***Un poco di silenzio,** ve ne preghiamo. Lasciamo parlare i nostri passi di eterni viaggiatori approdati per scelta o per necessità sulle strade di Torino.
Ascoltiamoli: sono passi di forzati. Ci mancano tante cose se vogliamo che diventino passi di gente che si sta liberando, ed innanzi tutto ci manca la capacità di parlarci veramente, di dialogare. No, non ci riferiamo alle chiacchiere vuote ed impotenti nelle quali tutti troppo spesso ci perdiamo. Niente a che vedere, poi, con il vociare continuo della televisione. Il dialogo è una cosa concreta: è mettersi in gioco fino in fondo, è parlare della vita che viviamo perché siamo disposti a cambiarla. Di questo abbiamo bisogno, tanto quanto dell’aria che respiriamo.
Ma la democrazia ce la toglie, questa capacità di dialogare, rendendoci rumorosamente muti e sordi.
Da una parte afferma la libertà di parola, dall’altra mantiene ed approfondisce la divisione sociale, vale a dire lo sfruttamento e l’autorità. In parole povere: a decidere del futuro di tutti sono i governi e i padroni, gli sfruttati sono liberi di parlare quanto vogliono, tanto in realtà non possono decidere niente. E quando il parlare si separa dal suo potere concreto di cambiare il mondo le parole stesse si svuotano, perdono forza e significato. Illudendoci di partecipare a decisioni dalle quali in realtà siamo esclusi, perdiamo la capacità di formulare discorsi che non siano vuoti ed impotenti. È come se ci tenessero una gamba immobilizzata per anni ed anni, fino a farla atrofizzare: ci possono ben dire, dopo, «ora cammina!». Non cammineremmo più, avremmo perso la capacità ed insieme l’idea del camminare. Quanto spazio c’è ancora in noi per immaginare parole che cambino la vita, allora? Quanto ci rimane della capacità di dirle e di comprenderle? Con certezza non lo sappiamo.
L’unica certezza possibile è che, se il dialogo per esistere deve essere concreto, il luogo dove esercitarlo ed il modo di esercitarlo devono essere altrettanto concreti.
Se dialogare è mettersi in gioco, allora possiamo metterci in gioco solo con chi, come noi, ha ben poco da perdere da un cambiamento, con chi vive la stessa condizione sociale, lo sfruttamento. Qualsiasi altro luogo del dialogo è illusorio. Pretendere di dialogare con i padroni, ad esempio, non ha senso perché loro hanno un mondo intero da perdere.
Se vogliamo, poi, che questo mettersi in gioco sia cosa collettiva ed allo stesso tempo profondamente individuale, l’unico modo che abbiamo per dialogare è quello diretto e orizzontale, senza deleghe. Non è possibile dialogare, dunque, con quelle strutture organizzate in maniera verticale nelle quali, a forza di capi, sotto-capi e portavoce, alcuni decidono per altri. Neanche con quei partiti e quei sindacati che dicono di essere dalla parte degli sfruttati, tanto per intenderci.
Solo a queste semplici condizioni, che nulla hanno a che vedere con la democrazia, è possibile dialogare. Solo a queste condizioni ritroveremo le parole per farlo.*


Il prezzo per esistere

La storia, si dice, dovrebbe farci riflettere sugli orrori del passato affinché non si ripetano. Sono più di cinquant’anni che la seconda guerra mondiale è finita e sono altrettanti che si rammentano gli eccidi commessi dal nazismo. Pieni di rabbia e col pianto negli occhi guardiamo immagini e leggiamo libri che documentano la vita nei lager e ci domandiamo: perché nessuno ha cercato di impedire la loro costruzione? Perché tra i fotogrammi dei documentari sul nazismo ci sono sempre e solo le immagini di gente plau-dente ad un discorso di Hitler e mai di gente che si ribella?

Le nostre coscienze ci dicono che se mai dovessero ripresentarsi ai nostri occhi tali orrori, se mai dovessero sorgere nuovi Auschwitz, immediatamente ci opporremmo con tutte le nostre forze. Mai come in questo caso cadiamo in errore.

In Italia i muri sono stati nuovamente innalzati, per la precisione nel 1998 dal governo di centrosinistra. La democrazia ha, ovviamente, bisogno di addolcire la pillola e, come le guerre diventano “missioni di pace”, i campi di concentramento vengono chiamati centri di permanenza temporanea per immigrati clandestini. Come molti sanno qui a Torino ce n’è uno, in Corso Brunelleschi. Proprio in questi ultimi mesi le autorità locali stanno discutendo di trasferirlo fuori città. Non dicono ancora dove intendono spostarlo perché hanno timore che gli abitanti della zona interessata protestino, non perché ritengono inaccettabile di per sé un lager, ma perché non vogliono vederlo — non vogliono vederne gli “ospiti” — quando si affacciano dal balcone di casa.

