PRIMITIVISMO: UNA RIVOLUZIONE UFFICIALMENTE ACCETTATA?

Quattro gatti. Gli eterni perdenti. Generosi, ma fuori dalla realtà. Portatori di un sogno bello, ma impossibile, decisamente impossibile... Questi sono solo alcuni dei giudizi che da sempre seguono gli anarchici. Anzi, che li perseguitano. In un mondo forgiato in ogni suo aspetto dal dominio, in mezzo a contemporanei che considerano del tutto spontaneo e naturale guardare la televisione e avere un conto in banca, fare la fila al casello autostradale e lavorare per la pensione, i nemici del potere si ritrovano soli contro tutti, facili zimbelli degli amici del potere. Un vero incubo, talvolta difficile da sopportare a livello psicologico. Forse per questo molti di loro sono afflitti da una specie di complesso di inferiorità che li porta sempre a giustificarsi, mentre vanno alla continua ricerca di stampelle cui aggrapparsi per non cadere nel ridicolo. Quando si imbattono in qualche personaggio di piccola, media o grande fama che manifesta simpatie per le loro idee, vanno in brodo di giuggiole: «Visto? Non siamo affatto soli, anche il noto cantante... il premiato scrittore... il grande filosofo... lo stimato scienziato... ci danno ragione». Poco male poi se tutti questi nomi altisonanti esprimono il proprio amore per la libertà solo durante una pausa domenicale, dopo aver trascorso il resto della settimana a timbrare il cartellino di sottomissione all’autorità. Quel che conta è non sentirsi più soli, oltre a risollevare di qualche centimetro la statura del proprio morale.

Per averne una dimostrazione, basta leggere i due libri appena pubblicati da Stampa Alternativa dedicati a John Zerzan, il più noto «teorico del primitivismo». Il primo si intitola Primitivo attuale e raccoglie alcuni saggi apparsi anni or sono nella sua prima antologia edita negli Stati Uniti; il secondo si intitola Apocalittici o liberati? e riporta stralci di due interviste da lui concesse. Curati entrambi da Alberto Prunetti, si tratta di due libri che vanno assaporati assieme, poiché il secondo aiuta a comprendere meglio il primo. Leggendoli si può solo indovinare il dramma umano di Zerzan, il mostruoso senso di inferiorità che deve attanagliarlo da anni. Sembra quasi di scorgerlo, chiuso nella biblioteca di Eugene a divorare libri di antropologia, di archeologia, di etnologia, di filosofia, allo scopo di far tacere la maledetta cantilena autoritaria «ciò che volete voi anarchici è impossibile, impossibile, impossibile...».

Quando si leggono gli scritti di Zerzan si rimane colpiti per prima cosa dalla quantità di citazioni e di rimandi che ne avvolgono il discorso. Il saggio sui numeri, ad esempio, ha ben 117 note; quello sul tempo 110 (più due del curatore); quello sul linguaggio 61 (più tre del curatore). Negli altri due saggi, uno sull’agricoltura e l’altro sull’arte, le note sono quasi assenti solo perché l’autore si è risparmiato la fatica di riportarle. Come il bambino insicuro mostra il fratello maggiore ai suoi coetanei potenziali contendenti, così Zerzan mostra un esercito di studiosi ai suoi lettori potenziali detrattori. Si tratta di una antica tecnica della battaglia dialettica che si definisce «terrorismo intellettuale»: si sfoggia erudizione (vera o presunta) allo scopo di intimorire e dissuadere dalla critica. Un’arma in sé discutibile e a doppio taglio, perché il suo abuso produce effetti opposti. Una plateale esposizione di forza è infatti per lo più sintomo di debolezza.

