IL VIAGGIO - Numero 6 - Aprile 2002

***Vi parleremo di noi**, questa volta. Di una nostra piccola avventura, dei rapporti e della complicità che da questa sono nati. Alcune settimane or sono eravamo a Porta Palazzo a distribuire “Il Viaggio” e altro materiale contro le retate poliziesche ai danni dei clandestini, contro le espulsioni, i lager. Ma in via Cottolengo, una pattuglia di carabinieri ci ha fermato: volevano i nostri documenti, i permessi per distribuire il giornale… volevano semplicemente mandarci via. Un banale controllo, come ce ne capitano spesso. Ma questa volta, accanto al nostro banchetto sono accorse svariate decine di ragazzi, quasi tutti stranieri, che in quella via si trovano a passare, a vivere, a lavorare. Anche se minacciati dai carabinieri — che volevano risolvere la questione “tra italiani” —, questi ragazzi sono rimasti accanto a noi, a sostenerci e a difenderci. E anche quando i carabinieri hanno provato a usare le maniere forti — con penosi risultati, peraltro — nessuno si è mosso: anzi, sempre più gente giungeva per darci una mano. Alla fine, i carabinieri non sono riusciti né ad identificare né a portare via nessuno.
La solidarietà, quella di strada, non ha bisogno di molti discorsi. Quella mattina è bastato riconoscere un nemico comune, i carabinieri. Nemico che in questa occasione ce l’aveva con noi, ma che in molte altre ha preso, picchiato o imprigionato tanti di quei ragazzi accorsi al nostro banchetto. I documenti, le carte di identità che i carabinieri esigevano da noi quella mattina, molti di quei ragazzi non li hanno: è per questo che abbiamo scelto di non darli nemmeno noi. Perché non accettiamo che un pezzo di carta divida uno sfruttato dall’altro, perché in un mondo che ci vuole tutti più poveri, più soli, più controllati, siamo tutti stranieri, siamo tutti clandestini.
Quei ragazzi, quella mattina, ce l’hanno dimostrato: la fratellanza, la solidarietà, la complicità non sono qualcosa di legato ad una supposta identità nazionale. L’essere fratelli, compagni di viaggio e di lotta, significa riconoscere i mali comuni e chi li causa; significa vedere concretamente il proprio nemico e avere la consapevolezza che bisogna cominciare a parlarsi ed organizzarsi per resistergli. Vogliamo dunque ringraziarli, quei ragazzi, per la loro solidarietà e il loro coraggio, per aver scelto di mettersi in gioco con noi, anche solo per una mattina, per averci indicato una lotta comune possibile.
In una Torino dove gli attacchi dei padroni si fanno sempre più frequenti e spietati — più retate, più miseria e controllo per tutti —, dove l’intenzione dell’amministrazione comunale è quella di “ripulire” dai poveri in eccesso San Salvario e Porta Palazzo, la nostra unica possibilità è riscoprire la solidarietà di strada, la complicità della lotta contro i comuni oppressori, la resistenza degli sfruttati, italiani e stranieri uniti, nei quartieri. Scendere in strada per impedire le retate, le espulsioni, i pestaggi è un affare di tutti.*

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***“Il Viaggio”** è un giornale che, tendenzialmente, mira a comunicare con tutti. Tendenzialmente appunto. Ben al di fuori dei nostri interessi sta il dialogo con poliziotti, padroni e politici: questo dettaglio deve però essere sfuggito a qualcuno. Difatti ci troviamo, nostro malgrado, ad avere fra i nostri più assidui lettori i questurini della Digos di Torino. Proprio questi zelanti tutori dell’ordine qualche mattina fa, il 22 di aprile, hanno deciso di far visita a due dei redattori di questo giornale per una, pur cordiale, perquisizione dell’appartamento. Le guardie cercavano armi, ma di armi non ne hanno trovate: un’intimidazione, niente di più. Ci dispiace soltanto che abbiano potuto leggere questo numero de “Il Viaggio” prima di voi...*