In molti penseranno che chiamare, come facciamo noi in queste righe, lager i centri di permanenza temporanea sia una forzatura, un’esagerazione retorica. In realtà lo facciamo a ragion veduta, perché dal punto di vista giuridico queste due strutture sono molto più simili di quanto non si pensi. Nei lager nazisti venivano rinchiusi individui precedentemente privati della nazionalità, non più considerati cittadini ma soltanto membri nudi della specie umana, privi di diritti. Nei centri di permanenza temporanea finisce chi non ha documenti: cioè chi non è cittadino italiano né cittadino straniero, chi, dal punto di vista legale, semplicemente non esiste. Questo permette allo Stato di sollevarsi dalla propria legalità e di imprigionare persone che hanno come unica colpa quella di respirare, di mangiare e di fare l’amore pur non esistendo. Dopotutto, finché esisteranno documenti ci sarà sempre qualcuno che non li avrà e concedere un diritto a qualcuno significa sempre volerlo negare a qualcun altro. Lo Stato democratico, esattamente come quello nazista, divide in due categorie ben distinte chi vive sul suo territorio: chi è cittadino — a cui si applica il diritto civile, penale e carcerario — e chi non lo è. Quest’ultimo viene braccato dalle forze dell’ordine o dalle squadracce e finisce nei campi, tanto di lui, non esistendo, si può fare quel che si vuole. Come è andata a finire in Germania lo sappiamo, quel che succederà da noi non ancora.

Allora erano gli ebrei, i sovversivi, gli zingari e gli omosessuali, oggi sono invece gli immigrati clandestini. Ma i campi nei quali vengono rinchiusi rimangono gli stessi. Ci chiediamo allora come fanno quelli che, come noi, chiamano lager i centri di permanenza temporanea a dialogare con chi li ha costruiti. Non avreste ritenuto ridicolo implorare Hitler di chiudere Auschwitz? Chiedere condizioni più igieniche e dignitose per chi vi era rinchiuso non vi sarebbe sembrato soltanto un macabro scherzo? Ai lager si può essere solo contrari, senza compromessi e mezze misure, altrimenti si è complici. Tutto qua.

È troppo facile dare tutta la colpa del nefasto destino degli indesiderati di allora a Hitler, Mussolini ed ai loro collaboratori, facendo finta di non sapere, di non aver visto. Eppure non si poteva non sapere. La storia non la fanno soltanto i grandi personaggi, la fa anche chi li appoggia o chi semplicemente tace. Così come molti dei nostri nonni sono stati complici dei lager nazisti, allo stesso modo, i complici dei lager per clandestini siamo noi.


I fuochi di Buenos Aires

Quelli che ci giungono in queste settimane dall’Argentina sono echi di rabbia e di festa. Di rabbia per una situazione sociale che sprofonda sempre di più nella miseria e per una repressione sanguinosa che nell’ultimo mese ha fatto almeno trenta morti tra i ribelli. Di festa, perché finalmente gli sfruttati argentini hanno saputo riprendersi le strade, direttamente e senza farsi organizzare dai racket politici e sindacali che da cinquant’anni soffiano sul fuoco della miseria per ampliare il proprio potere. È stato proprio perché sono sfuggiti al controllo dei partiti che gli insorti hanno trovato lo spazio per parlarsi e quindi per individuare assieme i responsabili del proprio sfruttamento. Così, i fuochi della festa e della rabbia hanno potuto illuminare la notte di Buenos Aires. Banche, supermercati, uffici pubblici, assicurazioni, sedi di multinazionali sono stati assaltati ed incendiati, e neanche il Parlamento ha potuto evitare qualche ustione.