La debolezza di Zerzan è in un certo senso la debolezza di tutti i deterministi. Sì, perché il primitivismo è una forma di determinismo, cioè una concezione a carattere accentuatamente meccanicistico secondo cui ogni fenomeno o evento del presente è determinato da un fenomeno o evento del passato. Ciò spiega l’ossessivo suo interesse per le origini dell’alienazione, il suo continuo interrogarsi sulla genealogia della civiltà. Nel chiuso del suo chiostro, Zerzan va alla ricerca della fonte primaria della civiltà, della causa che ha generato l’orrore odierno che ci ha resi vittime delle automobili e di supermercati. Un autore assai apprezzato dai primitivisti, Fredy Perlman, nel suo libro più noto fa risalire l’origine della civiltà alla costruzione di un sistema di irrigazione da parte dei sumeri. Dopo di che, il diluvio. Zerzan non identifica un avvenimento preciso per cui si sarebbe verificata «la caduta» — concetto mistico a lui particolarmente caro —, lo indica genericamente nella comparsa del pensiero simbolico, del linguaggio, dell’arte, della divisione del lavoro, che di poco hanno preceduto l’agricoltura: fine del paleolitico, inizio del neolitico. Dopo di che, anche per lui, il diluvio. Ora, se il problema è quello di non bagnarsi e morire di polmonite, è difficile comprendere il motivo di tanta ostinazione nello stabilire quando è iniziato a piovere. Verrebbe da chiedersi: chi se ne frega di quando è iniziata la civiltà? Non è meglio cercare di capire come farla finire?

Ma non è così semplice. I fautori del determinismo devono trovare una origine, perché altrimenti non possono identificare quel meccanismo storico che si muove in loro vece sollevandoli dalla necessità e dalla responsabilità di agire in prima persona. In poche parole, per accendere/spegnere il motore della «megamacchina», occorre sapere quale pulsante premere. Considerata la scarsa considerazione che Zerzan nutre per Marx, è quasi divertente osservare le singolari affinità nelle conclusioni a cui entrambi pervengono. Anche Marx ha avuto bisogno di stabilire l’origine del suo nemico, il capitalismo moderno, e l’ha fatta risalire alla recinzione delle terre comunali avvenuta in Inghilterra fra la fine del 1400 e l’inizio del 1500. Da allora, a suo dire, si è messo in moto un meccanismo ineluttabile che attraverso lo sviluppo del capitalismo porterà all’instaurazione del comunismo. Zerzan si limita ad apportare alcune modifiche a questo schema: anche per lui sarà lo sviluppo del suo nemico principale, la civiltà, a causare l’avvento del «futuro primitivo». Marx si attendeva dalla fase suprema del capitalismo quella rivoluzione capace di liberare i proletari attraverso l’appropriazione di quanto creato dal capitalismo; Zerzan si attende dalla fase suprema della civiltà quel collasso capace di liberare i civilizzati attraverso il rifiuto di quanto creato dalla civiltà. Nonostante le differenze, entrambi si trovano uniti nell’attesa che il proprio nemico raggiunga il culmine del suo percorso, vedendo in ciò l’inizio del suo declino. Se ci pensa già il nostro nemico a scavarsi la fossa e a forgiare le armi che lo metteranno a morte, a noi cos’altro resta da fare?

Una simile concezione si risolve nella negazione della libertà dell’agire umano: una cosa assurda, soprattutto da un punto di vista anarchico.

Spetta a noi, a ciascuno di noi, cercare di realizzare i nostri desideri, perché non esiste alcuna forza esterna che lo farà al nostro posto. Ecco perché tanti anarchici hanno sempre sottolineato l’importanza dell’individuo, della sua volontà e capacità di agire in prima persona per trasformare la realtà che lo circonda. Se i deterministi si sforzano di negare l’individuo ponendo in qualcosa che è esterno (la Storia, la Società, la Natura) il significato del suo essere al mondo, i volontaristi riportano tutto all’interno dell’individuo, valorizzandolo (la storia, la società e la natura non esistono al di fuori degli individui e dei loro rapporti concreti). Ma Zerzan rabbrividirebbe alla sola idea di affermare: «Io sono, io penso, io voglio». Egli preferisce sostenere: «L’essere umano primitivo è, pensa, vuole; come detto da Tizio, confermato da Caio e ribadito da Sempronio». Non solo ha bisogno di creare una entità mitica collettiva quale «i primitivi» a cui attribuire i suoi desideri più profondi, ma addirittura ha bisogno dell’avallo di quegli stessi scienziati di cui denuncia senza sosta la nocività di un sapere separato.

