IL VIAGGIO Numero 2 - Dicembre 2001
Sovente ci viene chiesto perché utilizziamo alcune parole, come "padroni" o "sfruttamento", che appartengono ad un linguaggio che, quando non è obsoleto, è almeno tanto imbarazzante da mettere a disagio, tanto offensivo per le orecchie di un certo pubblico. La risposta conviene chiarirla subito, prima che ci si sia troppo inoltrati nel viaggio. Una risposta che, del resto, se l'uso del linguaggio non fosse mediato da chi è interessato alla sua manipolazione per fini politici, economici, di ordine sociale, dovrebbe essere evidente.
Chiamare le cose con il proprio nome, senza perifrasi, senza artifici, è una delle condizioni essenziali senza le quali non esiste comunicazione. La necessità da parte di chi detiene il potere e da parte delle sue istituzioni - scuole, mezzi di comunicazione, pubblicità - di democraticizzare il vocabolario, di limarlo, smorzandone la forza, nei suoi termini più aspri o impresentabili, irriverenti nei confronti delle esigenze dell'ordine sociale, ha come risultato, con la semplice sostituzione delle etichette, quello di trasformare la realtà lasciandola immutata, modificandone solo la percezione, non la sostanza. La coniazione di nuove definizioni apparentemente neutre, in grado di sostituire quelle vecchie, ormai screditate, ha immesso nell'uso quotidiano della lingua una quantità di termini ingannevoli, impoverendo le potenzialità di significato delle parole e riducendo la nostra possibilità di percepire criticamente la realtà.
Chiamando "non vedente" un cieco non miglioriamo certo la sua condizione. Oppure, quando chiamiamo "operatore ecologico" uno spazzino, proviamo goffamente a dare dignità sociale ad un mestiere che la società ha sempre considerato fra i più umili. In tutti e due i casi cambiamo solo l'etichetta di condizioni che in realtà non sono cambiate: il cieco rimarrà cieco, mentre lo spazzino continuerà a raccogliere l'immondizia dalle strade. Quello che non vogliamo, è rendere gradevole una cosa che non lo è.
Ecco, dunque, perché i padroni ci piace chiamarli "padroni" e non "imprenditori", termine quest'ultimo che li alleggerisce delle responsabilità che hanno nello sfruttare gli altri. Si parla di sfruttamento quando il produttore non ottiene ciò che produce: se qualcun altro si appropria di quel che lui produce, questo qualcuno lo sfrutta. Ora, pare invece che lo sfruttamento, lungi da essere una realtà scomparsa, non abbia più un termine con cui essere definito, ora, i padroni, con la stessa ricchezza, lo stesso privilegio, lo stesso potere di prima, sono diventati "imprenditori", "datori di lavoro", e tutti li rispettano.
Ciò che ci preme, allora, è tornare al significato proprio delle parole, con tutta la loro forza, con tutte le loro taglienti sfumature.
All’ombra delle baionette
Schiere nere percorrono San Salvario. Quasi ogni giorno battono le vie del quartiere alla ricerca dei poveri più poveri, pretendendo documenti e permessi di soggiorno, arrestando, perquisendo ed espellendo. A San Salvario il tempo non è più scandito dalle albe e dai tramonti, ma da queste retate che sono diventate tanto normali e quotidiane da non aver più bisogno di una giustificazione, di una motivazione ufficiale, da non meritare neanche qualche rigo sulle pagine della cronaca de La Stampa. Quando ancora c'era, questa necessità di giustificazioni, i giornali parlavano di tutela della tranquillità del quartiere, di repressione di un ambiente - quello dei clandestini - all'interno del quale si nascondono integralisti islamici e piccoli criminali.
Senza tanti fronzoli, però, quella cui assistiamo è sostanzialmente una occupazione militare di alcune zone della città e dobbiamo chiederci chi vuole realmente colpire, chiederci se è poi così vero che sia diretta solo contro i clandestini e coloro che sopravvivono con traffici illegali. È fuori di dubbio, infatti, che in un quartiere occupato dalla polizia i clandestini siano costretti a nascondersi e i traffici illegali debbano cambiare zona almeno per qualche ora. Ma non è tutto qua.
