#lang it #title Autorganizzazione come etica, come modo di vivere *UN’UTOPIA AGITA IL MONDO. Cinque incontri sull’autorganizzazione*. Rovereto, 28 novembre - 19 dicembre, sala di Palazzo Balista, corso Rosmini 13 Giovedì 28 novembre 2002, ore 20:30
**Autorganizzazione come etica, come modo di vivere**
**Individuo e società, violenza e non-violenza**

IL TEMA DI STASERA è l'autorganizzazione come etica, come modo di vivere. Vorrei cominciare con un passo tratto da *Le città invisibili* di Calvino: *L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo vivendo insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. II primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. II secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.* Ecco, per me questo qualcosa che non è inferno, questo qualcosa da far durare e a cui dare spazio è un'etica, *l'etica della reciprocità*. A chi è talmente parte dell'inferno contemporaneo da non vederlo più non ho nulla da dire. C'è forse bisogno di dimostrare che quello che chiamano vivere civile è un quotidiano omicidio di massa, una quotidiana carneficina di dignità, uno spaventoso accumularsi di protesi tecnologiche che ci rendono ogni giorno più massificati e allo stesso tempo più isolati? Più che un ennesimo inventario degli orrori, ciò che serve è cogliere l'essenza di questo inferno al fine di scorgere, appunto, ciò che non è inferno. E l'essenza è la divisione in dirigenti ed esecutori, una divisione che la produzione massificata - dal cibo alle telenovela, dall'energia ai massacri in mondovisione - ha portato a livelli giganteschi. Nel corso di tutte le società basate sul dominio - cioè sull'assoggettamento delle popolazioni ad opera di qualche minoranza - è successo che un elemento di questo dominio abbia preso il sopravvento su tutti gli altri. È quanto è accaduto con il capitalismo, un sistema sociale in cui il motivo economico tende a soppiantare tutti gli altri. Se le conseguenze del capitalismo sono state l'industrializzazione e il concentramento urbano, è importante coglierne le cause specifiche: - l'accelerazione enorme del cambiamento tecnico, legata allo sviluppo della scienza; - la nascita e il consolidamento dello Stato moderno, centralizzato e burocratico, base e modello dell'impresa capitalista nascente; - la creazione della nazione come spazio mercantile e giuridico unificato; - la nascita di un nuovo tipo umano, in senso antropologico, caratterizzato dalla mentalità del calcolo e del guadagno, il cui tempo è quello scandito e misurabile. La divisione in dirigenti ed esecutori si rafforza con la specializzazione dei ruoli, la quale tende a soppiantare il comando autoritario con il potere apparentemente impersonale dell'esperto. OGGI, ASSISTIAMO ANCORA una volta a uno di questi processi che porta un elemento del sistema a dominare tutti gli altri. Si tratta del movimento sempre più autonomo della tecnoscienza, dei suoi apparati, dei suoi linguaggi. Questo processo, che dalla seconda guerra mondiale ad oggi ha creato una Megamacchina in cui si sono fusi la ricerca scientifica e l'industria, il sistema militare, quello politico e mediatico, tende a ridurre ed eliminare il ruolo dell'uomo nella produzione. L'uomo è da sempre l'elemento più difficile da dominare, ecco perché il potere ne ha fatto qualcosa - per dirla con Gilnter Anders - di *antiquato*. Arginare la resistenza degli sfruttati è stata la preoccupazione costante che ha unito, in particolare negli ultimi decenni, le esigenze del profitto e quelle del controllo sociale. Interrogarsi in senso astratto sulla "tecnica" senza riferirsi alla storia e ai conflitti sociali che hanno fatto del capitalismo sempre più una *società tecnologica* è un nonsenso buono per i sociologi. Allo stesso modo, inorridire di fronte all'inferno delle guerre telematizzate e degli esperimenti nucleari - oppure, andando indietro, dei campi di concentramento e di sterminio - senza guardare nel ventre mostruoso da cui sono nati e nascono ancora è un modo per illudere se stessi. IL CONTRARIO DELLA DIVISIONE in dirigenti ed esecutori è l'autonomia individuale e collettiva. E se autonomia significa capacità di dare a se stessi le proprie regole, un'attività autonoma è un'attività di cui gli individui controllano gli strumenti e le finalità. Quando gli strumenti *agiscono da soli*, quando la specializzazione dei ruoli liquida la comprensione complessiva dei nostri atti e quindi la coscienza delle loro conseguenze, dov'è l'autonomia? Quando si può lavorare alla catena di montaggio di una fabbrica di armi con la spensieratezza di una musica in filodiffusione, dov'è la coscienza? Come collegare i nostri gesti ai corpi dilaniati da qualche bombardamento con cui la televisione condirà la nostra cena? Perché porsi il problema, dal momento che, lavoratori salariati, appariamo socialmente *onesti*? Fra gli integrati, chi vedrà l'inferno nel nerbo stesso di ciò che ci tiene insieme? PENSO CHE L'ETICA DELLA RECIPROCITA sia la base che può chiarire il concetto di autorganizzazione e gettare allo stesso tempo un po' di luce sul problema della violenza e della non-violenza. Autorganizzarsi significa organizzarsi da sé e anche organizzare se stessi - le due cose vanno assieme ma non coincidono. Per organizzare la propria attività bisogna organizzare il proprio sapere, il proprio linguaggio, le proprie capacità manuali e così via. E viceversa, per sviluppare se stessi (per organizzare le proprie attitudini in modo spontaneo e affinato) occorre poter agire autonomamente. Ora, quando parliamo di *auto*-organizzazione, chi è l'*autós*, il "se stesso" di cui si parla, il soggetto che si organizza, appunto, "da sé"? Per non cadere in visioni astratte e gerarchiche bisognerà rispondere: l'individuo. Anche le società più totalitarie, infatti, organizzano "se stesse" e si organizzano "da sé", in quanto le cause della loro continua auto-istituzione sono immanenti, non provengono da nessun al di là. Solo che al loro interno una minoranza comanda e la massa ubbidisce, allo stesso tempo attiva e passiva, complice e vittima. Prima ho detto: l'individuo, ma avrei potuto dire: gli individui. Per l'uomo che nasce, il dato del mondo che lo accoglie è la pluralità degli uomini, tutti diversi e tutti unici, come si rivela anche solo allo sguardo. Se, come diceva Hannah Arendt, l'azione è la risposta tipicamente umana al fatto di essere nati, l'introduzione della novità e della discontinuità in un ordine già-fatto, la reciprocità è la condizione che assume fino in fondo la pluralità degli uomini, per cui dire "individuo" significa sempre dire "individui". L'etica della reciprocità afferma: come tu a me, così io a te. Facendo dell'uguaglianza il *luogo* in cui si esprimono le differenze, essa coniuga l'universalismo con l'affermazione dell'unicità dell'individuo. L'unica cosa che ci rende davvero uguali, l'unico dato davvero comune, universale, è il fatto che siamo *tutti diversi*. A questo proposito, è comico e tragico insieme vedere come i sociologi di sinistra siano incapaci di andare oltre le risposte impacciate e false nei loro colloqui con i nuovi teorici del razzismo, i quali, abbandonati i rozzi appelli alla biologia (la pelle, il sangue, eccetera), parlano di diversità culturale e accusano l'universalismo di distruggere le differenze reali (etniche, storiche, eccetera). Non riferendosi all'unica universalità concreta - l'individuo - questi sociologi non sanno attaccare la menzogna di fondo del nuovo razzismo: le differenze di cui esso parla sono sempre collettive, e cioè sono identità monolitiche per gli individui presenti all'interno di una stessa "cultura", di una stessa "nazione" e così via. Ma questo sarebbe un discorso lungo; ho voluto solo accennarvi. L'ETICA DELLA RECIPROCITÀ è un'etica per cui "giusto" non è fare questo o quello; "giusto" non è il