Prendiamo ad esempio la splendida capacità di vivere pienamente nel proprio presente, senza fare calcoli sul passato o sul futuro. Quando un certo Zo d’Axa, un Libertad o un Novatore incitano a vivere intensamente qui ed ora, con passione e furore, e agiscono di conseguenza, ci troviamo di fronte a individui in carne ed ossa pronti a sfidare l’intero mondo gettandogli in faccia i propri desideri. Zerzan non ha questo coraggio e propone sì la stessa cosa, ma in quale tortuosa maniera! Avendo, a causa dei suoi tristi trascorsi di sindacalista, conservato un sacro orrore per l’individuo, è costretto a fare esprimere questo concetto agli studiosi che analizzano le società di cacciatori-raccoglitori, ricordando «l’appunto di Whitrow, per cui "i primitivi vivono nell’adesso, come tutti noi quando ci divertiamo"». In questa maniera non fa che formulare una critica alienata dell’alienazione, una critica specialistica dello specialismo, una critica mediata della mediazione, una critica linguistica del linguaggio… al fine di rendere più oggettive e più convincenti le proprie idee. Tutto il primitivismo è viziato da questo incessante girare in tondo e mangiarsi la coda.

Così, Zerzan infarcisce i suoi testi con innumerevoli citazioni perché non vuole apparire l’autore del proprio pensiero (i maligni sostengono che ci riesce benissimo...), bensì vuol dare l’impressione che esso si imponga da sé, che sia oggettivo. Anche questo è un effetto del determinismo. Quando Marx applaudiva o criticava, riteneva che la sua voce fosse la tromba della Storia. Da parte sua, Zerzan si considera il flauto della Natura selvaggia, capace di superare la diffidenza dei lettori addomesticati verso la libertà senza freni. Ciò spiega perché nel corso di un’intervista abbia sottolineato che la sua «non è teoria anarchica. È archeologia, è antropologia, ufficialmente accettata», facendo intravedere la vergogna che prova nell’esprimere teorie anarchiche e l’orgoglio che lo gonfia nel riprendere tesi «ufficialmente accettate». Nella quarta di copertina di Apocalittici o liberati? viene annunciato in pompa magna che il suo pensiero è «fondato su solide basi scientifiche», preambolo per farlo prendere per buono e... comprare. C’è da morir dal ridere nel vedere come una storiografia accademica (ovvero un sapere specialistico) che si occupa della preistoria (ovvero di un oggetto di studio per forza di cose vago perché troppo lontano nel tempo) possa venire presentata come «solida». Zerzan affonda a piene mani in questa storiografia, con risultati talvolta imbarazzanti.

È difficile riuscire a rimanere seri nell’apprendere, ad esempio, che i «disordini mentali» sono fra i «segni caratteristici dell’agricoltura», attività rea per altro di aver originato la «violenza maschile nei confronti delle donne». Donne che, per chi non lo sapesse, prima dell’avvento dell’aratro «mettevano al mondo i bambini senza difficoltà e con poco o nessun dolore». Si viene addirittura a sapere che «Meditando su un teschio di una donna cacciatrice-raccoglitrice delle grandi pianure, Jacquetta Hawks ha potuto immaginare "l’eterno presente in cui tutti i giorni, tutte le stagioni della pianura coesistono in una perdurante unità"». In effetti, difficilmente la benemerita Jacquetta Hawks avrebbe potuto scatenare la sua autorevole fantasia di fronte al teschio di un ragioniere…

Ma il nostro primitivista dell’Oregon riesce a superarsi nell’affrontare la questione del linguaggio. Sebbene intenzionato a negarlo radicalmente, si limita a indirizzare le proprie critiche al discorso razionale, attraverso cui si manifesta ciò che i greci definivano logos, nella pretesa di stabilire un significato universale, cioè di mettere ordine. Ciò significa forse negare il linguaggio in quanto tale? No di certo, tant’è che si premura di ricordare altrove la ricchezza di linguaggio dei popoli primitivi. Zerzan sembra non accorgersi nemmeno della contraddizione in cui cade. Non è un caso se in alcune esperienze poetiche vede una forma di «resistenza» al linguaggio, anziché una sua manifestazione radicalmente diversa (pensiamo all’eterno conflitto tra poesia e filosofia). Comunque, pare si tratti di un problema che lo assilla in modo particolare, se in alcuni suoi recenti saggi è tornato sull’argomento per annunciarne la sconvolgente soluzione: è vero, anche i primitivi comunica(va)no tra loro, ma non attraverso il linguaggio bensì attraverso… la telepatia! Prima di stramazzare al suolo dalle risate, si potrebbe fargli notare che la telepatia esclude il linguaggio parlato, non il linguaggio in sé. Chi può dire che i primitivi non si scambiassero telepaticamente dei simboli? D’altronde è inutile rivolgersi a Zerzan, dato che a sostenere una simile tesi non è lui, che mai oserebbe esprimere un pensiero proprio; l’intuizione sarebbe venuta in realtà a Freud e successivamente sarebbe stata confermata sul campo da alcuni antropologi.