Un'altra primavera

Alla fine è arrivata, la primavera. Ma quest’anno ha portato con sé un vento cattivo, che soffia forte sui quartieri più poveri di Torino e che sta rendendo la vita sempre più difficile a chi è arrivato in questa città per cercarsi una vita migliore. Questo vento non è affatto invisibile, ha un nome, un cognome ed un indirizzo: si chiama “Alto impatto”, veste la divisa della polizia, e nasce nelle stanze del Governo, da dove il Ministro degli Interni Scajola ha annunciato l’apertura ufficiale della caccia agli immigrati senza documenti. Pur essendo oramai vecchia di qualche mese, questa nuova offensiva contro i clandestini ha cominciato a dare i suoi frutti più aspri solo nelle ultime settimane. Sulle strade, nei bar e fin dentro alle case di S. Salvario e di Porta Palazzo si susseguono senza sosta le irruzioni della polizia che riempie il più possibile cellulari e volanti di stranieri poveri da portare in questura. Lì vengono identificati e chi non viene espulso immediatamente, o non viene rinchiuso nel Centro di Permanenza Temporanea, torna a casa la mattina dopo con nelle tasche un decreto di espulsione che varrà dalla settimana successiva.

Qui in città, da quel poco che ne sappiamo, questa sorte è toccata a 158 albanesi, quasi tutti “accompagnati” alla frontiera, ad un centinaio di nigeriane, caricate in massa su un boeing 777 diretto a Lagos, e poi ancora a tantissimi rumeni, marocchini, algerini… Le proporzioni di queste operazioni sono tali da aver reso necessari frettolosi lavori di ampliamento del lager di Corso Brunelleschi — che verrà comunque trasferito in una struttura molto più grande, a quanto pare in fondo a Via Bologna.

Le dichiarazioni durissime di Scajola sull’immigrazione, poi, hanno aperto la strada alle operazioni più indecorose e vigliacche che tanti amministratori locali un tempo, forse, si sarebbero vergognati di suggerire. Per dare un’idea del clima sempre più pesante di questa primavera, possiamo ricordare quel sindaco lombardo che ha proposto di mettere una taglia sui clandestini, per incoraggiare gli italiani a segnalare la loro presenza alla polizia. O ancora, la giunta comunale di Torino che, per bocca del capo dei Vigili urbani, ha annunciato la “tolleranza zero” nei confronti dei venditori ambulanti e dei parcheggiatori abusivi. O, per parlare di cose più spicciole, le ritorsioni cui sono sottoposti i baristi dei quartieri poveri se non espongono nei loro locali quel vecchio cartello che recita: “Vietato l’ingresso ai pregiudicati e a chi non ha i documenti”.

L’operazione “Alto impatto” di Scajola, insomma, è fatta non solo per cacciare quanti più immigrati clandestini sia possibile, ma per terrorizzare tutti gli altri — clandestini e regolari —, per far vivere tutti ancora di più nell’ombra, per rendere tutti ancora più sottomessi e remissivi ai padroni. E da quel che si coglie nell’aria, quando il progetto Bossi-Fini sull’immigrazione sarà trasformato in legge questo clima diventerà permanente.

Lo si potrà mai fermare, questo vento cattivo di primavera che contagia di paura i quartieri dei poveri? Intanto bisogna scoprire che cos’è esattamente. E per farlo, bisogna saper capire che dietro alle irruzioni della polizia nei bar di S. Salvario non ci stanno soltanto Scajola e i suoi colleghi, persi nelle lontanissime stanze del governo. Ci stanno anche tutti i gruppi politici che qui in città attizzano l’odio contro gli immigrati. Ci stanno tutti quei consolati che, come quello nigeriano, collaborano alle espulsioni dall’Italia dei propri cittadini. Ci stanno tutti i funzionari che, come la responsabile dell’ufficio stranieri della questura Rosanna Lavezzaro, organizzano praticamente le retate e le espulsioni. Ci stanno tutte quelle organizzazioni, anche “umanitarie”, che lavorano dentro al lager di C.so Brunelleschi, tutte quelle aziende che riforniscono il Centro di cibo, di attrezzature, di servizi.

Non solo: alla stretta repressiva elaborata nei piani alti del Ministero degli Interni dobbiamo aggiungere l’avvicinarsi delle Olimpiadi invernali del 2006. I padroni della città vorrebbero esibire alle telecamere di tutto il mondo una Torino stuccata e ripulita, ed è per questo che sui giornali non si parla d’altro che dei progetti di ristrutturazione di Porta Palazzo e della zona di Porta Nuova. Progetti che prevedono innanzitutto la normalizzazione di questi quartieri nei quali i poveri sono stati fino ad ora troppo visibili e troppo poco sottomessi, tanto da “rovinare l’immagine di tutta la città”. Responsabili di questa sempre più brutale caccia all’immigrato, dunque, sono anche il sindaco, la Fiat e tutte quelle imprese e quei gruppi di potere che accumuleranno quattrini grazie alle Olimpiadi.