costume di una comunità piuttosto che quello di un'altra: giusto è ciò che permette alle diverse concezioni individuali di ciò che è giusto e sbagliato di esprimersi. Relativismo assoluto che accetta qualsiasi cosa e il suo contrario? Nient'affatto. Si tratta di un *metodo* che nega ogni sopraffazione e ogni dominio, dell'intolleranza assoluta verso ogni regola imposta dall'esterno. Il dominio si caratterizza soprattutto per l'usurpazione di facoltà collettive da parte di una minoranza. Benché la violenza ne sia il fondamento (nessun potere gerarchico si regge senza il gendarme), violenza e dominio non sono sinonimi. Vi sono metodi di dominio in cui la violenza in senso stretto (inflizione, reale o minacciata, di sofferenza fisica) non è presente, perché la loro natura è più subdola (pensiamo, ad esempio, alla pubblicità); così come esiste una violenza che non è finalizzata al dominio, bensì alla liberazione dal dominio. Ma su questo ritornerò. In generale, penso si possa definire violenza in senso più profondo la negazione sistematica della reciprocità, cioè l'imposizione *unilaterale* delle condizioni. Tutto ciò che accetto di compiere spinto dalla necessità (politica e non "naturale") di sopravvivere, non lo accetto forse sotto minaccia? Non è uno stato di necessità che mi fa subire "accordi" che non ho mai sottoscritto né condiviso e che chiamano "leggi"? Non è per questo che svolgo un'attività lavorativa di cui non capisco il senso, di cui non controllo le conseguenze e i cui effetti mi possono anche sembrare socialmente nefasti? Se non mi ribello ogni volta che ne ho l'occasione, non è forse per paura? Quello che passa per lo più per non-violenza è questa paura di fronte alla violenza, è il fatto di rimanere alla finestra mentre l'inferno continua. In tal senso, il 99% dei nostri contemporanei è composto da "non-violenti". Vi sembra una provocazione? Se la reciprocità è il metodo per una comune libertà individuale, allora l'autorganizzazione ne è la forma sociale. Autorganizzazione come etica sociale, allora, come modo di vivere, le cui condizioni sono il dialogo reale, la libera assemblea, il rifiuto di ogni rappresentanza irresponsabile. E non è forse irresponsabile votare qualcuno ogni cinque anni senza poter incidere su quello che ha fatto prima de! nostro voto né su quello che farà dopo? E pensare che chiamano ciò "elezione", cioè scelta in senso forte! Un modo autonomo di organizzarsi presuppone non già il rifiuto di ogni forma di suddivisione dei compiti, ma il rifiuto della loro specializzazione gerarchica e incontrollabile - oggi potremmo aggiungere, pensando alle conseguenze della tecnologia sulla natura e sulla specie umana: irreversibile. In una tale autonomia mi sembra coincidere l'autentica *paideia*, come dicevano i Greci, cioè l'autoeducazione degli individui. Se teniamo presente la definizione di azione come discontinuità di un ordine già-fatto, pensiamo a come si svolgono le nostre giornate, fra continui obblighi impersonali eppure terribilmente concreti, e chiediamoci: quand'è che *agiamo*? Quand'è che le nostre parole e i nostri gesti modificano, *nel senso dell'autonomia*, il mondo in cui viviamo? II mondo lo trasformiamo eccome, e sempre più in modo globale, solo che siamo prigionieri dei nostri cambiamenti. Ascoltiamo Anders: *Cambiare il mondo noli basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d'interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.