Queste retate colpiscono anche gli immigrati regolari, dando spazio ad un discorso, figlio della paura, che recita più o meno così: «Gli italiani ce l’hanno con noi perché ci vedono tutti come dei criminali. Ma noi siamo qui per lavorare e vivere tranquilli, quindi dobbiamo tenerci ben lontani da chi è sbarcato con noi ma ora si trova senza permesso o vive di espedienti, rovinando l'immagine di tutti. Li dobbiamo isolare e quando vengono sequestrati od espulsi dalla polizia dobbiamo restare nell'angolo, senza dire nulla. Solo così dimostreremo agli italiani di essere delle brave persone e saremo finalmente accettati.» Diffuso soprattutto nell'ambiente delle associazioni ed emerso con molta chiarezza nelle posizioni dell'imam Bouchta, questo discorso non solo indebolisce l'insieme degli immigrati - scavando un solco incolmabile e aprendo le porte a lotte intestine - ma è anche basato su falsi presupposti. La figura dello straniero criminale, infatti, non è direttamente collegata al comportamento reale degli immigrati. È vero, da una parte, che in alcune zone della città non è sempre semplice camminare di sera e che protagonisti di brutte storie di strada sono spesso degli stranieri. Ma è anche vero che se i protagonisti di queste brutte storie fossero solo italiani, la figura dello straniero criminale rimarrebbe presente, perché è una figura che viene alimentata ad arte dai giornali, dalle televisioni, dai discorsi dei politici, e che cresce su paure molto profonde e radicate che esistono tra gli italiani. Quindi, anche prendendo le distanze dai "cattivi", tutti gli altri non avrebbero nessuna possibilità in più di essere visti di buon occhio.
In realtà, quando il sindaco dice «fate i buoni, altrimenti vi cacciamo» non intende dire «non spacciate, non accoltellatevi, non tifate per Bin Laden». Vuole dire innanzi tutto «accettate quelle condizioni di vita e di lavoro che gli sfruttati italiani non vogliono ancora accettare, altrimenti non c'è più posto per voi. I permessi di soggiorno scadono velocemente, ed allora vi ritroverete braccati dalla polizia. Chi comanda siamo noi, ricordatevelo bene, e ve lo dimostriamo schierando le nostre armate nei vostri quartieri.» Le retate di questi mesi, dunque, vogliono colpire l'insieme degli immigrati. Ma non si limitano a loro, coinvolgono anche gli italiani.
La vecchia Torino industriale ha speso cento anni a convincere degli sfruttati spesso riluttanti che la Fiat non era una galera dove regnava la monotonia e l'avvilimento, che quella del lavoro fisso, per la vita, non era semplicemente una prospettiva da ergastolani, che era possibile ritagliarsi dei momenti di orgoglio e di creatività anche nell'ambito angusto delle professioni industriali. Cento anni in cui una città oscurata dalle ciminiere ha tentato di rendersi sopportabile creando un sistema di valori basato su certezze solide e condivise, su garanzie per il futuro e su una certa rigidità colturale. Seguendo passo passo lo smantellamento di Mirafiori, tutto questo è crollato miseramente. Ora bisogna adattarsi a tutto, essere flessibili, saper fare tutto e niente, senza intravedere nel futuro alcuna garanzia né individuale né collettiva. Nel giro di pochi anni, così, gli sfruttati sono stati proiettati in un deserto orbano dominato dall'incertezza, dall'isolamento e da mille paure. L'occupazione militare di San Salvario serve a convincere i torinesi che siano stati gli immigrati a portare la paura in città e serve, contemporaneamente, a proteggerli d questa paura. Vivere all'ombra delle baionette, così, diventa l'ultima delle garanzie che può offrire Torino ai suoi sfruttati, la polizia si trasforma nell'unica certezza sociale condivisa quando c'è lei, almeno, le strade sono più pulite, gli anziani e i bambini possono passeggiare tranquilli. Torino ha definitivamente barattato le ciminiere con le camionette de gendarmi e ricorda ad alta voce che chiunque può diventare clandestino, nel momento in cui chiede il conto della propria paura a chi 1'ha realmente costruita, ai padroni.