Guardare all’Argentina, per quelli di noi che cent’anni fa non sono partiti a cercare miglior fortuna ai piedi delle Ande, deve voler dire riuscire a farsi illuminare da quegli stessi fuochi, deve voler dire riuscire ad ascoltare quel che ci vogliono dire questi nostri lontani cugini d’oltreoceano. Tra noi e loro, però, tra le nostre orecchie e le loro gole, si mettono di traverso tutte le parole fumose che i potenti delle nostre latitudini hanno sprecato nell’ultimo mese sulla situazione che si vive laggiù. Come il brusio di una radio rotta, il vociare dei politici e degli industriali vuol nasconderci le responsabilità e gli interessi realmente in gioco. Nel momento in cui Casini, ad esempio, vola a Buenos Aires per “portare la propria solidarietà agli argentini” e contemporaneamente “difendere i risparmiatori italiani che hanno investito in Argentina”, quel che va difendendo in realtà è una operazione di strozzinaggio internazionale organizzata in primo luogo dalle banche italiane e spagnole. Come è noto, più un debitore è in difficoltà più alti saranno gli interessi che gli strozzini riusciranno a pretendere per concedergli nuovi crediti. Questo spiega i rendimenti altissimi dei titoli argentini piazzati sui mercati italiano e spagnolo negli ultimi anni. Ora, a forza di pagare gli interessi su questi debiti — così come su quelli contratti con il Fondo Monetario Internazionale e con le altre istituzioni finanziarie mondiali — il governo argentino è arrivato alla sostanziale bancarotta, con il conseguente blocco dei conti correnti privati e del pagamento delle pensioni e degli stipendi pubblici. Gli sforzi attuali di Casini e delle istituzioni economiche internazionali, dunque, sono gli sforzi ipocriti di chi vuol far sì che il debitore non muoia, perché da un debitore morto, lo si sa, non si può più cavare nulla. Dello stesso tipo sono le preoccupazioni degli imprenditori italiani che hanno impiantato pezzi delle proprie aziende laggiù. La Fiat, la Merloni, la Benetton sono esempi fra tanti. Se ora dichiarano di voler resistere nonostante tutto sul suolo argentino, lo dicono per nascondere il fatto che sono corresponsabili del disastro attuale e, rendendosi conto di aver tirato troppo la corda, tentano tardivamente di correre ai ripari. Sono molti anni, per essere concreti, che la Fiat sposta i suoi stabilimenti dall’Argentina al Brasile — e viceversa — all’inseguimento del costo del lavoro più basso: questo vuol dire che ogni volta che ha chiuso uno stabilimento in uno dei due paesi migliaia di persone sono rimaste disoccupate. Benetton, da parte sua, lotta tenacemente per diventare il maggior latifondista argentino, e dai latifondisti mutua tutte le peggiori usanze, rubando i pascoli e l’acqua alle comunità degli indios.

Potremmo dilungarci su ciascuna delle aziende italiane presenti laggiù, ma ci sembra inutile. Quel che è urgente dire è proprio quello che politici, giornali ed imprenditori non vogliono farci sapere: più si velocizzano gli scambi e la concorrenza internazionali, più la tecnologia realizza i vecchi sogni del capitale — vale a dire trasformare il pianeta in un mercato unico di manodopera e di risorse da saccheggiare — più le divisioni sociali si approfondiranno. Insomma, il progresso ha trasformato il mondo in una polveriera sempre pronta ad esplodere, ed ora tenta goffamente di spegnere la miccia. Ascoltiamoli, allora, i ribelli argentini, scaldiamoci al loro fuoco. Laggiù hanno scelto l’esplosione, hanno accettato la sfida. E noi, cosa sceglieremo?


Quattro parole contro l'Europa

Ci siamo. Uno dei passi chiave nel compimento dell’unificazione europea è stato fatto. La moneta comune è entrata in circolazione: al di là dei malumori dovuti alle difficoltà pratiche, oltre le critiche legate all’ovvio rincaro dei prezzi che l’introduzione dell’Euro ha comportato, conviene smascherare cosa si cela dietro la propaganda che ha accompagnato questo evento. In questi mesi, infatti, siamo stati sommersi da una quantità di buone ragioni per cui essere soddisfatti di quanto i vertici della politica italiana ed europea ci stavano apparecchiando. Ne abbiamo sentite di cotte e di crude, ma a ben vedere delle buone ragioni rimangono soltanto grossolane menzogne.

Romano Prodi, per esempio, ha esaltato il fatto che si potrà girare da un paese all’altro, liberamente, senza neppure dover cambiare la valuta alla partenza. Un altro passo verso la concreta abolizione dei confini, a suo dire. Si dimentica di dirci, però, che questo non vale per tutti. Entrando in Italia via Modane ce ne possiamo rendere conto: passata una frontiera che formalmente non c’è più, vediamo la polizia e i carabinieri invadere gli scompartimenti del treno a caccia di chi, in giro per l’Europa, non ci va per piacere, ma perché ne è obbligato. Se sei straniero e se non hai un lavoro, e di conseguenza neanche il permesso di soggiorno, per te la frontiera esiste ancora, verrai rinchiuso nei centri di permanenza temporanea, e quindi espulso. Ma non è tutto qui. Nemmeno tutti i “comunitari” sono considerati allo stesso modo. È il caso di Genova, nel luglio scorso, durante i giorni del G8, quando manifestanti provenienti da altre nazioni europee sono stati fermati alle frontiere per evitare che potessero partecipare alle proteste di quei giorni. Anche se sei considerato indesiderabile da governi e polizie, allora, le frontiere esistono ancora.

