«Guardati soprattutto, proletario!, di marcare con le stimmate dell’infamia i tuoi fratelli che essi chiamano ladri, assassini, prostitute, rivoluzionari, galeotti. Cessa le tue maledizioni, non li coprire di fango, salva la loro testa dal colpo fatale.
Non vedi che il soldato ti approva, il magistrato ti chiama a testimoniare, che l’usuraio ti sorride, che il prete ti batte le mani, che lo sbirro ti eccita? Insensato, insensato! Non sai che prima di abbattere il toro minacciante, il torero fa brillare nell’arena gli ultimi lampi della sua rabbia? E che essi si prendono gioco di te, come si gioca col toro prima di ammazzarlo?
Riabilita i criminali, ti dico, e ti riabiliterai. Non puoi sapere se domani l’insaziabile cupidigia dei ricchi ti costringerà a rubare quel tozzo di pane senza cui moriresti di fame. In verità ti dico: tutti coloro che i potenti condannano sono vittime dell’iniquità dei potenti. Quando un uomo uccide o deruba si può dire a colpo sicuro che la società dirige il suo braccio. Se il proletario non vuole morire di miseria o di fame — o diventa cosa di altri, supplizio mille volte peggiore della morte; — o insorge insieme ai suoi fratelli; — o, infine, insorge da solo se gli altri rifiutano di condividere la sua sublime risoluzione. E questa insurrezione, essi la chiamano crimine.
E tu, suo fratello, che lo condanni, rispondimi: hai mai visto la morte così da vicino per gettare la pietra contro il povero che sentendo l’orribile stretta, ha spinto il pugnale nel ventre del ricco che gli impediva di vivere?
La società! La società! ecco la criminale, carica d’anni e di omicidi, che bisogna giustiziare senza pietà, senza ritardo.»


Le luci nella notte di Torino

Anche oggi le luci squarceranno il velo della notte di Torino. Sono sempre le stesse, quelle luci. Sono quelle che non ci fanno più vedere il cielo, quelle che ci ricordano che ogni cosa è mercato, che ogni cosa è controllo. Così, anche questa notte, la luce dei lampioni si confonderà con quella delle insegne pubblicitarie e i fuochi delle lucciole si mischieranno alle sirene della polizia.

Torino è triste di notte, sono tristi quei fuochi, sono odiose quelle sirene.

Molte parole potremmo spendere su quando cala il buio nei quartieri di Torino ma, dopo le retate della polizia e le dichiarazioni di alcuni politici, pensiamo sia giusto dire qualche cosa su quelle ragazze costrette un giorno dopo l’altro a vendersi in strada. Non abbiamo qui la pretesa di esaurire l’argomento, tanto vasto quanto tragico, ma smascherare l’odiosa ipocrisia di gendarmi e politici, beh!, questo ci sembra un atto dovuto.

A tutti coloro che, come il presidente del consiglio Berlusconi, sostengono la persecuzione delle prostitute perché le loro nudità li scandalizzano o turbano i loro pargoli, non abbiamo nulla da dire. Che restino ad imputridire davanti al televisore guardando chiappe e tette più plastiche e morali. È invece più interessante soffermarci a pensare all’operato della polizia e alle parallele affermazioni del sindaco e del questore.

In molti, crediamo, avranno ancora in mente le immagini delle retate di qualche settimana fa in Corso Regina Margherita: la polizia che scende in assetto antisommossa dai cellulari ad iniziare la caccia, gruppi di agenti che inseguono le ragazze nei parchi e nei viali circostanti per poi atterrarle, piombando loro addosso in gruppo. Alla fine, le ragazze che in fila vengono caricate a forza sui cellulari per poi essere portate in questura ed espulse — magari dopo un periodo di arresto nel lager di Corso Brunelleschi. Queste scene raccapriccianti, a Torino, sono ormai all’ordine del giorno.