Possiamo ben concludere, allora. che 1e schiere nere che battono ordinatamente i nostri quartieri sono 1ì per colpire l'insieme degli sfruttati. Se ora arrestano od espellono solo qualcuno è per aver le mani libere in futuro con tutti gli altri, in una Torino che ci vedi tutti clandestini.
Da una guerra all’altra
Due mesi sono passati dall'inizio dei bombardamenti in Afghanistan, due terribili mesi in cui gli afghani hanno visto il proprio territorio continuare ad essere distrutto dagli attacchi di cielo e di terra. Ed ora che i talebani sembrano essere definitivamente scacciati, l'occidente si pone il problema di riempire il vuoto lasciato dalla caduta del loro regime. Per questo motivo, a Bonn è stato creato il nuovo governo "provvisorio" dell'Afghanistan, formato dai direttivi dell'Alleanza del Nord e da vecchi e nuovi potenti locali . Costoro, separati da differenze che vent'anni di conflitti hanno alimentato, oggi si sono uniti nell'unico presupposto che avevano in comune: l'opposizione al dominio dei talebani, ognuno comunque nel tentativo di far prevalere l'interesse delle classi dominanti della propria etnia sugli altri e di assicurarsi così il controllo del paese.
Questi Signori della Guerra, che ora sono stati portati al potere, sono quegli stessi uomini che si erano uniti ai talebani e a Bin Laden per difendere la propria terra dall'invasione sovietica. Sono gli stessi che erano stati scelti dagli americani come alleati nell'interminabile conflitto che ha devastato l'Afghanistan, e che poi si sono trovati, scacciati i russi, messi da parte dal nuovo regime talebano - allora prescelto dagli Usa. E come i talebani sono divenuti i nemici di oggi dopo essere stati gli alleati di ieri, gli uomini dell'Alleanza del Nord, probabilmente, in base agli interessi di potere, diventeranno i nemici di domani. L’occidente non ha alcuna intenzione di terminare il proprio intervento militare. I bombardamenti continueranno, in nome dell'economia e del controllo politico, in una spirale di morte e distruzione che sembra non avere fine, scavalcando ogni frontiera. Così, dopo 1'Afghanistan, sono già stati individuati i possibili obiettivi dei prossimi attacchi: Somalia, Iraq, Indonesia, tanto per cominciare.
Anche l'Italia, come sempre, ha scelto di prendere parte attivamente a questo massacro. Mettendo a disposizione degli americani uomini e mezzi, per ritagliarsi il proprio spazio e la propria credibilità fra i potenti del mondo, il nostro Stato si rende responsabile dello sterminio e della rovina di milioni di persone. Accettare la guerra e tutto ciò che ne consegue significa assumersi questa responsabilità, significa essere complici della paura, della distruzione, della morte. Accettare la guerra vuol dire fare in modo che i padroni diventino più forti, più ricchi, più potenti sulla pelle dei poveri del mondo. Ecco perché la guerra non ci appartiene, ecco perché dobbiamo opporci ad essa con tutte le forze che abbiamo. Inceppare la macchina bellica è possibile, e le nostre possibilità non sono affatto limitate: il rifiuto di farsi coinvolgere dai giochi della politica, lo sciopero generale autorganizzato, il sabotaggio e la distruzione delle strutture responsabili della guerra sono solo alcuni degli strumenti che abbiamo a disposizione. Ricordiamoci che, se i bombardamenti sono a migliaia di chilometri da casa nostra, la politica e l'economia che li sorreggono abitano di fianco a ciascuno di noi. Qui vengono fabbricate le armi e da qui partono gli eserciti; qui stanno i palazzi del potere in cui vengono prese le decisioni e gli uomini che decidono; qui risiedono i fabbricanti del terrore e dell'odio e gli interessi per cui i conflitti vengono scatenati.