Il tanto sbandierato abbattimento dei confini all’interno della Comunità Europea ha significato innanzi tutto uno spostamento dei controlli che, grazie all’apporto tecnologico e alle leggi europee sulla polizia, si sono fatti molto più serrati e capillari, anche se meno visibili, su tutto il territorio e non solo alle frontiere. Quegli Stati europei che confinano con paesi extracomunitari, inoltre, devono rendere ancora più invalicabili queste frontiere esterne, perché devono garantire la sicurezza non più solo a loro stessi ma all’intera Europa. Appare chiaro, dunque, quanto questo abbattimento delle frontiere sia più un gioco di prestigio truffaldino che un qualche cosa di concreto e valido per tutti.

Un’altra retorica su cui si fonda il discorso europeista è quella della prosperità e del benessere. L’Unione Europea viene rappresentata come una grande potenza economica, capace di assicurare migliori condizioni di vita a tutti. In realtà le dinamiche di sviluppo economico individueranno di volta in volta zone su cui investire capitali, zone in cui concentrare le speculazioni di industrie, banche e finanziarie, dove ammassare la manodopera necessaria alla produzione. Questa situazione provocherà, anche a detta di convinti sostenitori dell’Unione, nuove migrazioni interne e quindi un nuovo sradicamento. Insomma, l’unica entità libera di circolare in Europa senza ostacoli, limiti e controlli, sarà la merce, tanto che, paradossalmente, la sola condizione che concederà ad un uomo o una donna “non in regola” di superare una frontiera, sarà quella, appunto, di merce. Sballottate e rese schiave dal mercato del lavoro, notevoli quantità di risorse umane — come ormai siamo abituati a sentirci chiamare dai padroni — verranno destinate ai luoghi della produzione per lo stretto tempo in cui saranno utili, dopodiché saranno rispedite a casa loro.

Non solo. Così come il velocizzarsi della concorrenza a livello mondiale permesso dalle nuove tecnologie e dagli accordi commerciali degli ultimi venti anni ha fatto sprofondare una parte consistente del pianeta nella miseria, l’ampliarsi della concorrenza interna all’Europa causerà un aggravarsi della divisione sociale. In sostanza, gli europei poveri diventeranno ancora più poveri e precari, i ricchi si arricchiranno ancora di più.

Uno dei punti chiave della propaganda di questi mesi tocca un tema che, almeno all’apparenza, è caro a tutti, quello della pace. Ci dicono che l’Europa, teatro delle due guerre mondiali, una volta unita non avrà più motivo di vedere conflitti sul proprio territorio. I padroni dell’Europa si spacciano per pacifisti, insomma. Nessuno sembra più ricordarsi, però, che a contribuire in maniera determinante allo scoppio del conflitto Jugoslavo sono state proprio le dinamiche messe in moto dall’unificazione europea. Non solo, pensiamo che nel momento stesso del battesimo della nuova moneta si sta combattendo un’altra guerra terribile, alla quale l’Europa partecipa in forze. O ancora, il primo motivo di incomprensione tra il nostro governo e i vertici della Comunità, è stata proprio una disputa sulla costruzione di un aereo da guerra europeo secondo un progetto comune. Anche qui è evidente come il tema della pace sia stato usato esclusivamente per ragioni propagandistiche: con l’Europa unita o senza, il futuro sarà un futuro di guerra.

Come potete vedere, bastano quattro parole per scardinare alcuni dei discorsi fasulli che in questi mesi ci sono stati fatti e per dimostrare quanto il futuro dell’Europa vada in una direzione ben diversa da quella che ci viene presentata. Viste da vicino, allora, quelle buone ragioni che ci dovrebbero far salutare con entusiasmo la nuova moneta sono in realtà ottime ragioni per esserne ferocemente nemici.