* INDIVIDUO E SOCIETÀ, VIOLENZA E NON-VIOLENZA. Una società libera è una società di cui gli individui autocreano continuamente gli accordi, i saperi, i linguaggi. Una società che ha liquidato ogni violenza strutturate è una società basata sulla reciprocità. Il contrario di reciprocità è unilateralità, cioè sfruttamento degli uni da parte degli altri. Fin in epoca moderna, il concetto di "società" sottolineava l'aspetto volontario e non-violento, cioè reciproco, degli accordi fra individui. Diversamente, infatti, si sarebbe sudditi, non *soci*. Voglio soffermarmi ancora sulla nozione di etica, prima di affrontare il tema della violenza e della nonviolenza. CI SONO DUE SIGNIFICATI che, fin dall'antichità, coabitano nel concetto di etica. L'etica è qualcosa di profondamente individuale - Eraclito diceva "etica è a ciascuno il suo demone", e il demone è il proprio modo di essere, sia nelle sue determinazioni coscienti sia nei suoi aspetti più oscuri ed enigmatici. Questo demone non è un giudice che detta le sue leggi, come sostiene una ben nota tradizione filosofica, ma una voce che ora parla per allusioni, ora urla con la forza dell'evidenza. I suoi sono geroglifici dell'anima, e l'anima, diceva ancora Eraclito l'oscuro, non ha confini. L'etica non è un'insieme di norme, dunque, ma una continua esplorazione. Ma l'etica - l'*ethos* - è anche qualcosa di collettivo, attinente ai costumi, ai saperi, al modo di abitare - insomma, è quello che si definisce per lo più "morale", per quanto i due termini siano il secondo la trascrizione in latino del primo (*mores* e *ethos* sono, infatti, sinonimi). Perché queste precisazioni? Non per uno di quei vani esercizi di etimologia con cui si sostiene tutto e il suo contrario, ma per chiarire che quando parlo di un'etica della reciprocità parlo di qualcosa di profondamente personale e insieme di un *luogo* collettivo, quello dell'autorganizzazione delle lotte e della vita. E chi dice lotta e vita, dice rapporti, saperi, linguaggi, tecniche. Quest'etica deve essere "globale" perché le conseguenze dei nostri gesti lo sono, nel tempo come nello spazio. Essa afferma, come Ugo da San Vittore faceva nel XIII secolo: *L'uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l'intero mondo è un paese straniero.* Questo è il solo modo che trovo di essere solidale con chi è clandestino e con tutti gli umiliati della Terra. Nel mondo della reciprocità non esistono stranieri perché non ci sono cittadini. Il luogo dell'*ethos* va pensato in senso non territoriale. L'etica della reciprocità emerge là dove il dialogo forgia le sue armi e sovverte l'ordine delle cose; ancora una volta, nell'autorganizzazione. Ma di questo - dell'autorganizzazione come metodo di lotta e come pratica sociale - parleremo durante le prossime serate. L'autonomia reale è un modo dì vivere il rapporto fra ciò che è pre-individuale e ciò che è individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico, come le facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali che troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra azione. Noi *diventiamo* individui attraverso il nostro modo di entrare in rapporto con la natura e con la storia. Autonoma è una società in cui tale rapporto non è fissato in nessuna istituzione esterna - come lo Stato o l'impresa capitalista - all'azione reciproca degli individui; in cui la discussione, l'amore, il gioco, il conflitto e la riproduzione delle condizioni materiali sono attività fra loro armoniche; in cui non esistono un'economia, una politica, un'arte o una scienza come sfere separate della vita. ANCORA DUE PAROLE SU individuo e società. Si sa che secondo le varie teorie del contratto sociale gli individui avrebbero rinunciato, a un certo punto della storia, alle loro libertà naturali in cambio della protezione fornita dalla società politica, cioè dallo Stato. Vi siete mai chiesti con che lingua comune hanno potuto mai stipulare un simile contratto dal momento che essi vivevano fuori della società? Il libero accordo non è l'inizio, bensì il risultato mai raggiunto di una lunga esperienza sociale. Reciprocità significa: la mia libertà esiste solo grazie alla libertà degli altri. Penso che una vita piena sia una vita che sa mescolare con arte il piacere della solitudine e il piacere dell'incontro. La società massificata distrugge entrambi. Qualcuno ha parlato opportunamente, rispetto alla