Non serve appellarsi ai diritti umani, con civili richieste e riconosciute motivazioni etiche, per fermare il massacro: le convenzioni e le legislazioni sono state emanate da quegli stessi potenti che da sempre insanguinano il mondo. Smettiamo di nasconderci dietro ad ipocriti pacifismi e rendiamoci conto che l'unica maniera che abbiamo per imporre il nostro no! alla guerra dell'economia e della politica è fare la guerra all'economia e alla politica.
Cosa c’è da contrattare?
Un tempo erano la bandiera dei poveri, erano la speranza per il futuro, erano i portatori del riscatto sociale. O almeno così credevamo. Poi, troppo tardi, ci accorgemmo dell'inganno; ci accorgemmo che, loro, badavano più agli interessi politici - e a mantenere con discrezione quella pace sociale tanto cara all'economia - che agli interessi e alle aspettative degli sfruttati. Così, i sindacati, figli prediletti della società industriale, persero la loro credibilità.
Sono ormai in pochi oggi, fra i lavoratori, a sostenere che il sindacato sia uno strumento per la lotta contro i padroni: troppi anni di sconfitte spacciate per delle vittorie e troppe promesse tradite hanno svelato da che parte stanno veramente le gerarchie sindacali. Ma ogni cancro, quando non estirpato in tempo, lascia sempre delle metastasi pronte ad esplodere. Così, dopo anni di mansuetudine, oggi vediamo i sindacati rimettersi in testa alle proteste dei lavoratori per dirigerne e recuperarne le lotte.
Ricominciando ad alzare la voce, "la triade" vuole cancellare dalla memoria dei lavoratori vent'anni di accordi infami con padroni e governi, accordi che hanno contribuito a portare gli sfruttati alla situazione di precarietà attuale. I vari Cofferati, che fino a ieri invocavano l'intervento della polizia contro gli scioperanti non inquadrati nel sindacato, oggi invocano l'unità della "lotta".
Come un tempo, ci vogliono intruppare, vogliono impedire che la protesta contro i dettami padronali sfugga al controllo del giogo legalitario ed esca dalla logica del dialogo. Ma ricordiamoci che è stato proprio il dialogo con i padroni, la presunzione di poter prendere delle decisioni in comune con chi ci sfrutta, la concertazione, che ci ha portato alla situazione attuale.
Di cosa si può discutere
Le ultime proposte di legge in merito a pensioni, contratti, licenziamenti, sanità e scuola fatte dall'attuale governo sono semplicemente la formalizzazione di un percorso obbligato dell'attuale capitalismo, figlio delle scelte politiche ed economiche del passato, che non si discostano per nulla dalle politiche dei governi precedenti.
Il progresso tecnologico ha dato la possibilità ai padroni di automatizzare la produzione e rendere le capacità umane di produrre via via più superflue. La velocizzazione del flusso delle informazioni e dei trasporti hanno reso possibile lo smantellamento dei vecchi impianti industriali e la loro ridistribuzione in piccoli centri produttivi sparsi per il mondo, dove i lavoratori sono più isolati e ricattabili. Sono dunque le macchine oggi a rendere possibile la produzione e a fare i mestieri che una volta erano affidati all'uomo: se fino a qualche tempo fa i lavoratori avevano un'idea di quello che producevano, potendo seguire - collettivamente, nella medesima fabbrica - la realizzazione della merce dall'inizio alla fine, oggi, il lavoratore è semplicemente una protesi di una macchina che sa completare da sola il proprio lavoro. Se nella vecchia società industriale servivano bravi tornitori, e tali divenivano dopo anni di lavoro, ora servono solo persone che sappiano assolvere funzioni elementari - schiacciare un pulsante, ad esempio - per creare un pezzo di cui non si conosce la destinazione, oppure assemblare parti di un qualcosa proveniente da chissà dove. È superfluo dire che in tale frangente vi è la possibilità materiale ed economica, per i padroni, di assumere e licenziare a piacimento, senza grosse resistenze, dal momento che chiunque può imparare il lavoro in pochi istanti. Abbiamo visto che la società della produzione, per stare a galla, ha bisogno di rinnovarsi ed adeguarsi alle esigenze sociali e di mercato. Le carte sono state date e nessuno di noi, nemmeno i padroni, può cambiarle. Mettiamoci in testa che il capitalismo non può permettersi mai di tornare indietro: ogni nostalgia è vana.