Ecco, allora, che cos’è questo vento cattivo di primavera che infuria su Torino: è una grossa macchina, con tanti ingranaggi che girano insieme, uno collegato all’altro. Rimarrà inafferrabile fintanto che gli sfruttati non sapranno individuarli, questi ingranaggi che girano tanto vicini a noi da poter essere inceppati; fintanto che ogni povero non saprà riconoscere chi soffia sul fuoco della paura; fintanto che tutti non comprenderanno che i discorsi sulla fratellanza e sulla libertà non sono che parole vuote quando si vive all’ombra delle baionette.


Sempre lo stesso cielo

Ogni tanto qualche buona notizia ci giunge da lontano. Non una notizia da cronaca nazionale, nulla di eclatante, ma qualcosa che basta a scaldarci il cuore. Quel che vi raccontiamo è un piccolo episodio di solidarietà fra poveri, una piccola lotta locale che ha saputo concretizzarsi. A Treviso, una cittadina del Nord-Est, la collaborazione fra degli algerini e dei centroafricani, con la complicità di un piccolo gruppo di italiani, ha dato vita all’occupazione di una fabbrica in disuso. Gli occupanti, appunto, sono immigrati e a Treviso ci stanno per lavorare. I padroni — che nel trevigiano, a differenza di qui, hanno bisogno di molta manodopera — li sfruttano ogni giorno ma nessuno di questi è disposto ad affittare una casa a degli stranieri. Finora la maggior parte di questi ragazzi ha vissuto in abitazioni di fortuna o appoggiandosi ad enti ed associazioni che, come qui a Torino, mirano soltanto a lucrare sulla povertà. Ora hanno deciso di ribellarsi a questa condizione. Nasce così l’occupazione della ex-Secco. Quello che segue è il primo volantino scritto e distribuito dagli occupanti. Non soltanto il proclama dell’esigenza di avere un tetto sotto il quale vivere, ma un attacco ai padroni, ai politici, ad alcune delle solite associazioni ed enti di speculatori ipocriti. Qui a Torino la situazione sociale è un po’ diversa ma i nemici sono gli stessi, al massimo cambiano i nomi.

Una rivolta della sofferenza sotto silenzio

Per giungere alla ricchezza e alla grandezza bisogna derubare i poveri e assassinare i deboli.

G.B. Shaw

Ci sono cose che si imparano in un libro, o forse a scuola — certo non guardando la TV — ma ci sono altre cose che si imparano solamente nella dura realtà della vita quotidiana. Tra queste c’è la vita dello straniero, quello immigrato, non il turista: una persona che ha lasciato le sue radici, la sua comunità; che per un motivo o per un altro è stata costretta a cambiare, in cerca di lavoro, per sfamare sé e la sua famiglia, o in cerca di tranquillità o di una nuova vita, per sfuggire alla miseria o alla repressione di una dittatura, o di una presunta democrazia.

Ma anche qui in Italia — in Europa — in questa presupposta società democratica, l’immigrato ritrova lo stesso cielo che aveva lasciato sopra la sua casa: lavorare duramente per il profitto di un padrone. Ma qui la sua condizione di precarietà e l’isolamento lo obbligano ad accettare un salario più basso, a condizioni più svantaggiose degli altri lavoratori italiani. Questi saranno costretti a loro volta ad accettare condizioni sempre più svantaggiose, perché la libertà del singolo di vendersi sul mercato del lavoro fa la mancanza di libertà di tutti i lavoratori e soprattutto un profitto maggiore per chi sfrutta questo lavoro. A dispetto di chi pensa, o vuol far credere, che di questo siano responsabili gli immigrati

Gli immigrati, come gli italiani, vanno a lavorare e pagano le tasse, ma hanno in più il timore continuo di essere licenziati, per qualunque motivo. Inoltre, finito il turno di lavoro, non sanno nemmeno dove andare a lavarsi né dove andare a dormire perché nessuno è disposto ad affittargli un appartamento a prezzi “quasi” normali, senza chiedergli sei mensilità anticipate o altri vincoli assurdi, o perché i dormitori dove è spesso costretto ad “abitare” altro non sono che topaie/galere a pagamento (150 Euro al mese a testa per una camerata da 14 posti letto, senza poter ricevere altre visite che quelle della polizia per il controllo delle proprie poche cose). Eppure, nonostante questa condizione di precarietà, l’indomani dovrà tornare lo stesso a lavorare, pena il licenziamento o addirittura l’espulsione. Già perché, finché è al lavoro, non importa se un immigrato non si lava: il maiale puzza, ma la sua carne è buona da mangiare.

