Titolo: Né la loro guerra Né la loro pace
Note: [Numero unico - Giugno 1999]

DI MASSACRI E DI GOVERNI

Mostratemi un luogo dove gli uomini si massacrano apertamente: io vi mostrerò un governo alla testa della carneficina.

Anselme Bellegarigue

Noi non abbiamo bombe sulle nostre teste. Non vediamo case e villaggi distrutti. Non conosciamo l’esodo, il grande errare di masse che fuggono la miseria, la paura e la morte. Non abitiamo in un campo profughi cinto dalla polizia. Non siamo in guerra, noi.

Qui, se si hanno i documenti in regola, non si viene espulsi. Qui, se non si è né immigrati né poveri, la polizia non ti spara addosso. Qui, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo non ha la stessa velocità di un bombardamento chimico: procede senza fretta, con l’arma lenta del profitto. Qui, il consenso della merce ha rimpiazzato le bandiere e le rivendicazioni etniche. È diverso, qui.

I civilizzati guardano tutti i giorni le immagini che vengono dall’Albania, dalla Macedonia, dalla Serbia, dal Kossovo. Le guardano, ma non le vedono. Quelle immagini vengono cancellate, con tutta la loro accecante visibilità, da tutti i piccoli doveri quotidiani, dai luoghi comuni e dal rumore incessante del chiacchiericcio mediatico. Così i civilizzati credono - senza crederci - all’"intervento umanitario", anche quando viene loro mostrato un treno di sopravvissuti bombardato dagli aerei della Nato. Neanche quel treno vedono. È stato detto loro che essere contro gli eserciti della Nato significa parteggiare per quelli di Milosevic. E Milosevic, su questo, è d’accordo anche lui. E stato detto loro che quest’ultimo è un dittatore, per non ammettere che uno Stato democratico - perché tale è la Serbia - possa, alla bisogna, generare la pulizia etnica. Bisogna dunque che ciascuno scelga il proprio campo: annientamento nazionalista o bombardamento umanitario. Si crede che si tratti di semplici opinioni («io sono per, tu sei contro - viva la democrazia!»), ma la posta in gioco è un mondo di cadaveri.

I civilizzati non immaginano che, tra un dominio travestito da Patria ed un dominio travestito da Umanità, non c’è niente da scegliere, se non di insorgere contro entrambi. E contro tutti gli Stati, eventuale Stato kossovaro compreso. 1 civilizzati non sanno che la guerra è il modo di funzionamento stesso del mondo dell’autorità e del denaro: che è dalla loro pace che nasce la loro guerra.

Ma è diverso, qui.

Qui si preparano, in tutta calma e con modestia, le condizioni di laggiù.


L'UMANITARISMO IN MIMETICA

È molto raro che gli Stati lascino emergere alla luce del sole i sordidi motivi delle loro azioni. La ragion di Stato avanza quasi sempre mascherata, soprattutto quando c’è in ballo una guerra, forma d’azione che deriva dalla natura stessa di ogni governo. Nessun capo di Stato, quale che sia la sua nazionalità, confesserà mai che l’obiettivo della guerra è quello di fondare e consolidare le basi del potere delle classi possidenti, le basi dello sfruttamento e del dominio del capitale. Per ottenere l’assenso dei cittadini - quando non il loro entusiasmo guerriero laddove è necessario - deve per forza presentare le proprie azioni sotto forme più accettabili e generose, come l’espressione di una qualche causa generale e superiore nella quale i suoi sudditi possano riconoscersi e grazie alla quale possano identificare il proprio presunto nemico. In occidente l’ultima di queste cause è quella umanitaria, che sembra relegare in secondo piano, almeno per il momento, le cause nazionali.

L’umanitarismo è la guerra combattuta in nome dell’umanità, è il militarismo dal volto umano. In Europa occidentale e negli stati uniti, oggi è difficile usare il mito della difesa del

territorio dello Stato-nazione per giustificare guerre come quelle combattute dalla Nato, poiché è evidente che nessun capo-banda locale, domiciliato a Belgrado o altrove, minaccia l’integrità dei paesi che, Stati Uniti in testa, vogliono giocare il ruolo di polizia mondiale e far regnare quell’ordine planetario indispensabile per la loro egemonia ed i loro monopoli.

Non è un caso che l’umanitarismo sia diventato una delle giustificazioni principali di simili guerre. Perché, alle nostre latitudini, l’illusione più condivisa dagli iloti del capitale è che la democrazia costituisca la forma più avanzata di rapporto sociale, il modello di Stato protettore di cui il mondo intero dovrebbe poter beneficiare. Nell’epoca del trionfo della democrazia, lo stato modello deve proteggere non solo i suoi, quelli che vivono sul suo suolo nazionale, ma anche gli altri che, oltre frontiera, sono perseguitati da un Milosevic qualsiasi.

L’umanitarismo è la nuova morale dei tempi di guerra. È la buona coscienza cristiana dei laici della Repubblica che desiderano che il potere dello stato regoli le grandi questioni mondiali sopra le loro teste, senza che la loro sopravvivenza quotidiana e la loro sicurezza ne siano turbate. Le loro lacrime di coccodrillo sulle sventure altrui, in Kossovo o altrove, subito dimenticate, sono parte di quella commedia ipocrita ed interessata che assolve gli eserciti della Nato, pilastro dell’ordine mondiale, da tutte le ignominie ad alta tecnologia perpetrate in giro per il mondo.