È all'interno di questo panorama concreto che si instaura il dialogo fra padroni e sindacati - la concertazione - e ne consegue che nessun accordo può, di fatto, mettere in discussione la precarietà: gli accordi possono smussarne qualche angolo ma non mutarne la sostanza. Continueremo ad essere sballottati da un lavoro all'altro senza imparare nulla e per questo sempre più intercambiabili fra di noi; continueremo ad essere alienati da merci sempre più inutili e oppressi da macchine che non potremo mai controllare né capire; continueremo ad essere sempre più poveri e meno garantiti, persino nelle cose più essenziali. Con tutto questo dobbiamo fare i conti.
Nessun approdo certo
L'economia moderna è una nave della quale non si può più invertire la rotta. Certo a governare la nave vi sono bravi marinai, e con molto potere, ma nessuno di questi si può permettere un cambio di direzione. Tutte le vecchie tesi sindacali della sinistra, comprese quelle rivoluzionarie, sono state spazzate via dall'avanzare di questa nave e, con loro, i vecchi sogni di riscatto operaio.
I grandi luoghi produttivi, dove un tempo gli sfruttati venivano ammassati e dove nascevano, oltre alle merci, i sogni di giustizia - sogni che avevano fatto credere a molti di poter un giorno scacciare i padroni e gestire da soli il proprio lavoro e la propria vita - oggi non esistono più. Non esistono più nemmeno quei rapporti di complicità e solidarietà che si creavano fra chi nello stesso luogo lavorava e soffriva, che avevano fatto incontrare uomini e donne provenienti da terre lontane e che li aveva fatti sentire fratelli e sorelle, uniti dallo stesso misero destino ma anche dalla volontà di cambiare la propria vita e il mondo.
Tutto questo è finito, la società industriale fondata sull'orgoglio del proprio lavoro, sulle specializzazioni, è finita. È stata sostituita dal mondo della precarietà, dove la produzione è svolta in piccoli centri da molte macchine sempre più capaci che governano uomini sempre meno capaci. Uomini che cambiano continuamente lavoro, uomini ricattati con contratti da poche settimane, uomini che non riescono più a riconoscersi fra loro, come compagni e fratelli, perché non hanno più il tempo e i luoghi per farlo. Questa è l'attualità, questo è ciò che è stato "concertato".
Un salto nel vuoto
Di fronte al disastro sociale non abbiamo molte alternative, e non possiamo certo aspettarci che qualche politico diventi nostro paladino o che i padroni divengano di colpo più buoni: l'unico modo per ostacolare e lottare contro le politiche padronali è cominciare a farci da soli i nostri interessi, senza alcuna trattativa. Non è certo accordandosi con i padroni, come abbiamo visto, che si ottiene qualcosa. Qualunque presunta conquista ottenuta con la trattativa nasconde in sé una truffa, e basta vedere l'attuale condizione degli sfruttati, nella sua totale precarietà e sempre crescente miseria, per rendersene conto. Se vogliamo cominciare ad ottenere qualcosa per migliorare la nostra situazione, è ora che ciò che vogliamo cominciamo a prendercelo. Con i padroni non serve discutere, bisogna ricattarli, costringerli a darci ciò che vogliamo per esasperazione. Dobbiamo, insomma, attraverso una lotta che sfugga ad ogni controllo ed aspettativa rendergli la vita, e la produzione, impossibile.
