zone di influenza nell’ex Jugoslavia e della riorganizzazione dei Balcani. La deportazione delle popolazioni è stata favorita dalla politica delle grandi potenze ed è servita a ridurre l’ampiezza delle contraddizioni sociali che i nuovi poteri regionali avrebbero dovuto affrontare e, quindi, i rischi di estensione del conflitto balcanico al di là delle frontiere dell’ex Jugoslavia. Non è un caso che nella Sarajevo assediata le grandi potenze fossero accusate apertamente di favorire le forze armate serbe. I soli sforzi reali dell’occidente in questo periodo sono stati quelli della diplomazia sotterranea, impegnata a mitigare a tutti i costi le tensioni tra la Serbia, la Macedonia e le loro cinque vicine (Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia e Albania).

Da qui in poi, tutte le iniziative internazionali perseguiranno grosso modo tre obiettivi, indipendentemente dalle contraddizioni interne dell’Occidente. Intanto, organizzare una zona di sicurezza tra l’ex Jugoslavia e le frontiere dell’Europa Occidentale. Questo ruolo di Stato-tampone viene assegnato alla Slovenia, le cui condizioni interne si prestano perfettamente a questa funzione: regione industrializzata ed occidentalizzata, etnicamente coerente e sufficientemente piccola perché il volume degli investimenti necessari alla sua stabilità sia relativamente modesto. Gli altri due obiettivi si confermano nello sforzo di suddividere la Jugoslavia attorno alle due entità che sembra abbiano le spalle abbastanza larghe per questo compito. Alla Croazia è affidato il controllo della costa adriatica e dell’asse Adriatico-Europa centrale, alla Serbia il controllo dei Balcani.

Schiacciato temporaneamente il problema bosniaco, in questi anni è stato possibile contenere quello macedone, soffocare quello della Vojvodina e del Sangiaccato e liquidare militarmente il problema che poneva la Krajina. Se la Croazia ha saputo mantenere le sue promesse verso l’occidente, questo non è stato possibile per la Serbia, come è apparso evidente negli ultimissimi anni. Il primitivo punto di esplosione dell’antica ideologia federalista jugoslava, il Kosovo, è ritornato sulla scena in tutta la sua drammaticità, svelando quanto poco previdente sia stata la scelta occidentale di affidare il controllo dei Balcani a Milosevic. Quest’ultima guerra, che ha visto tutto l’Occidente impegnato contro la Serbia, ha perseguito l’obiettivo di fare fuori un vecchio alleato dimostratosi completamente inaffidabile, tentando però di preservare l’integrità territoriale del Paese, per evitare di estendere il conflitto alle regioni limitrofe: l’Albania, la Macedonia, la Bulgaria e la Grecia. Fino ad oggi nessuno ha riconosciuto realmente il diritto all’autodeterminazione degli albanesi del Kosovo e gli accordi di Rambouillet hanno indicato come unica via praticabile la semplice autonomia di questa regione. Le due frazioni dell’indipendentismo kosovaro, il gruppo di Rugova e l’Uck, sono state utilizzate a turno in funzione anti-serba, senza mai sottoscrivere il loro progetto politico più o meno manifesto della grande Albania, e la stessa popolazione kosovara è stata utilizzata come elemento logistico nel conflitto.

L’unica svolta significativa nelle strategie occidentali che ha segnato quest’ultima guerra è stata quella di non voler più delegare a nessuno il controllo dei Balcani. Per un po’ ci penseranno direttamente gli eserciti della Nato, fino a che, a Belgrado o altrove, non si troveranno nuovi alleati capaci e fidati.

La tempesta sociale mancata

Crocevia tra mille civiltà differenti, i Balcani possiedono un’enorme ricchezza culturale, tradizioni che si affiancano e si mescolano: questa è una delle ragioni della loro instabilità. Rappresentano un campo di manovra favorevole per i politici avidi di promozione ma, come dimostra la storia di questo secolo, per ogni Stato che desideri affermarvi il proprio potere non sono altro che un rompicapo insolubile. I processi economici, sociali e culturali vissuti dall’Albania e dalla Jugoslavia in questi venti anni sono comuni, per lo meno in linea di massima, alle altre regioni balcaniche e a quella terra immensa e desolata che è la Russia odierna.

Nei Balcani il Minotauro è stato chiamato guerra etnica. Nel mondo arabo galoppa un suo parente stretto, quell’integralismo religioso che ha trovato i suoi pascoli migliori in Algeria. Anche questo non ha segnato col suo soffio un ritorno al passato, è stato cavalcato nella forma più moderna dal capitale.

E quando toccherà a noi, quale sarà il nostro Minotauro?

Ghigno crudele della storia, il mostro viene sempre preso in parola dagli sfruttati — che si trasformano in carnefici — mentre gli sfruttatori lo utilizzano semplicemente come arma politica collaudata, con una consapevolezza che è più agghiacciante degli stessi massacri. Un esempio eloquente lo fornisce un corrispondente della Bbc, riportando in un suo libro una conversazione telefonica tra il generale serbo Mladic ed il ministro degli Interni croato: accordandosi sulla restituzione dei cadaveri dei soldati morti in nome di quell’odio etnico che loro stessi fomentavano, i due si scambiavano i più sinceri auguri per le rispettive famiglie. Negli anni a venire, non appena avranno trovato un equilibrio accettabile, i rappresentanti delle burocrazie ex jugoslave ritorneranno ad essere buoni amici. Gli sfruttati, invece, continueranno a odiarsi, a sentire nell’aria il fiato della bestia.

Non è più questione di sapere se la Storia sia finita o se ancora ci marci addosso, dunque. Dobbiamo saper leggere le domande che ci fanno gli avvenimenti, anche quando questi rimestano sogni ed incubi insieme. La storia jugoslava di questi ultimi venti anni è intanto la storia di una tempesta sociale mancata, di una possibile rivolta mutatasi nella peggiore delle cancrene. È stata quella stessa energia che avrebbe potuto sostenere lo scontro aperto tra sfruttati e sfruttatori ad essere impegnata sul peggiore dei fronti di guerra, sono stati proprio i protagonisti dello scontro sociale a diventare manovali del terrore.

Certo, i fili dello scontro sociale si riannoderanno, l’odio etnico prima o poi cesserà di far da primo attore nelle tragedie balcaniche. Ma al nostro fianco, quanti avranno ancora le mani macchiate di sangue? Addio per sempre sonni tranquilli, allora.

 
 

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