Tutto ci mostra che la "ragione umanitaria", definizione coniata dai commessi viaggiatori della carità nazionale, non è che una delle facce della ragion di Stato. A questo titolo non può che essere a struttura variabile: in funzione delle circostanze e degli interessi in gioco, lo Stato seleziona col contagocce chi possa meritare le proprie opere di beneficenza organizzate dalla Croce Rossa o da pretese Organizzazioni non Governative. Ne sono esclusi di principio gli inutili al nuovo ordine mondiale in gestazione - i milioni di esseri umani, in Kossovo ed altrove, dei quali il capitale non ha alcun bisogno e che possono tranquillamente crepare nell’indifferenza quasi generale - e quelli che lo minacciano, come i disertori serbi: la sollecitudine della Francia, per esempio, arriva fino al punto di riconsegnarli alla Serbia. L’umanitarismo si beffa degli esseri umani reali, soprattutto di quelli che si rivoltano.

In tutte le guerre, succede sempre che degli individui, nauseati dall’odore del sangue e dalle nefandezze dei loro padroni, rifiutino il ruolo ignobile che vuol far giocare loro lo Stato, disobbedendogli e fraternizzando con chi era stato indicato loro come nemico. La funzione dell’umanitarismo è proprio quella di smorzare ogni slancio spontaneo in questo senso e di ricuperarlo per il maggior profitto dello Stato.

Oggi, ogni rottura conseguente della logica di guerra passa anche per il rifiuto di quel che la giustifica, anche quando questa giustificazione prende l’aspetto mellifluo dell’ideologia umanitaria.


CONTRO LA GUERRA E LA BEATITUDINE PACIFISTA

Il pacifista aborre la guerra e benedice lo Stato. In tempi di pace gli è stato insegnato - e lui ci ha creduto - che la società è un vasto sistema di comunicazione dove tutto si regola tramite il dialogo, in maniera nonviolenta. Ne consegue che a subire la forza bruta sia candidato solo chi, vivendo alla periferia di questi vasi comunicanti, si beffa a colpi di pietre disperate del vano chiacchiericcio democratico.

Pur riconoscendo implicitamente in questo modo che la sua società non è solo dialogo ma anche violenza, il cittadino pacifista non se ne preoccupa eccessivamente: la violenza è destinata agli altri, ai nuovi selvaggi che non hanno ancora acquisito una propria umanità comunicativa e che si intestardiscono nel pensare che la società sia ben più violenta della dolce forza delle parole che sorregge una tavola rotonda. Il pacifista eleva a principio supremo l’immagine nonviolenta - nella quale si riflette il pacioso corso degli affari capitalisti - che si dà la società mediatica.

Quando il suo Stato comincia una guerra, il cittadino pacifista gli intima, «in nome del popolo!», di conformarsi a questa rappresentazione idealizzata della vita quotidiana. Imbevuto di quell’idea di Diritto che lo Stato gli impone di venerare, rifiuta di riconoscere come il monopolio statale della violenza, che nel paese garantisce il rispetto manu militari della legge, corrisponda, nei rapporti tra Stato e Stato, agli eserciti; e quando due potenze si scontrano, è la guerra che ha l’ultima parola. Così come glissa con nonchalance sull’abbassamento poliziesco del dialogo democratico in fatto di politica interna, il cittadino pacifista insiste sull’utilizzo esclusivo delle parole negli affari esteri, sulla negoziazione. Vuole l’uno senza l’altra, come se si potesse avere il Diritto senza la violenza, lo Stato senza la guerra, il principio senza le conseguenze che ne derivano. Lungi dal riprendersi alla vista di queste conseguenze assassine e dal mettere in dubbio il principio da cui emanano, il pacifista invoca il principio del Diritto contro la violenza - che ne è il rovescio - e trae da questo processo irrazionale la superiorità morale con la quale si fregia: «che stupidaggine la guerra!».

Così, interpellando i propri governanti ed accusandoli di incoscienza e di irresponsabilità, il cittadino pacifista si candida a consigliere del Principe con lo scopo di far luce sugli interessi reali della nazione. E meno sarà ascoltato, più sarà soddisfatto di aver atteso ai propri doveri di cittadino: dire al governo quel che pensa degli affari pubblici - e tanto peggio per il capo di Stato, se quest’ultimo si vedrà condannato dalla coscienza morale. Finché il cittadino, rivolgendosi al governo, riconosce la legittimità dello Stato, quest’ultimo può agire come più gli aggrada perché, contrariamente al cittadino pacifista, non si nega la possibilità di supplire alle lacune del proprio discorso, quando il caso lo richiede, con la messa in campo del proprio potenziale di distruzione, celerini compresi.