E a mangiare ci pensa anche qualche sciacallo che specula sulle sue difficoltà spacciando per aiuto un’elemosina che realizza solo i suoi interessi politici, come nel caso di “Fratelli d’Italia”, che avendo fiutato l’affare degli immigrati si è precipitata a intascare centinaia di migliaia di Euro provenienti da fondi europei e governativi, stanziati per risolvere i problemi degli immigrati, ma ai quali non è arrivato nessun beneficio, o economici, come nel caso delle cooperative sociali tipo “Vita Nuova”, “Nomisma” e molte altre, autentici racket generosi solo nello spillare sangue agli immigrati stessi.

A quei sindaci che si sono resi famosi per il razzismo nei nostri confronti; a quelle opposizioni che si sono nascoste dietro il razzismo di questi sindaci per non fare niente; ai politici di tutti i colori per i quali non contiamo se non in vista delle elezioni; a tutti gli sciacalli che vogliono trarre profitto sulle nostre spalle noi immigrati abbiamo risposto occupando la ex-Secco, la fabbrica abbandonata di via Pozzette a San Trovaso di Preganziol, senza chiedere l’elemosina di nessuno. Anche se non è una casa vera e propria per noi vale come una casa, un tetto sotto cui dormire, così come ce l’hanno tutti gli abitanti di questo paese.

Il diritto di vivere non si mendica. Lo si prende.

Immigrati Seccati...


Da che parte cominciare?

Uno sguardo lucido sulla realtà, libero da condizionamenti, che possa cogliere criticamente ciò che ci circonda come parte di un tutto, che non abbia paura di veder vacillare quelle piccole ed esigue certezze che ancora ci rimangono. Di questo sguardo abbiamo bisogno, anche se rischiamo di venire travolti da un senso di inquietudine, di paura: le cause concrete delle nostre pene, le cause della miseria — non soltanto economica — ci circondano da ogni lato, fino a soffocarci. Tanto da non sapere neppure da che parte cominciare. Se vogliamo davvero mettere mano su ciò che ci circonda, in realtà, a volte basta poco: qualche informazione, uno sguardo, essere nel posto giusto al momento giusto. Alcuni fatti, che possiamo leggere sul giornale o vedere alla televisione, ce lo dimostrano e possono alimentare dentro di noi quel fuoco di resistenza che troppo spesso non riesce a brillare.

È questo il caso di quanto è successo qualche settimana fa a Woomera, una località sperduta in mezzo al deserto sud australiano dove sorge quello che viene chiamato “il campo degli orrori”, un Centro di Permanenza Temporanea in cui sono rinchiuse decine di clandestini fuggiti dal Medio Oriente. Un episodio commovente, la fratellanza tra persone divise solo dal possesso di un documento, la solidarietà pratica tra alcuni prigionieri e un gruppo di manifestanti che si erano riuniti per dimostrare contro questo lager.

La disperazione dei prigionieri e il calore dimostrato dai manifestanti hanno acceso la scintilla che ha portato all’abbattimento delle recinzioni ed alla fuga di una ventina di clandestini. Questi, una volta liberi, hanno trovato la complicità di chi li aspettava all’esterno che li ha subito forniti di nuovi indumenti perché si potessero confondere nella folla. Purtroppo molti altri non sono riusciti a fuggire dal centro di detenzione, voluto e realizzato all’inizio degli anni novanta dal governo laburista. In molti sono stati pestati violentemente dalle forze dell’ordine, sempre pronte a difendere i potenti ed i ricchi da chi risulta indesiderabile e da chi mette in discussione, a parole o in pratica, le basi del loro dominio.

L’Australia, è vero, è lontana, ma i luoghi fisici dell’oppressione e dello sfruttamento sono visibili da tutti, sono dietro casa, sono anche in mezzo a Torino, sui passi che facciamo ogni giorno. È proprio lasciandoci ispirare da episodi come quello di Woomera che abitueremo il nostro sguardo a vedere più in là della nostra confusa e noiosa quotidianità. Ed alla fine, impareremo a scegliere da che parte cominciare per cambiarla.


