Adesso - Foglio di critica sociale - Rovereto, 12 ottobre 2001 - Numero 10
Lo stesso grido
Questo decimo numero di Adesso *esce come piccolo contributo per un movimento contro la guerra e il mondo che la produce.
Un tale movimento è ancora più che embrionale. Ovunque, la paura sta spartendo il suo regno solo con l'indifferenza. Le poche voci fuori del coro riflettono perfettamente quel pacifismo incantatore che critichiamo nell'articolo qui a fianco* [Contro al guerra e la beatitudine pacifista]*. Sono voci compromesse o imbarazzate, che si limitano a testimoniare lo sdegno per i bombardamenti e a reclamare il rispetto del Diritto, cioè dello stesso ordinamento statale di cui la guerra è una diretta quanto brutale manifestazione. Non è forse il Diritto (cioè, in ultima analisi, il gendarme) a fare degli uni padroni e degli altri salariati, degli uni connazionali e degli altri stranieri, degli uni miliardari trafficanti d'armi e degli altri profughi sotto le bombe? A questo richiamo astratto al Diritto (astratto perché i ricchi non hanno mai regalato qualche 'diritto' ai poveri senza che questi glielo strappassero con la lotta) corrisponde un'azione puramente simbolica, ben lontana dall'ostacolare i centri produttivi di quell'immensa macchina bellica che è la società capitalista.
I grandi assento contro la guerra, infatti, sono i lavoratori, i quali hanno nelle mani un'arma formidabile contro i signori dello sfruttamento e del terrore: lo sciopero generale autorganizzato. Uno sciopero a cui un movimento di contestazione potrebbe affiancare le mille forme del sabotaggio antimilitarista.
Mentre il governo assassino degli Stati Uniti e i suoi alleati bombardano una popolazione afghana già stremata, sfruttando il comprensibile orrore per i civili morti in America, mentre le conseguenze di tutto ciò si fanno ogni giorno più incalcolabili (cosa sarà la prossima volta, una bomba atomica portatile?) e si avvicina lo spettro del conflitto etnico e religioso (occidentali contro arabi, musulmani contro cristiani, poveri contro poveri); mentre la guerra - non più dichiarata, ma continuata - assume una forma inaudita in grado di giustificare interventi militari ovunque; mentre si prepara un grande giro di vite contro ogni forma di dissenso (accusato inevitabilmente di fiancheggiare un indefinito terrorismo internazionale) - mentre il cielo si riempie di così funesti presagi, diventa sempre più attuale il grido degli internazionalisti insorti durante la prima carneficina mondiale:*
Contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale!
Si fa presto a dire fanatismo
Immaginiamo un ragazzo palestinese nato e cresciuto in un campo di deportati circondato dal filo spinato, la cui famiglia è stata sterminata dall'esercito israeliano (con l'aiuto di quello americano). Non ha mai avuto i sogni che ognuno di noi coltivava quando era bambino: diventare astronauta o giocatore di calcio. Per lui il futuro finisce dove finisce il recinto del suo ghetto, perché la mera sopravvivenza proietta la propria ombra su tutto l'avvenire. E allora egli sogna di diventare 'martire', cioè 'testimone', e vendicare così la propria famiglia, se stesso e la vita che non ha mai vissuto. Si fa saltare in aria con la propria bomba su un autobus di Gerusalemme. Siamo davvero sicuri che faccia tutto ciò per "fanatismo"?
Non stiamo dicendo che non esistono cricche di potere (la presente e futura classe dominante palestinese, nel caso specifico) che sfruttano il bisogno di riscatto con l'ideologia del sacrificio, della guerra santa, del posto in paradiso, per arruolare nelle loro file tanti di questi ragazzi; cricche pronte a usare le loro morti al tavolo delle trattative. Stiamo dicendo che quei ragazzi non sono né più né meno fanatici di quelli con il cellulare e l'abbigliamento tristemente identico che vediamo passeggiare nelle nostre strade. Come loro, cercano il riconoscimento dei propri compagni e degli adulti. In tutte le culture umane (nel senso di usi e costumi), la vendetta e il coraggio sono considerati dei valori Più i torti subiti sono gravi e incancellabili, più la spinta verso la vendetta diventa insopprimibile. Immaginiamo allora il pensiero dei propri cari uccisi e aggiungiamo a questo i racconti collettivi di altre atrocità, la prospettiva di un futuro vuoto, l'ideale del 'martire': un qualsiasi ragazzo vivace e con un suo senso della dignità, cosa potrà scegliere? Non è forse questo sentimento tipicamente umano (nel senso meno retorico della parola) che mette tutti gli spettatori e i lettori dalla parte dell'eroe cinematografico o del bandito delle varie letterature? Non è forse la povertà della nostra vita quotidiana che si riflette in quelle figure? Ad accogliere (e a soffocare) questo slancio, nel mondo attuale si trova per lo più la menzogna della religione e della patria. Di fronte a tutto ciò, ci si può limitare ad un appello al dialogo, come pensano i tolleranti cittadini con il ventre sazio e i piedi al caldo? Chi dialogherebbe con chi gli ha ammazzato i cari?