Per chiunque conservi ancora un poco di cuore, queste porcherie sono intollerabili. Ma vi è una cosa forse ancora più intollerabile, per il nostro cervello: queste aggressioni, queste deportazioni, questi internamenti, a dir del sindaco e del questore, per non parlare di molti altri, sarebbero organizzati per aiutare le prostitute. Il questore Cavaliere, dichiarando guerra al racket della prostituzione, ha fatto un discorso in questi termini: «Le prostitute sono clandestine, sono sfruttate e noi, la polizia, abbiamo il compito di liberarle dallo sfruttamento e questo compito lo assolviamo fermandole, rinchiudendole ed espellendole dall’Italia — restituendole al paese d’origine». Già, è cosa indubbia che la maggioranza di queste ragazze viva in condizioni di schiavitù, ma sostenere che la persecuzione poliziesca nei confronti d’uno schiavo sia d’aiuto allo schiavo stesso è una bestialità, oltretutto ipocrita.

Preoccupato di dimostrare il buon cuore del governo, il questore Cavaliere si è affrettato ad aggiungere che ogni prostituta clandestina è libera di autodenunciarsi e di denunciare il proprio sfruttatore, ottenendo così — come premio per la delazione — il permesso di soggiorno, sempre che riesca ad arrivare in questura senza essere prima arrestata.

Al di là della nostra contrarietà alla pratica della delazione — pur rendendoci conto delle condizioni di vita delle prostitute e non giudicando le poche che riescono a liberarsi attraverso la polizia — è ovvio che proprio la condizione di ricattabilità e paura che è insita nella condizione dello schiavo limita fortemente questa possibilità, per non parlare del rischio di eventuali ritorsioni da parte dei propri sfruttatori.

Ciò che il questore Cavaliere, e con lui i politici, non ci dice è che uno dei motivi principali che costringe queste ragazze a prostituirsi è proprio la legge sull’immigrazione. In breve: se è quasi impossibile per un povero arrivare legalmente in Italia, è scontato che questo debba giungervi illegalmente. Per farlo, spessissimo deve mettersi nelle mani di quelle organizzazioni senza scrupoli che, tra le altre cose, gestiscono i falò nei nostri viali. Giunto in Italia, non ha molte vie di scampo, è braccato su tutti i fronti, perché la condizione propria del clandestino lo obbliga ad isolarsi, a nascondersi, a subire ogni sopruso. Quale via d’uscita può trovare dunque una ragazza povera, senza documenti, ricercata dalla polizia e perseguitata dall’organizzazione che l’ha fatta immigrare illegalmente in Italia?

Se il terreno su cui attualmente si erge la schiavitù della prostituzione è quello della clandestinità, gli schiavisti non sono semplicemente i “papponi” ma anche coloro che, la clandestinità, l’hanno inventata. Così come il padrone che frustava il raccoglitore di cotone africano, nell’America del secolo scorso, era responsabile dello schiavismo quanto i governanti degli Stati che emanavano le leggi che ne permettevano l’esistenza, i politici che oggi creano la condizione di clandestinità sono responsabili dello schiavismo della prostituzione quanto le organizzazioni che ne gestiscono l’esistenza.

Torniamo quindi a guardare le retate della polizia alla Pellerina per ciò che sono: atti di vigliacca repressione. Torniamo a guardare la guerra dichiarata dal questore Cavaliere ai gestori della prostituzione per quello che è: una guerra tra magnaccia.


Lo sguardo del vicino

Cosa vi suscita la vista di un allevamento di polli in batteria? Credo che ognuno di noi lo consideri una tortura per gli animali ed un’offesa alla decenza. Eppure lo stesso trattamento applicato all’uomo è considerato una prassi più che naturale, anzi non è neanche considerato perché, a differenza dei polli, paradossalmente, noi non ci rendiamo neanche conto delle gabbie nelle quali siamo stipati e non pensiamo che, magari, potrebbe esistere un altro modo di vivere. Così siamo ben contenti di stare nei nostri loculi, temendo che l’unica alternativa sia quella di dormire sotto i portici. Per questo cerchiamo di tenerceli stretti, versando affitti pari ad interi stipendi nelle tasche del padrone di casa.