Fino alla fine

Siamo abituati a conviverci, a vederle spuntare in ogni angolo della città, a pensare che siano una cosa ovvia, un luogo come un altro. Eppure, le banche, rappresentano qualcosa in più, qualcosa che invade e determina la nostra vita più di quanto potremmo mai immaginare. Già, perché dietro quei timidi e cortesi impiegati, dietro quei vetri e quei terminali si costruisce e si finanzia l’orrore quotidiano. In ogni spostamento di capitale — o più semplicemente in ogni prelievo e versamento — ci sono le vite di milioni di sfruttati che si consumano nell’incubo che un giorno, presi alla gola dall’usura legalizzata, non avendo rispettato le scadenze di un pagamento, la banca possa portar loro via quel poco che hanno.
L’eterno ricatto della miseria: questo è ciò che costituisce il potere e la ricchezza degli istituti di credito. Ed è con quello stesso potere e con quella stessa ricchezza, guadagnati sulla sofferenza dei poveri, che i grandi signori della finanza creano altra sofferenza. Pensiamo solo a quanta responsabilità abbiano le banche italiane e spagnole nell’attuale situazione argentina. Le guerre e i traffici di armi, i disastri ambientali e i più moderni — e nocivi — progetti industriali: niente di tutto questo oggi potrebbe esistere senza i finanziamenti e la compartecipazione delle banche. Dalla tratta degli schiavi al nazismo, dagli imperi coloniali ad Hiroshima, nelle peggiori tragedie della storia moderna troveremo implicate le banche. Levare il denaro alle banche diventa, dunque, un gesto
profondamente onesto perché, anche se nel piccolo, inceppa concretamente questi meccanismi assassini.
Horst Fantazzini tutto questo l’aveva capito. Probabilmente è per tutto questo, oltre che per il bisogno, che aveva deciso di rapinarle. Molti di coloro che leggono il nostro giornale, il nome di Horst non l’avranno mai sentito e si chiederanno perché abbiamo scelto di parlare di lui. Ecco, Horst era un anarchico, un ribelle, un uomo che pur molto giovane, a cavallo fra gli anni 50 e 60, aveva deciso di alzarsi dalle ginocchia e non supplicare più per vivere e, per questo, i soldi li andava a prendere la dove c’erano. Purtroppo Horst venne arrestato e nonostante mai si arrese alla prigionia passò trentasei anni della sua vita nelle galere. Le evasioni, riuscite e non, le lotte e le proteste, il suo costante impegno rivoluzionario non sono andati giù ai giudici e agli sbirri. Hanno pensato di riuscire a seppellire lui e le sue idee in carcere, hanno pensato di riuscire ad annientare la fame di giustizia e di libertà che albergava in questo nostro compagno.
Come sempre i giudici si sbagliavano.
Horst Fantazzini, dopo una vita di lotte e di galera, l’anno scorso è stato messo in regime di semilibertà. Di giorno andava a lavorare e la notte doveva rientrare in carcere.
Noi non sappiamo ancora che cosa sia successo di preciso, ma a dicembre Horst è stato di nuovo arrestato e con lui Carlo, anche lui anarchico, con l’accusa di aver tentato di rapinare una banca. Sinceramente non ci interessa sapere se l’accusa è fondata: per quanto ci riguarda, se la banca la volevano rapinare, i nostri compagni hanno tutto il nostro appoggio e la nostra solidarietà. D’altro canto, se invece — come è già successo molte volte — le accuse sono inventate, che dire... speriamo che quella banca la rapini qualcun altro. La nostra solidarietà agli arrestati resta immutata.
In seguito all’arresto, il ventiquattro dicembre, Horst muore in carcere colto da un infarto. Molto di più non ne sappiamo, quello che per noi conta è che un altro ribelle è morto in carcere e, come chiunque muoia in carcere indistintamente dalle cause, per quanto ci riguarda è stato assassinato. Lasciamo ai politici e ai giornalisti gli sproloqui sul “bandito gentile” — così le cronache definivano Horst — e ai soliti politici antagonisti ed avvoltoi le strumentalizzazioni e la retorica di bassa lega. A noi preme soltanto ricordare un compagno: con la sua vita e la sua dignità mai barattata, con la sua guerra contro questo mondo marcio e la sua coerenza, sino alla fine.
Non abbiamo mai conosciuto Horst di persona, lo Stato non ce ne ha dato il tempo, ma quanto ci ha trasmesso con la sua pratica e le sue idee non sarà mai lasciato morire. Il desiderio di una vita nuova, di un riscatto, di un cambiamento radicale in tutto il mondo e per tutti: questo lo Stato non può né ucciderlo né rinchiuderlo in galera.
Ciao Horst, grazie per quanto ci hai dato.


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