È così che il pacifista ha stipulato una pace separata con la società capitalista, della quale denuncia le "sbavature" senza mai metterla in discussione. A questa segreta complicità corrisponde un agire puramente simbolico. Con la sua attività febbrile, accendendo candele, firmando appelli su appelli, petizioni su petizioni, scarrozzando le proprie opinioni sul selciato della città, il pacifista non fa assolutamente niente. La pseudoattivìtà dei pacifisti e degli altri propagandisti del «diritto a...» imita, più o meno coscientemente, le tecniche pubblicitarie: suppone che la ripetizione incessante di atti simbolici e di slogan riduttori sia in grado di creare la realtà di una opposizione alla guerra e di "mobilitare la cittadinanza". Notoriamente, la morale gratuita si vende bene in tempi di guerra.

La pratica pacifista è il prolungamento, con altri mezzi, dei Life Aid Concert contro la fame nel mondo. Situata al di fuori del centro produttore della società capitalista, l’opposizione si costìtuisce nella sfera degli svaghi, del "divertimento politico", dove il cittadino crede di agire in quanto individuo autonomo e responsabile, sollevato dalla costrizione capitalista di guadagnarsi la vita. Questo genere di opposizione non può aver presa sulla realtà sociale perché lo scontro si svolge in una irrealtà mediatica che si spaccia per l’unica realtà: mentre i pacifisti producono l’immagine dell’opposizione alla guerra, i mass media riducono quella stessa guerra ad una operazione tecnologica, rivestita di abietta sentimentalità. Sono due interpretazioni, due immagini, a scontrarsi; la guerra e la società capitalista, intanto, lasciano fare e vanno avanti. È da qui che deriva la curiosa disinvoltura del cittadino pacifista nel ridiventare, l’indomani, semplice forza lavoro che, per vivere, deve svolgere determinati compiti tecnici. Astenersi moralizzatori: qui si lavora.

Così, l’individuo atomizzato - che non ha alcuna occupazione propria fuorché quella di vegliare sull’equilibrio della propria contabilità pecuniaria ed affettiva - calza di tanto in tanto la maschera da cittadino pacifista. Là sulla pubblica piazza - o piuttosto sulla piazza pubblicitaria -, proclama la propria alta moralità contro la mollezza del quotidiano che continua comunque a riprodurre nel privato, al lavoro. Il pacifista è un moralizzatore nella sfera dell’irrealtà mediatica ed agisce senza alcuna considerazione morale quando è nel centro produttore di uno Stato del quale rifiuta le malefatte guerriere. Questo doppio carattere del pacifista si chiama impotenza, nel migliore dei casi. Nel peggiore, ipocrisia.


LA GUERRA E I BARBARI

Non sarà soltanto dalle sponde della Neva o del Danubio che sorgeranno ormai le orde di Barbari chiamate al sacco della Civiltà, ma dalle sponde della Senna e del Rodano, del Tamigi e del Tago, del Tevere e del Reno […] Non saranno le tenebre, questa volta, che i Barabari porteranno al mondo, sarà la luce.

Joseph Déjacque

Ora che i padroni del mondo organizzano guerre in nome dell’Umanità; ora che vediamo apparire alla luce del sole strumenti di epurazione che ci avevano detto sepolti per sempre sotto la polvere della Storia; ora che i poveri del pianeta, come dei "Barbari" (i Greci chiamavano così sia gli stranieri, sempre inferiori, che i "balbuzienti", quelli che non padroneggiavano la lingua della polis, della città), sono alle nostre porte e presentano il conto dopo tante promesse ricevute - bisognerà pur porsi il problema di questa civiltà e della sua demolizione.

PERCHÉ LA GUERRA NELLA EX-JUGOSLAVIA?

Il lettore che cercherà in queste poche righe una interpretazione geopolitica convincente rimarrà deluso. Certo, esistono degli interessi politici ed economici precisi nello scoppio del conflitto nazionalista, così come ci sono delle ragioni commerciali e di controllo militare evidenti dietro le bombe della Nato. Vediamone alcune.

Gli Stati Uniti mirano a creare una zona di instabilità (che giustifichi la loro presenza militare, e quindi economica e politica) nel cuore di un concorrente europeo in via di unificazione mercantile e poliziesca. Inoltre, un’ex-Jugoslavia schiacciata dalla guerra accetterà con più "gratitudine" - e maggiori ipoteche - i successivi aiuti per la ricostruzione economica, altrimenti esorbitanti. Un controllo più diretto su di una zona tanto esplosiva - che si estende fino al cuore della Russia, terra immensa e spaventosamente devastata - appare come una delle poste in gioco fondamentali per gli anni a venire. Dal canto suo la Germania, tecnologicamente avanzata e installata meglio di chiunque nei Balcani, vuole rafforzare il proprio ruolo, questa volta dalla parte della Civiltà. Senza contare che l’esempio della Forza è sempre la migliore pubblicità - che sponsorizza e minaccia - di fronte a Stati suscettibili di raggiungere il campo del Bene. Per ricordare una banalità tanto spesso obliata, bisogna aggiungere che il mercato degli armamenti funziona solo grazie alla guerra e che armi estremamente sofisticate hanno bisogno di guerre tecnoburocratiche: intervenire contro la Serbia in nome dei Kossovari è militarmente più interessante che intervenire, per esempio, in Ruanda, dove la pulizia etnica ha già fatto fino ad ora un milione di morti. Ma per l’umanitarismo, lo sappiamo bene, gli uomini non sono tutti degni di crociate.