Guardatevi intorno per favore, provate a cercare gli sguardi dei vostri vicini o delle persone che incrociate per strada. Come sono? Sono tutti bassi e fissi, persi nel vuoto; nessuno accenna ad un saluto: l’unico che vi guarda negli occhi, che vi sorride e vi saluta cortesemente è il commerciante e non lo fa certo per spontanea gentilezza. Sui vecchi ballatoi un tempo le persone si incontravano e si salutavano chiamandosi per nome, le donne stendevano tutte insieme i panni, mentre i bambini sgattaiolavano tra le loro gambe per andare a giocare con gli altri nel cortile. Certo erano persone povere, costrette nella miseria, erano i nostri nonni venuti dal sud o dalle campagne senza un soldo, ma rispetto a noi erano ancora capaci di vivere uniti e guardarsi dentro.

I ballatoi, nei palazzi moderni, non vengono più costruiti, quelli vecchi invece sono divisi da inferriate che ne delimitano il possesso, i cortili sono muti, solo a volte il loro silenzio viene rotto da un’auto che entra o esce da un garage o dal vocio di un televisore.

Perché non ci guardiamo più negli occhi, perché ci nascondiamo costruendo barriere che ci separano dal vicino? È molto semplice: si ha troppa paura di vedere riflessa nel suo volto la propria immagine disperata. Per questo motivo ci chiudiamo nel più totale isolamento, è per questo che fra quattro mura, schifose come celle di una prigione, ci sentiamo protetti dal nostro spettro. È per questo che quando usciamo di casa, per non incontrarlo, ci infiliamo in altre gabbie, le automobili, che ci consentono di spostarci senza incrociare la nostra immagine in qualcun altro. Così nelle strade di periferia quando siamo costretti a camminare: lo facciamo in modo goffo, passando frettolosamente rasente ai muri, cercando di evitare gli sguardi altrui e tenendoci la borsa stretta al petto. Solo in poche vie di Torino possiamo camminare sentendoci a nostro agio: in Via Roma ed in Via Garibaldi. Anche in queste gli sguardi non si incrociano, ma non sono più fissi e persi nel vuoto, sono canalizzati verso luccicanti vetrine ed i portafogli non sono più stretti nelle tasche, ma frementi di uscirne.

Ecco cosa siamo diventati, nient‘altro che automi, uomini sempre più privi di sentimenti, uomini che non possono, o non vogliono più, concedersi minuti inutili, improduttivi, passati a costruire attimi di solidarietà o anche solo a guardar le stelle: il tempo, si sa, è denaro.

Immaginare qualcosa di diverso è tanto difficile? Cominciamo a renderci conto della nostra condizione, leggiamola negli occhi del nostro vicino, lui la leggerà nei nostri.

Guardiamo ancora oltre: chi sono i responsabili di questa miseria, chi ci tiene stivati come polli ed intercambiabili come formiche, chi si frega le mani vedendo l’indifferenza nelle strade e nelle piazze, chi ha costruito le Vallette, Mirafiori, Santa Rita… che non sono altro che stalle per uomini da lavoro? Ora che sappiamo, dunque, verso chi rivolgere il nostro odio, possiamo smettere di guardarci torvi tra di noi.


«Giù in Oklahoma, — disse Tom — sono arrivati certi tali che portavano dei volantini arancioni, dicevano che qui in California gli serviva un sacco di gente per fare i raccolti.»

L’altro si mise a ridere e disse:

«Saremo in trecentomila, e non c’è nessuno che non abbia visto quei volantini.»

«Ma se non gli servono le persone, perché mai dovrebbero prendersi il disturbo di stamparli?»

«Guarda: fa conto che tu hai un lavoro da offrire e c’è solo una persona che lo vuole, tu lo devi pagare quello che chiede. Ma fa conto che sono cento e quel lavoro lo vogliono tutti, fa conto che tutti hanno figli ed i figli hanno fame, fa conto che con 10 cents comprano una scatola di cereali, fa conto che con 5 cents comprano almeno qualcosa. Hai 100 persone, offri 5 cents, la gente si ammazza per venire a lavorare.»


Profughi disperati che sbarcano sulle nostre coste fuggendo dalla guerra o dalla miseria, pericolosi criminali, rischio per la cultura e le tradizioni italiane: ecco come gli immigrati clandestini vengono ogni giorno presentati dai giornali e dalla televisione. Ci raccontano solo gli sbarchi, gli episodi di sfruttamento e di criminalità; non a caso, nessuno ci dice che la condizione di clandestinità non è né casuale né poi così sgradita agli Stati, ma che anzi viene creata e mantenuta perché risponde ad una precisa serie di esigenze di tipo sia economico, che politico, che di controllo sociale. Proviamo ad occuparci in queste poche righe, tanto per cominciare, di alcune delle ragioni economiche e produttive per cui gli Stati persistono nell’emanare leggi che creano la condizione di clandestinità.