Il nostro cuore in Palestina

Più di un anno è passato dall’inizio della seconda Intifada, e la situazione in Palestina assume giorno dopo giorno un aspetto sempre più tragico. I carri armati israeliani continuano a circondare ed assediare le città ed i villaggi palestinesi, lasciando dietro di sé macerie, cadaveri e disperazione in una popolazione ormai stremata da settimane di isolamento, privata di acqua, di cibo e di medicinali. Le notizie sull’isolamento di Arafat e sull’assedio della Basilica della Natività ci nascondono il proseguire dei rastrellamenti, degli arresti, così come delle stragi nei villaggi e nei campi profughi. Il sangue, dunque, continua a scorrere in Palestina, in una spirale di morte, di odio e di vendetta che spinge decine di giovani palestinesi — esausti da anni di violenza e di miseria — a farsi esplodere nelle città israeliane; così, per ogni azione suicida sono immediate le ritorsioni sui palestinesi, in un circolo vizioso che sembra non avere fine.

Dopo gli attentati dell’11 settembre, Israele ha deciso di approfittare della situazione che si è venuta a creare: se con la scusa della lotta al terrorismo gli Stati Uniti hanno potuto bombardare l’Afghanistan, ecco che con l’introduzione dell’equazione “palestinese uguale terrorista”, Israele dà il via libera alla deportazione ed allo sterminio di migliaia di persone. In breve, ad un genocidio. Le potenze occidentali, Stati Uniti in testa, non possono quindi condannare in toto l’operato di Sharon, ma di fronte all’opinione pubblica ne disapprovano gli eccessi. Richiamando il governo israeliano alla moderazione e con l’invio di missioni diplomatiche in Medio Oriente, le nazioni occidentali assumono il ruolo internazionale di mediatori. Stando ad oggi, però, sembra che non ci sia molto da mediare e che l’unica soluzione possibile per preservare gli enormi interessi in gioco in questi territori sia l’invio di una forza di interposizione multinazionale, così come è stato fatto qualche anno fa nella ex Jugoslavia. Ai carri armati ed ai soldati israeliani si sostituirebbero carri armati e soldati europei ed americani: forse questi ultimi spianeranno meno case; forse uccideranno meno persone ma, ci sembra evidente, i carri armati occidentali non porteranno mai la libertà per i palestinesi. Al massimo daranno loro uno Stato.

Ma, nonostante quello che molti pensano, questo non sposterà di molto il problema. Ogni Stato, per esistere, deve poter esercitare il proprio potere su di una popolazione il più possibile omogenea per lingua, cultura, religione. Una popolazione che obbedisca alle sue leggi, usi la sua moneta, che si riconosca nei suoi miti fondatori. E quando questa omogeneità non c’è, viene imposta con la forza: il genocidio, anche solo culturale, o la deportazione delle popolazioni che non si uniformano sono all’origine di quasi tutti gli Stati moderni. Gli ultimi dieci anni della ex Jugoslavia ne danno una dimostrazione sanguinosa, ma anche il genocidio degli indiani d’America e tutte le guerre sconosciute che sono seguite alla frantumazione dell’Unione Sovietica non sfuggono a questa logica. In una terra come la Palestina, poi, in una terra dove popoli e culture differenti han vissuto fianco a fianco per secoli, «Stato» è forzatamente sinonimo di «genocidio»: la brutalità dei carri armati israeliani ne è la prova. E quando domani la Palestina si chiamerà Stato, non illudiamoci che i suoi carri armati saranno più garbati.

Essere solidali e complici delle lotte degli oppressi, dunque, non deve voler dire essere a favore di un nuovo Stato, così come appoggiare le rivolte degli sfruttati palestinesi non significa appoggiare Arafat o qualunque altro dirigente. Questi difenderanno sempre gli interessi delle classi dominanti arabe, le quali pretendono semplicemente lo sfruttamento in proprio dei proletari palestinesi. I primi a fare le spese della creazione di uno Stato sarebbero proprio i palestinesi ribelli, come ci ha dimostrato l’Autorità Nazionale di Arafat che in questi anni ha sparato sulla folla, ha arrestato e torturato i dissidenti.