Tutte queste ragioni, che gli esegeti salariati della politica internazionale svelano persino nei dettagli, non evocano mai la sola questione che può rendere pericolose tutte le altre: la questione sociale.

LA GUERRA CIVILE

Alla guerra i civilizzati non oppongono che l’ideologia del dialogo e della risoluzione pacifica dei conflitti. Ma per dialogare bisogna pur avere dei valori comuni. Si reclamano e si proclamano valori detti universali nel momento stesso della loro scomparsa. I diritti dell’Uomo e del cittadino in grado di pacificare tutte le società non pacificano più nulla. L’ideologia dei due blocchi che si contendevano la scena mondiale e le speranze è crollata assieme a quella dell’appartenenza ad una classe operaia capace di conquistare il potere ("sociale", quando non politico) e di riorganizzare il mondo. Le sicurezze riguardo al futuro offerte dalla scienza non scaldano più i cuori tiepidi orfani della religione. Tutto questo è finito.

Lo sfruttamento rimane, ma la "comunità" creata per concentrare gli sfruttati - e i loro immaginari - è esplosa. La produzione, grazie alla telematica, si polverizza in strutture sempre più periferiche e diffuse sul territorio, così come si sono polverizzate le identità dei salariati. La memoria si eclissa di fronte all’eterno presente fabbricato dai mass media (soltanto la Notizia conta, il resto non esiste). La comunicazione umana (nel senso di messa in comune) si riduce, in seguito ad un impoverimento ogni giorno più profondo di quel che è chiamato "cultura". La tecnologia recupera a suo favore il dubbio scientifico e fa dell’incertezza programmata una nuova ideologia in grado di giustificare qualsiasi delirio di dominio sulla specie e sul pianeta. I potenti non hanno un progetto ("finché dura", ecco il loro motto). Gli sfruttati neanche. Dalla scuola ai luoghi di lavoro, dalla famiglia alla fiera degli svaghi, si esige una sola capacità: quella di adattarsi. È la guerra civile - una convivenza senza valori comuni né certezze per il futuro, un ordine che lega gli individui nella loro stessa separazione.

E se la guerra è sempre in corso, non c’è più bisogno di dichiararla, di sottolineare con atti formali la separazione tra "tempi di pace" e "tempi di guerra": la Serbia è bombardata da mesi, ma la Nato non le ha recapitato alcuna dichiarazione di guerra né ha atteso l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per aprire le ostilità.

Si tratta di una tendenza, è evidente; non già di un fatto uniformemente compiuto. Qui la guerra civile è larvata, altrove è terribilmente manifesta. Ma questo altrove è vicino. Come l’ex-Jugoslavia.

I nazionalismi, le rivendicazioni etniche o religiose sono la risposta autoritaria e gerarchica alla caduta dei valori, risultato a sua volta del declino delle antiche forme comunitarie. In effetti, laddove non ci sono autorità politiche affidabili nessuno vuole investire a lungo termine e il cannibalismo economico diventa, allora, il modo di funzionamento stesso del capitale. Le élite finanziarie e politiche si impongono attraverso uno scontro senza quartiere. L’antica burocrazia stalinista ha - paura di essere spazzata via e quella nuova, che ha imparato in fretta il mestiere ed il linguaggio degli affari, sa che la proletarizzazione è dietro l’angolo. Gli sfruttati sono inquieti, lunghi scioperi senza partiti né sindacati lo dimostrano. Cosa c’è di meglio di un conflitto etnico per creare dei nemici artificiali ed ingabbiare così ogni protesta contro l’ordine stabilito?

IL FILO NEL LABIRINTO

Da una simile situazione di guerra civile non ci sono che due uscite possibili: la guerra etnica o la tempesta sociale dello scontro di classe. La menzogna nazionalista o religiosa, accuratamente preparata attraverso la propaganda dei mass media, non è che l’ultima carta da giocare di fronte al pericolo di una rivolta generalizzata. Infatti, contrariamente alle favole deterministe sulla fine della storia, o al riformismo dei rivoluzionari al passo con i tempi, la possibilità di immense sollevazioni popolari non attende che l’occasione per scoppiare.

I potenti hanno ancora in mente le immagini dell’insurrezione in Albania di appena due anni fa: gli ammutinamenti dei soldati, le caserme bruciate e, superbo gesto di gioia collettiva, le prigioni assaltate. I Balcani sono una vera e propria polveriera collocata proprio al cuore dell’ordine mondiale. In questo senso, tutti i capi (bosniaci, serbi, croati, sloveni, ecc.) della burocrazia del dopo-Tito sono responsabili, così come la CEE, dello scoppio della guerra. In questo stesso senso, malgrado le apparenze, bisogna considerare Milosevic e i dirigenti della Nato come alleati nello schiacciare ogni rischio di ribellione.