Saranno loro, sfiniti, a metterci sul piatto le prime conquiste, quanto meno per provare ad arrestarci nel nostro cammino. A noi la scelta quindi: o sottometterci e crepare oppure lottare ed inceppare gli ingranaggi del mostro economico.
Non abbiamo nulla da perdere, non vi sono più corporazioni da difendere - la flessibilità ci rende tutti colleghi - né prospettive sindacali da seguire. Possiamo solo lottare e, nella lotta, scoprire nuovi modi di stare insieme e nuovi sogni. Un salto nel vuoto armati della nostra fantasia. Quella fantasia che, già altre volte, ha saputo superare la politica di chi voleva dirigere le nostre battaglie lasciando spiazzati padroni e dirigenti, ora può di nuovo farci incontrare, uniti dalla precarietà, in un nuovo sentimento di fratellanza e di vendetta. Ora può, di nuovo, infiammare i nostri cuori; ora può, finalmente, incendiare il vecchio mondo.
Libertà duratura?
Usa Patriot Act*, figlio della libertà duratura e fratello occidentale delle bombe in Afghanistan, cosa ci porterai?
Non ci porterai, come molti dicono, il sacrificio della libertà per il semplice fatto che la libertà non c'era già prima che tu arrivassi. Le perquisizioni, le espulsioni, le intercettazioni e tutto il resto sono sempre esistiti. Non è certo una novità la repressione, ma sicuramente il tuo arrivo moltiplicherà le persecuzioni e la polizia sarà facilitata nell'adempiere il suo dovere.
L'Usa Patriot Act è la nuova legislazione americana in materia di terrorismo, studiata dopo 1'11 settembre, che disegna una società sempre più repressiva, dove il controllo sociale sarà sempre più capillare. Non ì una novità, poi, che le innovazioni americane vengano importate anche alle nostre latitudini: il dibattito sulle nuove modalità operative dei servizi segreti italiani ne è la prova.
L'Usa Patriot Act, prevede che le forze dell'ordine possano operare sotto copertura, violare i domicili e sottrarre documenti, intercettare le telefonate e le conversazioni in tutta tranquillità, alla ricerca di un* sospetto*. Un sospetto che però permetterà di essere portati dinanzi ad un tribunale speciale, un tribunale di guerra nel quale non esiste neanche più una parvenza di garanzie per l'imputato. Questo tribunale militare autorizzerà l'arresto e la deportazione basando il suo verdetto non più su delle prove, come, almeno formalmente, capitava fino ad oggi, ma, appunto, su dei semplici sospetti.
E così i nostri illustri padroni faranno esattamente quello che facevano i loro padri: ci metteranno gli uni contro gli altri, questa volta però in maniera sistematica. Le nuove leggi americane, difatti, offrono il permesso di soggiorno - che vale oro, di questi tempi - a chi sia disposto alla delazione, ad indicare un presunto terrorista.
A questo punto il gioco sarà fatto, il sospetto si insinuerà nelle nostre vite, facendoci dimenticare di essere fratelli. Giustificheranno la repressione come unico metodo per mantenere la libertà, sgomberando così il campo dagli oppositori che forse cominciavano timidamente a levare il capo. Oggi è per difenderci dal terrorismo, ieri per proteggerci dal comunismo e prima ancora dai cartaginesi. Come si può vedere la logica che vuole i padroni additare un nemico per rafforzare il proprio controllo e sviare le menti è sempre la stessa.
Possiamo rimanere a guardare mentre per strada si fa strage di quanti sono scomodi e indesiderati, possiamo parlare di attacco alla libertà e fare appello alla costituzione. Oppure sognare e combattere tutti insieme, magari per un mondo dove si è servi e padroni solo di noi stessi.*
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