vita contemporanea, di eremiti di massa. Siamo continuamente *socializzati* in un sistema-mondo dalla pubblicità e dalle mille protesi tecnologiche e allo stesso tempo siamo separati dai nostri simili. Gli spazi privati e quelli pubblici sono sempre più indifferenziati e sempre più anonimi. Dopo la natura selvaggia, è scomparsa ogni *agorà* e ogni libera assemblea. Credo che una nuova solitudine e una nuova socialità nasceranno insieme, oppure ogni individualità diventerà *antiquata*. E VENIAMO ORA ALL'ULTIMA QUESTIONE: violenza e non-violenza. Quelle che seguono sono solo alcune banalità di base per cominciare a discutere davvero. Mezzi e fini: questa è, si dice, la politica. L'esperienza tragica almeno dell'ultimo secolo ci insegna che non ci può essere separazione fra mezzi e fini, che i mezzi contengono già i propri fini. All'autonomia si giunge solo con l'autonomia. All'autorganizzazione della vita si arriva solo autorganizzando le lotte. Occorre ancora dimostrarlo? Non lo hanno già fatto la dittatura stalinista e la lunga storia del parlamentarismo? Tagliamo corto: chiunque parli di società non-violenta senza riferirsi esplicitamente alla demolizione dello Stato e del capitalismo ha non uno, ma tanti cadaveri in bocca. Uno Stato non-violento è una contraddizioni in termini. Il Diritto lo sa, e infatti parla di monopolio legittimo della violenza. Legittimo? E chi lo dice? Lo Stato. II non-violento ci crede. Nel migliore dei casi ha preso per buona l'immagine che questa società dà di se stessa, quella di un pacifico mercato interrotto, ahinoi, da qualche violenza. Se l'etica non ha nulla a che vedere con il diritto - ché ubbidendo alle leggi si diventa oggi più che mai dei complici nell'omicidio di massa -, la non-violenza non ha nulla a che vedere con il codice penale. "Il nonviolento è tale solo quando rischia più del violento", scrive un compagno - Vincenzo Gugliardo - incarcerato da quasi vent'anni per aver partecipato alla lotta armata. Da anni impegnato a trovare dei modi di lotta per ridurre il più possibile la violenza nel mondo e per abolire ogni logica sacrificale, ha scritto dopo Genova che serve a poco sfidare le zone rosse se non si disertano le zone grigie. La zona grigia, nel linguaggio di Primo Levi, è quella della collaborazione fra alcuni internati nei Lager e i loro carnefici e, più in generale, fra un popolo e i suoi oppressori. Non è ancora oggi la nostra collaborazione la zona grigia che fa continuare l'inferno? E allora si può essere non-violenti senza rifiutarsi di collaborare con lo Stato? Si può essere non-violenti e appoggiare chi bombarda intere popolazioni, affama e desertifica paesi interi, oppure rinchiude chi non ha i documenti in regola? Si può essere non-violenti ed accettare il carcere? Il fine della non-violenza non può essere che una società senza Stato e senza dominio. Utopia? Certo, e bisogna scegliere fra etica e realismo politico. Penso che tutto quello che tende concretamente verso una tale società sia liberazione in atto. Si potrà forse realizzarla, una simile società, senza scontrarsi con la polizia? Così scriveva Aldo Capitini, uno dei maggiori teorici della non-violenza in Italia: *La nonviolenza non è appoggio all'ingiustizia... Bisogna aver chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo metodo e la sua realtà... La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata.* Capitini, ma potremmo citare lo stesso Ghandi, propugnava il sabotaggio delle strutture oppressive come metodo di lotta non-violenta? Che dicono i "nonviolenti" che urlano al terrorismo, cioè alla violenza cieca e indiscriminata, quando qualcuno sabota una centrale nucleare o un laboratorio di biotecnologie? Simili azioni producono o distruggono la violenza? Non-violenza è qui un altro nome per ignavia e viltà. IL PUNTO È CHE TUTTI I DIFENSORI DELL'ORDINE definiscono non-violenza il rispetto della legalità e del dialogo democratico. Quasi tutti quelli che si chiamano nonviolenti accettano questa mistificazione. Eppure le maggiori violenze commesse dallo Stato sono perfettamente *legali*, cioè giuridicamente giustificate, per il semplice fatto che è la forza (non solo in senso militare, ma economico, mediatico, sociale) a fondare il Diritto. Il "dialogo democratico", poi, è il contrario esatto di un dialogo reale: per dialogare veramente, lo abbiamo visto, bisogna essere in una condizione di reciprocità. Se qualcuno ha il potere di imporre unilateralmente le domande, le risposte gli saranno sempre funzionali. In quel caso si può dire che le domande si rispondono da sole. Un generale americano e un ragazzo afghano possono dialogare nella misura esatta in cui Agnelli e i suoi operai in sciopero sono uguali di fronte alla legge. "Violento", "terrorista" è oggi chiunque rifiuti il dialogo con le istituzioni, chiunque distrugga anche solo le macchine per far parlare gli uomini. Chi comanda, definisce il senso delle parole. Chi definisce il senso delle parole, comanda. Perché per i dirigenti è così importante imporre il *loro* senso alle parole? Perché sanno che una ribellione contro la legge è una possibilità che esiste concretamente nel mondo; perché sanno che dove gli umiliati, i dominati, gli sfruttati dialogano realmente non c'è spazio per il dialogo fittizio della democrazia. Per questo i libertari fanno paura, perché l'autorganizzazione di cui parlano esiste già. Mi pongo e vi pongo un ultimo interrogativo: è sufficiente limitarsi a distruggere le strutture oppressive quando la polizia spara e tortura, quando gli stermini continuano in ogni parte del pianeta? E su questo lascio ancora la parola a Günter Anders, che così scriveva nel 1987, a ottantacinque anni, dopo aver vissuto il nazismo, Hiroshima, il Vietnam e Chernobyl. *Dal momento che non ci è concesso di restare indifferenti di fronte alla nostra fine e a quella dei nostri figli - una tale indifferenza sarebbe omicida - non dobbiamo neanche rifiutare la lotta contro gli aggressori con l'argomentazione secondo cui il comandamento `Non uccidere" non ammette alcuna eccezione. Esso l'ammette. Anzi l'esige. E ciò nel caso in cui attraverso l'atto-eccezione vengano salvati più uomini di quanti ne muoiano a casa sua. Dobbiamo cioè accettare la guerra a cui siamo costretti. E questo - noi non saremmo certamente i primi, ma saremmo certamente gli ultimi! - con la stessa disperata risolutezza con cui mezzo secolo fa migliaia di uomini e donne nei Paesi europei oppressi da Hitler hanno (o avrebbero) dovuto accettare la lotta contro la politica di sterminio del nazionalsocialismo.
Ancora oggi, perfino fuori della Francia, la parola résistance non ha perduto il suo bel suono. Dovremmo forse vergognarci di fronte alla generazione d'allora? Allora, infatti, furono solo i più ignobili ad avere il 'coraggio della viltà'. ossia il coraggio a non opporre nessuna resistenza, vantandosi persino, come fanno oggi certi oppositori al nucleare, di limitarsi alla 'resistenza nonviolenta' per motivi giuridici, morali o religiosi. A causa di una tale autolimitazione perirono allora un gran numero di persone. Oggi si tratta di un numero incomparabilmente più grande di allora. Perché il pericolo di oggi non solo è più grande di allora, ma è - il comparativo non basta più - totale. E potrebbe essere definitivo.
Per questa ragione noi contemporanei possiamo permetterci ancor meno di accontentarci di 'happenings', o addirittura vantarci di un tale accontentarsi. Piuttosto, adesso dobbiamo invece cercare di combattere gli odierni nemici e aggressori con la medesima mancanza di riguardi con cui quarantacinque anni fa i partigiani cercarono di combattere, di indebolire o di uccidere gli occupanti e oppressori nazionalsocialisti dei loro Paesi. E pertanto anche noi dobbiamo sentirci in dovere di diventare dei partigiani.* Rovereto, 28 novembre 2002 Massimo Passamani