Da questo cerchio magico del dominio non si può uscire con la creazione di nuovi Stati, che i padroni del mondo, Vaticano compreso, si affretteranno a riconoscere a seconda delle loro convenienze. Questi non fanno e non farebbero che organizzare, difendere e riprodurre i privilegi della classe dominante, così come l’insieme dei rapporti di dominio. Ogni autorità politica è accentratrice, quindi negatrice degli individui e delle loro comunità. In più, i gruppi dirigenti provengono sempre dalle etnie dominanti (non per forza numericamente dominanti) che, grazie agli strumenti governativi, uniformano o schiacciano ogni minoranza. Una volta messa in moto, la macchina del conflitto nazionalista conduce sempre alle varie forme di pulizia etnica (dalle deportazioni agli omicidi di massa, dall’integrazione forzata alla fuga). E nessun mezzo istituzionale (elezioni, autorità internazionali, ecc.) permette di opporvisi. Solo un cambiamento radicale dei rapporti sociali può farla finita con le frontiere, interne ed esterne, e con i mostri che queste partoriscono. Ma questo cambiamento non può cominciare che una volta distrutti lo Stato, il capitale e i loro eserciti.

Di fronte al sentimento di spoliazione che molti individui provano per una uniformazione mercantile che costringe ciascuno a sognare l’identico sogno senza passione, l’universalismo umanitario è tanto menzognero quanto il "differrenzialismo" - gerarchico ed interclassista - della nuova destra.

Le differenze reali si affermano fino in fondo (ben al di là delle appartenenze culturali e linguistiche), nel gioco libero e reciproco delle singolarità. L’uguaglianza reale (e non legale) è la condivisione di quel che abbiamo di più comune: il fatto di essere tutti diversi. Una comunità di individui unici, senza Stato, né classi, né denaro: ecco l’utopia delle intelligenze e dei cuori decivilizzati.

Un errare doloroso e terribile è oggi la condizione di milioni di uomini e di donne. Gli Stati li espellono, conducono guerre in nome loro per poi affidarli ad una falsa solidarietà e quindi alla polizia. Dalla pulizia etnica ai bombardamenti umanitari, all’esodo: questi poveri sono dei Barbari, ovunque stranieri. La lingua della tecnoburocrazia non sarà mai la loro. Come fare accettare, dunque, il dialogo a questi "balbuzienti"? Il giorno in cui si uniranno ai Barbari dell’interno - agli sfruttati di ogni paese - né la persuasione della polis, né il manganello della polizia potranno fermarli.

Quel giorno la demolizione appassionata, a suo modo incurante dell’avvenire, comincerà.


FACCIAMO QUALCHE NOME

Una delle poste in gioco del conflitto nell’ex-Jugoslavia è il futuro controllo economico di tutta l’area balcanica. Quel che rimarrà della federazione creata da Tito sarà spartito in aree direttamente controllate dai differenti paesi occidentali, in particolar modo dalla Germania, al Nord, e dall’Italia, al Sud. Se questo processo è in fase avanzata per Slovenia e Croazia, già da anni feudi tedeschi, è ancora in fase embrionale per la Serbia, il Montenegro e la Macedonia - paesi ricchi di risorse naturali e, soprattutto, di forza lavoro a bassissimo costo.

I padroni occidentali, piccoli e grandi, hanno messo da tempo gli occhi su queste regioni, ma le forti tensioni sociali rallentano gli affari e mettono a rischio i capitali investiti. L’insurrezione albanese del `97 li ha fatti amaramente riflettere: nel giro di due mesi molti imprenditori italiani hanno visto radere al suolo le proprie imprese e sono stati costretti ad abbandonare il paese.

Questa guerra, quindi, è anche uno strumento per tutelare i futuri investimenti occidentali, per proteggerli dai rischi di esplosioni sociali. Facciamo qualche nome di questi padroni in trasferta, in particolar modo di quelli italiani, e scopriremo che dietro questi bombardamenti si celano insospettabili imprenditori, potenti gruppi finanziari, banche ed enti locali.

Per il capitale italiano la porta dei Balcani è sempre stata, sin dai tempi dell’Impero, l’Albania. Ma è dall’inizio degli anni ‘90 che molti imprenditori di casa nostra si sono insediati stabilmente oltre il Canale d’Otranto e, se escludiamo lo scossone del `97, gli affari sono tanto promettenti che da qualche tempo si comincia a parlare di area economica integrata italo-albanese.

Ad attirare i padroni italiani in Albania è stato in particolar modo il costo bassissimo della forza lavoro: gli stipendi albanesi vanno dalle ottanta alle centoventimila lire mensili. Oggi, secondo l’ASSOCIAZIONE DEGLI INDUSTRIALI, le imprese italiane in Albania sono 600-700, per la metà pugliesi e quasi tutte di dimensioni medio-piccole. Queste si occupano di trasformare - attraverso processi produttivi ad alta intensità di forza lavoro - materie prime importate dall’Italia per poi riesportare, sempre verso l’Italia, i semilavorati ed i prodotti finiti.

I settori produttivi interessati da questi investimenti sono quelli tessile, calzaturiero, chimico, agroalimentare ed edile e quelli degli articoli in pietra, ceramica e ferrocromo.