Ritornando a qull'autobus. A saltare in aria insieme al nostro ragazzo non saranno i generali, i politici e i burocrati israeliani (o americani), bensì qualche massaia, degli operai e dei bambini. E' terrorismo, certo, nel senso che è una violenza cieca, indiscriminata, la stessa (nel suo piccolo) di quella usata dagli Stati quando bombardano intere popolazioni. Ma non può condannare simili gesti chi non condanna il terrore statale, chi non fa niente per cambiare concretamente le condizioni sociali da cui nasce una tale disperazione portatrice di morte; insomma, non può limitarsi allo sdegno chi non dà un contributo qualitativo per un'altra violenza (quella contro i veri responsabili), per un'etica vissuta come liberazione. Cosa avete fatto voi - porebbe chiederci quel ragazzo - per impedire i massacri, le deportazioni, lo sfruttamento spinto fin sotto la soglia di sopravvivenza?
Abbiamo moralizzato post festum, come sempre.
Non ci stupiamo quando sentiamo i nostri nonni parlare con odio dei tedeschi (che identificano con i nazisti oppressori), Né ci stupiamo di trovare in alcuni testi pubblicati da editori rispettabili (Ricordati di cosa ti ha fatto Amalek dell'Einaudi, ad esempio) i testamenti scritti nei ghetti ebrei in cui si maledice per sempre il popolo tedesco e chiunque non lo ucciderà ("il tedesco buono lo uccideremo per ultimo", vi si può leggere). Non ce ne stupiamo per tre motivi: primo, perché sappiamo che moltissimi tedeschi (non tutti, ovviamente, e ognuno nella misura della propria obbedienza) erano responsabili del regime hitleriano; secondo, perché intuiamo che ci vuole davvero molta lucidità per distinguere tra tedeschi e nazisti quando, ebreo, i bambini per strada ti fanno la lingua, le donne sghignazzano vedendoti percuotere, un qualsiasi funzionario può inviarti in un campo di concentramento e un macchinista che fa solo il proprio lavoro ti porta verso la morte; terzo, perché siamo abituati ad avere una visione della società e della storia simile a quella del Risiko (Italia contro Francia, Inghilterra contro Giappone, America contro Afghanista, eccetera). Tanto per rimanere nell'esempio, pochi ribelli hanno portato una visione di classe (governati contro governanti, poveri contro ricchi) nella Resistenza, affinché la rivoluzione sociale non fosse soffocata dalla guerra, affinché la menzogna della patria non stritolasse il sogno di una società senza padroni, senza denaro, senza Stato.
E oggi? L'attacco contro le Torri gemelle e al Pentagono è stato, in senso stretto, terroristico. Ma possiamo limitarci allo sdegno sapendo che in Palestina (e in tanti altri Paesi del mondo) molti hanno esultato? Per non esultare, bisogna saper distinguere il governo degli Stati Uniti (sulla cui infamia non ci sono dubbi) dalla sua popolazione. Ma la sua popolazione ha accettato (non tutti, ovviamente, e ognuno nella misura della propria collaborazione) che venissero sterminati trecentomila irakeni in nome della guerra contro Saddam Hussein (sulla cui infamia non ci sono dubbi!), oppure che vengano ora bombardati gli afghani in nome della guerra contro Bin Laden (sulla cui infamia, ancora una volta, siamo tutti d'accordo). La maggior parte degli israeliani è senza dubbio favorevole (fanaticamente favorevole) alla repressione dei palestinesi. Anzi, i più feroci anti-arabi sono proprio gli israeliani più poveri (perché hanno paura di essere espulsi). I capitalisti d'ogni dove, invece, s'ingrassano.
Perché mai i palestinesi che odiano gli israeliani, gli algerini che odiano i francesi, gli irakeni che odiano gli americani sarebbero più razzisti dei nostri nonni che odiavano i tedeschi? Perché due pesi e due misure?
Andiamo oltre questa ipocrisia, e rendiamoci conto che si smette di contribuire alla guerra contro i poveri di altre nazioni solo quando si smette di fare pace con i ricchi di casa propria. E' nella rivolta comune che gli sfruttati si sono riconosciuti e si riconosceranno come fratelli. Altrimenti, sarà la guerra.
Fatichiamo a immaginare qualcosa di più distante dalla nostra sensibilità del fondamentalismo (islamico, cattolico o ebraico che sia)."Fanatici" solo della libertà di esprimersi e di sperimentare al di fuori di ogni imposizione, potremmo scorgere nel dogmatismo religioso altro che oppressione? Ma per spezzare questo cerchio magico della sottomissione e della morte, dobbiamo rompere ogni collaborazione con le classi dominanti e con gli Stati, perché la guerra è il cuore di questo mondo senza cuore.
Contro la guerra e la beatitudine pacifista
**La guerra non viene più dichiarata, ma proseguita. L'inaudito è divenuto quotidiano. Il soldato resta lontano dai combattimenti. Il debole è trasferito nelle zone del fuoco.
L'eroe oggi non indossa divise. Si contraddistingue per la diserzione dalle bandiere, per il valore di fronte all'amico, per il tradimento di segreti obbrobriosi e l'inosservanza di tutti gli ordini.**
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