Per prima cosa, ottenere il permesso di soggiorno non è affatto semplice: infatti la legge italiana, come quella di altri paesi dell’Unione Europea, pone una serie di condizioni che possono difficilmente essere soddisfatte da chi è stato costretto a migrare, come ad esempio un lavoro continuativo in regola e una casa di una certa metratura. Ovviamente, chi sta scappando dal proprio paese non può avere un lavoro in regola pronto ad aspettarlo né ha la possibilità di affittarsi un bell’appartamento: se ne avesse i mezzi, se non fosse così povero, che necessità avrebbe avuto di lasciare la propria terra? E se, per assurdo, queste stesse condizioni venissero estese anche agli italiani, quanti sarebbero ad avere il diritto di rimanere in Italia? Non coloro che, ad esempio, condividono la stessa casa per poter pagare l’affitto, non coloro che lavorano in nero o tramite le agenzie di lavoro interinale. Insomma, una parte rilevante degli italiani che sembra essere destinata a crescere sempre di più: tutti questi verrebbero messi in condizione di clandestinità ed espulsi dall’Italia. Inoltre, anche tra coloro che sono in grado di soddisfare questi requisiti, solo ad alcuni verrà rilasciato il permesso di soggiorno. Infatti, ogni regione, basandosi sulle proprie necessità economiche, richiede un numero preciso di lavoratori immigrati che possono essere regolarizzati: tutti gli altri sono costretti a rimanere clandestini. E se il rilascio del permesso di soggiorno è già strettamente connesso all’occupazione, sembra che questo legame sia destinato a diventare sempre più serrato: pensiamo infatti alla proposta di una sanatoria limitata esclusivamente alle colf, che nella maggioranza dei casi sono per l’appunto clandestine, e, soprattutto, alla proposta Bossi-Fini per la nuova legge sull’immigrazione in cui, tra le altre cose, il permesso di soggiorno avrebbe una durata pari al contratto del lavoro che si è trovato. In poche parole, se l’economia italiana ha bisogno di lavoratori immigrati, per esempio negli impieghi stagionali, a questi lavoratori viene rilasciato un permesso di soggiorno che scade nel momento in cui il loro lavoro non è più necessario. Questo significa che al termine del contratto, quando non serve più, l’immigrato diventerebbe automaticamente clandestino.

Tanti sono, dunque, gli ostacoli posti dalla legge al rilascio del permesso di soggiorno, che ci viene da pensare che ai legislatori interessi di più creare clandestini che immigrati regolari. Gli immigrati clandestini possono essere sfruttati come manodopera a basso costo e sono di fatto più ricattabili, dal momento che sono costretti ad accettare qualsiasi lavoro anche nelle condizioni peggiori o ad essere sempre più remissivi per mantenere il lavoro che hanno trovato. Questo ricatto, attraverso lo spettro della clandestinità, si estende poi anche agli immigrati col permesso di soggiorno peggiorando di fatto le loro condizioni lavorative: infatti, nonostante questi ultimi godano delle minime garanzie sindacali che sono concesse anche agli italiani, si troveranno nell’impossibilità di sfruttarle. Ad esempio, se un padrone pretendesse degli straordinari sarebbero in pochi gli immigrati disposti a rifiutare, anche se legalmente ne avrebbero il diritto, perché con questo rifiuto si metterebbero in cattiva luce col padrone e correrebbero maggiormente il rischio di essere in futuro licenziati, e quindi di perdere i documenti.