Le aziende italiane non sono state lasciate sole nella loro opera di conquista. Soprattutto dopo l’insurrezione del 1997, sia il governo italiano che l’Unione Europea hanno fatto di tutto per sostenerle. Due linee di credito in loro favore sono state aperte dal settore di COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO DEL MINISTERO DEGLI ESTERI mentre il PROGRAMMA INTERREG 2 si occupa di finanziare la formazione dei quadri.

Il fondo AREE (ALBANIA RECONSTRUCTION EQUITY FOUND) - finanziato dal governo italiano, dalla BERS (BANCA EUROPEA PER LA RICOSTRUZIONE E LO SVILUPPO) e, con una quota aggiuntiva, dalla BANCA POPOLARE DI BARI - sottoscrive quote di capitale di rischio (fino ad un massimo del 49%) delle imprese che investono in Albania. In più, a Bari, verrà aperto un segretariato della REGIONE PUGLIA per il monitoraggio delle iniziative di cooperazione fra i due paesi. A suggellare in maniera definitiva l’ingresso massiccio dei capitali italiani in Albania è stata realizzata per la prima volta, nel maggio 1995, un’edizione della FIERA DEL LEVANTE oltre il Canale d’Otranto.

Oltre a questi appoggi in campo finanziario, i padroni italiani in Albania ed i loro partner locali stanno ricevendo un consistente aiuto da parte del governo italiano, che si è impegnato - dopo l’opera di riorganizzazione e di armamento delle forze dell’ordine - a collaborare intensamente con quello albanese per riformare il sistema legislativo, fiscale e giudiziario locale. In questo modo, in breve, anche le ultime difficoltà di ordine amministrativo, burocratico e sociale delle imprese italiane in Albania tenderanno a scomparire.

Il territorio Kossovaro è ricco di giacimenti di lignite, piombo, zinco, nickel, oro, argento, cadmio e magnesite. Il 70% della sua economia è rappresentato dalla Compagnia Elettrica del Kossovo - che produce la maggior parte dell’energia elettrica utilizzata non solo in Kossovo, ma anche in Serbia e in Macedonia - e dal complesso minerario e metallurgico di Trepca, il più importante dell’attuale federazione Jugoslava. Entrambi sono ancora controllati dalla Serbia, che ha già varato un piano di privatizzazioni. In più, una parte consistente delle altre aziende kossovare è sotto la tutela di gruppi imprenditoriali serbi.

Nel caso in cui al Kossovo fosse concessa l’autonomia - se non l’indipendenza - chi sarà considerato proprietario di questo patrimonio, chi sarà ad incassare i proventi delle privatizzazioni? Gli accordi di Rambouillet non hanno chiarito la questione. Così come non hanno chiarito a chi andranno i 416.000 metri quadrati di superfici produttive non sfruttati di proprietà del Fondo di Sviluppo della Serbia.

Le aziende dell’Unione Europea che vorrebbero mettere le mani sulle risorse kossovare non sono affatto di piccole dimensioni. Per l’Italia, è l’ENEL ad essere in prima fila, mirando al controllo della Compagnia Elettrica del Kossovo. Dal canto suo la PEUGEOT è in trattativa con la Zastava di Kraguejevac per l’acquisto della, fabbrica di ammortizzatori di Pristina. La Zastava stessa è a partecipazione FIAT.

Chi la fa da padrone nel settore metallurgico è invece la MITILINEOS, una holding greca che ha già in uso l’enorme complesso minerario di Trepca e che ha triplicato negli ultimi anni il valore delle proprie azioni grazie soprattutto agli investimenti nei Balcani, mentre l’Italia ha interesse esclusivamente alle miniere di magnesite.

Prima dello scoppio della guerra, il governo Serbo aveva intenzione di vendere la quota di controllo della Telecom serba - azienda che controlla sia le telecomunicazioni che il servizio postale. Gli unici candidati al suo acquisto sono gli altri due azionisti della società, la TELECOM italiana e la greca OTE, che possiedono per il momento il 49% delle azioni.


E SE VI CHIEDESSERO...

...«Chi finanzia la produzione delle armi in Italia? Chi finanzia la loro esportazione?»

Potreste rispondere: «La Banca Commerciale Italiana, l’Istituto San Paolo di Torino, il Credito Italiano, la Banca Nazionale del Lavoro, il Monte dei Paschi di Siena, la Barclays Bank Plc, la Banca di Roma, la Banca Nazionale dell’agricoltura, la Cariplo, la Cassa di Risparmio di La Spezia, la Banca Popolare di Bergamo - Credito varesino, il Credito Emiliano, la Banca Popolare di Novara, 1’Arab Banking Corporation, la Banca Popolare di Lodi, la Banca Popolare di Brescia, la Cassa di Risparmio di Torino, la Cassa di Risparmio di Firenze, il Banco di Chiavari e della Riviera ligure...»