Sta il fatto, però, che in questi giorni ad essere massacrati sono i palestinesi e che per fermare questo genocidio non si può far altro che indebolire il più possibile lo Stato israeliano, colpire i suoi interessi, le sue strutture, ovunque. Intendiamoci, gli interessi dello Stato israeliano. Chi confonde lo Stato israeliano, il suo governo, la sua economia, con gli ebrei ragiona ancora nella logica del genocidio. Il nostro cuore è in Palestina e comprendiamo chi è ancora più scosso di noi dal massacro di laggiù. Ma gridare nei cortei «Ebrei tremate…», come succede spesso in questi giorni, non è certo utile alla causa degli sfruttati palestinesi. Per quanto ci sembri lontana, l’unica uscita da questa spirale di morte che sacrifica i poveri per gli interessi degli Stati è la lotta comune degli sfruttati palestinesi e di quelli israeliani contro i loro padroni, e in primo luogo contro lo Stato di Israele. Il sogno di una Palestina libera, di una terra in cui possano vivere assieme arabi ed ebrei senza sfruttamento e senza autorità, è un sogno che ha illuminato per un breve periodo gli sfruttati di tutte e due le parti. Ed è un sogno che mai come adesso dobbiamo saper ritrovare.


«Ricordiamoci in che modo gli altri popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal trattare quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto! Guardiamoci dal fare noi quello che ci è stato fatto.»

Martin Buber, 1929


ISRAELE IN ITALIA

La cancelleria dell’ambasciata israeliana è a Roma, in via Michele Mercati 12/14. Il suo ufficio commerciale a Milano, in corso Europa 12. L’Agenzia ebraica per Israele è a Roma, in corso Vittorio Emanuele II 173.

Israele ha grossi interessi con la multinazionale svizzera NESTLÈ, la quale possiede il 50,1% dell’importante industria alimentare israeliana OSEM Investments. Un elenco parziale dei prodotti e delle compagnie affiliate alla Nestlé legate ad Israele è il seguente: NESCAFÈ, PERRIER, VITTEL, PURE LIFE, CARNATION, DANONE, LIBBY’S, MILKMAID, NESQUIK, MAGGI, BUITONI, CROSSE & BLACKWELL, MILKY BAR, KIT KAT, QUALITY STREET, SMARTIES, AFTER EIGHT, LION, POLO, BAG, BABY RUTH, BUTTERFINGER, FRUTIPS, FELIX.

Grossi investimenti in Israele sono stati effettuati da alcune aziende italiane. Tra queste GENERALI, TELECOM, il gruppo CIR, ITALGAS.

Per quanto riguarda l’industria tessile e di abbigliamento israeliane, una delle più importanti è la DELTA GALIL, che rifornisce grandi distributori quali AUCHAN, CARREFUOR, MARK & SPENCERS, J.C.PENNY, e alla quale sono legati i seguenti marchi: DIM, DONNA KARAN/DKNY, RALPH LAUREN, PLAYTEX, CALVIN KLEIN, HUGO BOSS. La Delta Galil è stata denunciata diverse volte per il suo sfruttamento del lavoro arabo. Fra i suoi maggiori azionisti segnaliamo la DOY LAUTMAN e la corp. SARA LEE.

Altri prodotti e industrie che hanno legami di notevole interesse con Israele sono: COMVERSE, ISCAR ITALIA, NAAN, BIOTHERM, INTERPHARM LAB. LTD, PHARMOS, BIOTECNOLOGY INDUSTRIES LTD, TEVA PHARMACEUTICA IND. LTD, ORGENICS, HEALTCARE TECNOL.-SAVION D., D-PHARMA LTD, L’OREAL, CLINIQUE, GARNIER, HELENA RUBINSTEIN, PERRIER, J. CREW, BANANA REPUBLIC, JO MALONE, LANCÔME, GIORGIO ARMANI PARFUMS, LINDEX, ARAMIS, KLEENEX, MAYBELLINE, ORIGINS, LA ROCHE-POSAY LAB. PHARMACEUTIQUE, VICHY, AMBIPUR, WONDERBRA, JOHNSON & JOHNSON, KIWI, LOVABLE, BRYAN, CHAMPION, REVLON, PICKWICK, OUTER BANKS, HUGGIES, SANEX, JIMMY DEAN, MAISON CAFÈ, MAST INDUSTRIES, EXPO-DESIGN CENTER, STRUCTURE, VILLAGER’S HARDWARE, THE HOME DEPOT, DR. PEPPER, COCA COLA, FANTA, SPRITE, SCHWEPPES, TIME, ICQ, KIA ORA, NOKIA, MOTOROLA, IBM, INTEL., THE SUN, EPILADY, GOURMET, TELMA, JAFFI’S CITRUS PROD., JAFFA (agrumi), CARMEL (agrumi, frutta, succhi), MISTER NUT, LIFE (arachidi, ecc), ZIO ELIO, KIBBUTZ EILON (surgelati), VITA, AHAVA/DEAD SEA (prodotti cosmetici e dermatologici venduti anche nelle erboristerie e nelle farmacie, distributore italiano: P.M. CHEMICALS di Milano), BARCAN WINE CELLARS (vini venduti con l’etichetta RESERVED, BARKAN E VILLAGE), I PRETZELS della BEIGEL & BEIGEL BAKERY (alimenti), GOLAN HEIGHTS WINERY (vini venduti con l’etichetta YARDEN, GAMLA E GOLAN), GAJA Distribuzione di Barbaresco (CN), HALVA, AGREXCO/USA.