Questo meccanismo fa sì che vi sia un progressivo peggioramento delle condizioni di vita anche degli altri sfruttati. Se gli immigrati, sotto la minaccia della clandestinità, sono disposti ad accettare condizioni di lavoro via via peggiori saranno inevitabilmente più concorrenziali di chi queste condizioni non è, per ora, costretto ad accettarle perché è italiano, perché è a “casa sua“ e può permettersi di aspettare un lavoro migliore. Ma il lavoro migliore, quello sicuro e ben retribuito, non è eterno, come ci insegna il fiorire delle agenzie di lavoro interinale. Da una parte, quindi, per accalappiarsi il posto in mezzo a tanta concorrenza gli sfruttati saranno costretti ad accettare un notevole peggioramento sia delle condizioni del lavoro che della portata dello stipendio; dall’altra i padroni stessi potranno permettersi di offrire sempre meno. Per essere chiari: per quanto il costo della vita possa aumentare, nessun padrone aumenterà lo stipendio ai propri lavoratori se, dietro l’angolo, ve ne sono molti altri disposti a lavorare per pochi soldi. Nessun padrone investirà ad esempio sulla sicurezza se gli sfruttati, per forza di cose, saranno disposti a rischiare vita e salute pur di preservarsi uno spazio di sopravvivenza.

Ecco dunque uno degli aspetti, quello economico, per cui la clandestinità è un affare di tutti — italiani e stranieri, clandestini e regolari — ed ecco perché tutti gli sfruttati hanno l’interesse di opporsi a coloro che creano e mantengono questa condizione.