LETTERA AGLI SFRUTTATI
A proposito del militarismo e del mondo che gli gira intorno

Che i proprietari siano sciovinisti, in nome dei loro palazzi; che i finanzieri elogino l’esercito che, al loro soldo, è di guardia di fronte alla Cassa; che i borghesi acclamino la bandiera che ricopre le loro merci - questo si spiega senza sforzo. Anche che certi mezzi-filosofi, gente di calma e tradizione, che numismatici od archeologi, che i vecchi poeti o i venduti si prosternino di fronte alla Forza - questo è ancora comprensibile. Ala che gli iloti, i maltrattati, che il Proletariato sia patriota - perché dunque?

Zo d’Axa

Il militarismo è al centro di questa società.

Il militarismo non è soltanto un insieme di istituzioni (la polizia, l’esercito...) create per difendere con la forza l’ordine stabilito, è anche una cultura - la cultura dell’obbedienza, della disciplina, della sottomissione, della negazione programmata di ogni individualità.

Il militarismo è ogni ordine urlato ed eseguito, ogni attività svolta senza averne deciso né le ragioni né i mezzi, ogni uniforme di stoffa e d’animo, ogni gerarchia, ogni causa santa che agita bandiere e chiama al sacrificio, ogni causa profana che sfrutta con la retorica della razionalità. Il militarismo è il capo al lavoro e la polizia nella strada.

Il militarismo è chiunque si indigni per la guerra senza indignarsi per il suo rovescio, per una pace fatta di gerarchia e di sfruttamento. È chiunque ci preghi di stare calmi - perché tutto ormai è così difficile, perché il mondo è ormai tanto cambiato, perché non ci resta altro da fare che accendere candele e fare il girotondo attorno alle basi militari.

Il militarismo è chiunque parli ed agisca in nome nostro; chiunque ci voglia soldati, anche se di eserciti sedicenti "rivoluzionari". Chiunque ci prometta un luminoso avvenire - purché si marci a file compatte all’ombra della sua bandiera.

Il militarismo è chiunque ci dica che è impossibile combattere il militarismo se non con i suoi stessi mezzi.

LA TELA DEL RAGNO

In questa società, è impossibile una netta separazione tra le istituzioni civili e quelle militari. L’economia dissemina il mondo di cadaveri attraverso il gioco delle speculazioni finanziarie. Le multinazionali che decidono, con il racket delle sementi, le sorti di quella che un tempo chiamavamo agricoltura, sono le stesse che producono e smerciano armamenti. Molte innovazioni tecnologiche entrano nel mercato civile solo dopo essere state elaborate e sperimentate dagli eserciti. Inoltre, la produzione di armi è possibile solo grazie alla collaborazione di numerose imprese non militari, come quelle dei trasporti, dei supporti elettronici e dell’ottica di precisione, per citarne solo alcune; questo senza contare ciò che permette ogni giorno il funzionamento dell’esercito, dai rifornimenti di cibo a quelli di vestiti, dai sistemi di comunicazione alla manutenzione dei macchinari. Per fare un altro esempio, l’industria nucleare - anche a prescindere dal problema del suo utilizzo in campo militare e da quello dell’avvelenamento della terra - ha bisogno di un’organizzazione e di un controllo simili a quelli dell’esercito. Più genericamente, l’attività economica si rivolge sempre di più verso l’amministrazione tecnoburocratica dell’ordine esistente e verso il controllo informatico della popolazione: tutti i giorni sentiamo parlare di video-sorveglianza, di raccolta di informazioni attraverso ogni sorta di supporto magnetico, di comunicazione tra le banche dati mediche, pubblicitarie e bancarie e quelle della polizia.

I NODI DELLA TELA

I bombardamenti nell’ex-Jugoslavia e il massacro dei kossovari sono da sempre tra noi, in tutto quel che non chiamiamo «la guerra». Sono nei calcoli dell’industriale e nella sottomissione dell’operaio. Nella voce del maestro e nell’obbedienza dell’allievo. Nel comizio del politico e nella noia del cittadino. Sono nel ticchettio degli orologi, sono in ogni ruolo sociale.

Ma se la macchina militare, quella che ogni giorno rende possibili le guerre nel mondo, ci appare come un mostro intoccabile, è perché non ne vediamo la presenza concreta sul territorio, tutte le tessere, anche le meno evidenti, che compongono questo mosaico di morte. È perché non ne vediamo i mandanti, tutte le istituzioni politiche ed economiche, tutte le aziende ed i gruppi finanziari che la mettono in moto.

Con una presenza più discreta delle sue strutture e con il futuro esercito professionale, la macchina militare diventa sempre più "invisibile"; ma più diventa "invisibile", più assorbe e penetra il sociale, dandogli l’aspetto di un’enorme caserma.

Ecco perché tutti i discorsi sulla separazione tra economia di pace ed economia di guerra sono privi di fondamento. Allo stesso modo sono astratti - di un’astrazione sempre funzionale per il potere - i propositi di riconversione civile delle strutture militari o quelli di obiezione fiscale alle spese militari (d’altronde impossibili da distinguere, vista la natura globale del budget dello Stato).