Inoltre è in atto una campagna internazionale di boicottaggio contro la CATERPILLAR Company, azienda USA con sede a Peoria, Illinois. Le azioni contro la Caterpillar intendono condannare l’uso dei bulldozer forniti a basso costo allo Stato d’Israele per la devastazione dei Territori Palestinesi. Ricordiamo che Caterpillar in Italia commercializza, oltre ai bulldozer, con il suo logo CAT anche scarpe ed abbigliamento.


I migliori argomenti

Alla fine lo sciopero generale è passato. Ne hanno parlato tanto, ne hanno parlato tutti. Era qualche decennio che in Italia non si vedevano le piazze così gremite, e ancora più lontani sono i tempi in cui si pensava che lo sciopero generale fosse il passo immediatamente precedente alla rivoluzione, al sorgere di un mondo nuovo senza ingiustizie e sfruttamento. Quello che una volta era il blocco della produzione, l’abbandono in massa delle fabbriche che faceva tremare i padroni, ora è diventata una forma di espressione del dissenso sul come viene gestito lo sfruttamento, la scusa per una parata buona un po’ per tutti: sfilano i sindacati, quelli stessi che per anni hanno concertato con i padroni il peggioramento delle nostre vite; sfilano i partiti, quelli stessi che nel precedente governo hanno spianato la strada alla modifica dell’articolo 18; sfilano addirittura i poliziotti, quelli stessi che nel passato i proletari li hanno bastonati, e che non mancheranno certo di farlo nel futuro.

In questa pessima compagnia sfilano, però, anche tanti sfruttati. E nonostante questa pessima compagnia, alcuni di loro hanno voluto indicare — sia sul piano teorico che su quello pratico — qualche via di uscita dalla mera rappresentazione del dissenso.

Così, lungo le strade che percorreva il corteo a Torino sono apparsi manifesti come quello che riportiamo qui sotto. Non solo, nutriti gruppi di manifestanti hanno pensato bene di sfondare le vetrine della sede della Lega e di quella di Forza Italia, riempiendo i locali di immondizia e vernice. Anche la caserma dei Carabinieri ha avuto la sua parte, essendo stata scelta come bersaglio per il lancio dei più svariati oggetti. Come dire: se con i padroni non è possibile dialogare — per la semplice ragione che non parliamo la stessa lingua, non viviamo gli stessi problemi, non abbiamo gli stessi interessi — allora non ci resta che convincerli in altra maniera. E non c’è argomento migliore, per convincere un potente delle nostre ragioni, che colpirlo nei suoi interessi sia politici che economici.

È passato, allora, lo sciopero generale. Ma queste piccole indicazioni su come si può seriamente dialogare con i padroni rimangono a disposizione di tutti.

Nessuna scartoffia, nessun articolo 18, nessun illusorio diritto borghese, può garantire gli sfruttati dagli attacchi del proprio nemico di classe: l’esistenza stessa del lavoro salariato, della merce, della società divisa in classi.

I burocrati sindacali, cani da guardia della società del ca-pitale, vogliono turlupinare i proletarizzati, incanalando la loro rabbia in un piagnucolio contro il centro-destra (spudorata campagna elettorale per il centro-sinistra).

Liberiamoci dei mentitori! Liberiamoci dei padroni! Per l’abolizione delle classi e dello Stato! Autorganizziamo l’offensiva di classe!