Intorno ad una corda

Parole di fuoco e piazze piene come in altri tempi sono state la risposta dei vertici sindacali alla riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori elaborata dal governo. Questo progetto preoccupa molti, tanto da essere diventato argomento di discussione nei bar, nelle panetterie o dal macellaio, ovunque insomma uno sfruttato ne incontri un altro. Quel che ci pare di cogliere per le strade è una generale inquietudine, è come se tutti avessero la sensazione di avere un cappio che, lento lento, si stringe intorno al collo. Pochi, però, sanno bene chi l’abbia preparato, questo cappio, e se ci sia ancora tempo per toglierselo di dosso.
Proviamo a capirne qualche cosa di più. Secondo le norme del diritto del lavoro, i dipendenti possono essere licenziati individualmente solo per alcune ragioni che vengono raggruppate nei termini tecnici di “giusta causa” e “giustificato motivo”. Se un operaio della Fiat, facendo un esempio, commettesse delle infrazioni o dei reati all’interno dello stabilimento (se venisse, che ne so, sorpreso a portarsi a casa un volante), potrebbe venir licenziato. Questo, secondo il codice, sarebbe da considerare un licenziamento per “giusta causa”, e quindi irrevocabile. Al contrario, un licenziamento avvenuto per sfoltire sottobanco il personale, o perché l’operaio non si fa mettere i piedi in testa dal caporeparto, è illegittimo e il padrone potrebbe essere costretto dal giudice a riassumere il licenziato. Almeno in teoria, fino ad adesso funziona così. Sappiamo benissimo, poi, che l’arroganza dei padroni ultimamente è sempre più forte, e molto spesso si spinge ben al di là dei limiti posti dalla legge. Fatto sta che è proprio il famoso articolo 18 a prevedere la riassunzione del dipendente licenziato senza “giusta causa” e che, con le modifiche elaborate dal governo, i padroni potranno tranquillamente licenziare chiunque. Dovranno solo versare un indennizzo al licenziato, cosa per loro ben più conveniente che essere costretti a mantenere alle proprie dipendenze persone scomode, o in soprannumero.
I padroni, così, godranno di un duplice vantaggio: la minaccia del licenziamento sarà ancora più concreta ed immediata per chi non è completamente sottomesso alle direttive padronali e, come se questo non bastasse, saranno ancora più liberi di adesso di adattare la quantità del personale alle esigenze momentanee della produzione. In questa maniera, anche quegli sfruttati che fino ad oggi si illudevano di essere nella botte di ferro del “posto fisso” si troveranno sottomessi agli stessi ricatti di chi da anni vivacchia tra contratti a termine, “formazione e lavoro”, “lavori socialmente utili”, “collaborazioni occasionali” e lavoro interinale. Questa riforma, insomma, va nel senso preciso del progresso, che è, da quel che possiamo vedere fino ad ora, quello di unire gli sfruttati sotto condizioni concrete di vita sempre più precarie.
Guardiamo più da vicino questa parola, «precarietà», perché può avere in sé un significato ben più positivo ed appassionante di quello che siamo costretti ad attribuirle ora. Chi rifiuta di sacrificare il presente alla costruzione di certezze e garanzie per il futuro, ad esempio, vive in maniera precaria. Bramoso di assaporare fino in fondo ogni istante dell’esistenza, accetta tutti i rischi e le incognite del futuro ma non se ne fa terrorizzare in anticipo. Come la cicala, insomma, vuole cantare e cantare finché dura l’estate: non è sua la mentalità della formica, la quale, checché ne dica il vecchio adagio popolare, a forza di brontolare e far di conto vive male sia l’estate che l’inverno. La precarietà, in questo senso, è libertà, è indipendenza, è gioia di vivere. Tutto questo, però, deve avere uno spazio pratico dove realizzarsi, spazio che oggi è occupato dalle leggi e dal profitto, dallo Stato e dal capitale. La precarietà intesa come vita libera e appassionata, dunque, oggi come oggi può essere solo una scelta monca ed individuale. Potrà diventare una realtà piena e collettiva solo quando toglieremo questi ostacoli dal suo terreno di gioco: se proprio vogliamo dargli un nome, a questo campo finalmente libero, dobbiamo chiamarlo comunismo libertario.
La precarietà che ci impongono i padroni, al contrario, è quella di chi è diventato completamente dipendente da un apparato produttivo che non può controllare, e dal quale si vede sempre più spesso rifiutato, abbandonato alla paura e all’incertezza.
La modifica dell’articolo 18 provocherà, dunque, un bel peggioramento nelle condizioni di vita degli sfruttati: l’inquietudine nelle strade è giustificata, il cappio intorno al nostro collo effettivamente si sta stringendo. Nel momento in cui stringe il cappio, il governo ci spiega che la perdita della garanzia del posto fisso è un sacrificio necessario per rendere più snelle le aziende, meno appesantite dai costi causati da quella parte di personale che non risponde alle esigenze immediate della produzione. Aziende più leggere e versatili saranno in grado di piazzare a costi minori e con più facilità i propri prodotti sul mercato, facendo crescere il sistema produttivo italiano. Ci fa un po’ strano dirlo, ma il discorso del governo è corretto: per reggere la concorrenza mondiale, le misure da prendere sono più o meno tutte di questo tipo e possono variare solo in qualche dettaglio. I sindacati e i partiti della sinistra, invece, dicono che queste nuove misure sono, oltreché antipatiche, inutili e che a ben altro bisognerebbe pensare per rendere concorrenziale “l’azienda Italia”. Un discorso, questo, che è falso, perché se davvero si vuol dare una mano al sistema produttivo a ritagliarsi una fetta consistente del mercato mondiale, l’abbassamento del costo del lavoro e la spinta verso la flessibilità sono delle priorità assolute. E gli uomini della sinistra lo sanno benissimo, visto che quando erano al governo proponevano misure che andavano esattamente nella stessa direzione di quelle attuali della destra, ad esempio quelle sul lavoro interinale o sulla “collaborazione coordinata e continuativa“. Su questi argomenti, in fondo, la differenza tra destra e sinistra è soprattutto di stile: la prima è più brutale ed immediatista, la seconda più garbata ed attenta a tutte quelle convenzioni che sono d’uso nei sistemi democratici. Ma tutte e due non possono che difendere le esigenze del sistema produttivo, soprattutto in tempi come questi, nei quali è sempre più evidente che l’unica alternativa concreta è tra l’economia — con tutto quel che ne consegue in quanto a disastri e sofferenze — e il suo affossamento: tutti i discorsi su di una economia a misura d’uomo, solidale e più equa, sono utopici, quando non semplicemente in malafede.
Il cappio intorno al collo, dunque, ce lo sta stringendo il governo. Ma l’opposizione, se ne avesse la possibilità, farebbe lo stesso. Se questo è vero, quando affrontiamo la vicenda dell’articolo 18 dobbiamo tenere bene in conto sia i nostri interessi immediati sia le prospettive che vogliamo darci in futuro. Dobbiamo avere la capacità di affrontarla autonomamente e senza farci assordare dalle voci insistenti dei politici, che, a destra come a sinistra, misurano i palmi della corda alla quale ci vogliono vedere appesi.
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