TAGLIARE I NODI

I genocidi, le violenze istituzionalizzate e gregarie, le gerarchie di ferro, la cieca obbedienza, la deresponsabilizzazione totale degli individui, vanno smascherati e combattuti: sono i mezzi della guerra. Insieme a loro vanno rifiutati i piani di spartizione dei potenti, dei capitalisti e degli Stati - vale a dire gli obiettivi della guerra, anche quando questi vengono raggiunti attraverso la diplomazia. Allo stesso modo, della produzione mercantile bisogna rifiutare non solo gli obiettivi - il profitto al di sopra di tutto e di tutti -, ma anche i modi: la divisione tra chi decide e chi esegue, la specializzazione, il dominio delle macchine sugli uomini, l’assoggettamento della natura e l’alienazione dei rapporti.

Sabotare la loro guerra, quindi, deve voler dire attaccare la loro pace: in tutti i mille fili e i mille nodi della tela del ragno militare. Ma senza farci organizzare e senza farci dirigere. Altrimenti, anche senza uniforme, anche in tempo di pace, rimarremo tutti dei soldati, complici e vittime di un’immensa impresa di morte.

Caricare, puntare... fuoco! Ed il soldato Masetti sparò. Ma al suo capitano.


IL RACKET NAZIONALISTA

L’esodo, lo sterminio o la resistenza: sono queste le tre alternative per gli abitanti del Kossovo di fronte all’avanzata dell’esercito jugoslavo e ai bombardamenti della Nato. La prima e la seconda le conosciamo bene, le immagini delle carneficine e dell’esilio forzato sono ancora nei nostri occhi di telespettatori occidentali. La terza possibilità, da quel che possiamo sapere da quaggiù, è rappresentata per ora solo dall’Uck, l’Esercito di Liberazione del Kossovo. Ma quale è il prezzo che gli sfruttati dovranno pagare a questo nuovo esercito nazionalista?

Il nazionalismo, in tempi di pace, è un imbroglio ideologico che toglie spazio alla lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori. O da una parte o dall’altra, intima il nazionalismo - sfruttati e sfruttatori insieme per combattere "il nemico comune".

Ma quando la guerra divampa - quando non è più una semplice minaccia -, quando arriva un esercito ad uccidere e ad incendiare, il nazionalismo smette di essere soltanto un imbroglio ideologico: diventa un racket pratico, duro come la pietra. Il caso dell’Uck illustra bene questa situazione. Gli sfruttati che, armati, si difendessero contro l’invasore di oggi potrebbero, se lasciati soli, attaccare i padroni di domani - la dirigenza nazionalista. Ora come ora, invece, la rabbia contro l’invasione serba viene facilmente convogliata nelle file dell’Esercito di Liberazione, e quindi controllata. Non dimentichiamo che l’Uck ha, insieme all’esercito jugoslavo, il monopolio delle armi; e senza armi non ci si può difendere. Per molti kossovari che vogliono resistere ai piani di Milosevic, così, la scelta diventa "obbligata": o con 1’Uck o disarmati.

I vecchi nazionalisti dell’Esercito di Liberazione hanno a disposizione, così, le truppe che sono sempre mancate loro ed hanno finalmente la possibilità di diventare la dirigenza kossovara del futuro, scalzando il loro antico rivale Rugova.

Le radici dell’Uck affondano nel terreno fertile delle rivolte e delle repressioni che hanno segnato il Kossovo degli ultimi diciotto anni. Fondato nel 1992, 1’Uck è figlio di alcuni gruppi maoisti e marxisti-leninisti che, sin dal principio degli anni ‘80, lottavano per l’unificazione del Kossovo all’Albania di Enver Hoxha.

È solo dal 1996, però, che questa organizzazione comincia a farsi conoscere e a diventare un concorrente serio di Rugova, leader indiscusso dell’opposizione ai serbi. Armato ed addestrato dalla Germania - concorrente storica della Serbia nei Balcani - 1’Uck comincia a strutturarsi come un vero e proprio esercito, compie attentati contro i campi dei profughi serbi della Krajna e guadagna l’appoggio del presidente albanese Berisha. Da questo momento in poi l’elemento marxista-leninista tenderà vieppiù a sfumare, per lasciare spazio esclusivamente a quello nazionalista: l’obiettivo dichiarato è la costruzione della Grande Albania - l’unione della Repubblica Albanese attuale con il Kossovo, la parte meridionale del Montenegro e la metà occidentale della Macedonia. Non è un caso, quindi, che quando i nazionalisti albanesi otterranno finalmente il controllo, nel 1998, di un terzo del Kossovo, nei "territori liberati" perseguiteranno le minoranze serbe, tzigane e gora.

Sin dal 1996 la direzione dell’Esercito di Liberazione sceglie di chiedere soccorso ai clan kossovan e d’Albania, che controllano pressoché completamente la diaspora albanese. È alla luce di questa solida alleanza che dobbiamo interpretare gli appelli alla mobilitazione fatti dall’Uck in questi mesi: sono ordini di coscrizione obbligatoria, così come è obbligatone la "tassa rivoluzionaria" richiesta agli emigranti. Embrione del prossimo governo kossovaro, il comitato politico dell’Uck delibera. I clan, la polizia del futuro, fanno eseguire le decisioni.

Ecco, allora, quel che costerà agli sfruttati kossovari l’Uck: la creazione del nuovo Stato, del prossimo dominio, quando cesseranno i bombardamenti.


 
 

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