Ebbene, per quanto possa sembrare assurdo, proprio qui risiede il fascino del primitivismo. Non è il mero prodotto di un pugno di sovversivi alle prese con oscuri desideri e sogni grezzamente individuali, ma gode nientedimenoche del riconoscimento culturale di Stato. Theresa Kintz, prefattrice dell’ultimo libro di Zerzan apparso negli Stati Uniti, secondo Prunetti arriva a garantire che «gli archeologi potrebbero essere dei critici molto persuasivi dell’insostenibilità dello sviluppo economico. È possibile sostenere che l’espansione della civiltà è pericolosa per l’umanità e le altre specie del pianeta. Dalla documentazione archeologica apprendiamo che lo sfruttamento eccessivo delle risorse circostanti gli insediamenti umani, la crescente complessità della cultura materiale e della tecnologia, la stratificazione sociale, sono pericolosi per l’uomo e per l’ambiente». Non ci avevate mai pensato, vero? La consapevolezza della pericolosità dell’espansione della civiltà non va più raggiunta osservando e vivendo sulla propria pelle gli effetti dell’intensificarsi di guerre e devastazioni e carestie, dell’avvelenamento industriale della biosfera, della degradazione di ogni rapporto umano o cos’altro. No, è più «persuasivo» apprenderla dai libri di archeologia (i suoi, si presume, essendo la Kintz un’archeologa e quindi interessata a farsi pubblicità). Secondo la suddetta, per accorgersi di quanto sia brutto il presente dobbiamo prima essere informati su quanto era bello il passato, perché solo confrontandoli conosceremo la verità. Civilizzati o primitivisti, la conclusione è sempre la stessa: dalla scienza viene la coscienza. C’è da restare sbalorditi di fronte a simili affermazioni. C’è da chiedersi se sia questo l’«approccio meno idealista e meno ingessato» (per chi fosse a digiuno della neolingua dell’eufemismo, qui si vuole intendere più strumentale e più pragmatico) verso gli studi specialistici auspicato dal novello collaboratore di Stampa Alternativa, il quale conclude la sua introduzione a Primitivo attuale con una dimostrazione "oggettiva" della superiorità della preistoria nei confronti della civiltà: «Se la civiltà non è un passo inevitabile nella storia della specie umana, se il 99 per cento del cammino della vita umana sul pianeta è stato fuori dai sentieri della civiltà, allora non ci sono più scuse per accettare di vivere in un mondo che assomiglia ad un vascello lanciato in una corsa disperata contro le rapide». Forse Prunetti pensa che per spingere l’umanità ad invertire rotta sia sufficiente darle ripetizioni di matematica. Allora, facciamo due conti: la preistoria è durata un paio di milioni di anni, la civiltà solo diecimila, un paio di milioni è un numero molto superiore a diecimila, quindi la preistoria è molto superiore alla civiltà. Al 99 per cento, non ci sono più scuse.

Per altro i saggi di Zerzan non sciolgono un enigma fondamentale: cosa c’entra il primitivismo? Perché mai la critica della civiltà in cui viviamo oggi dovrebbe automaticamente comportare l’esaltazione dell’Età dell’Oro in cui (si suppone) vivevamo oltre diecimila anni fa? Zerzan non fornisce risposte precise. Leggendolo si rimane intricati in ipotesi presentate come certezze per interposta sapienza cattedratica, senza riuscire a comprendere dove voglia andare a parare. Che il mondo in cui viviamo sia orrendo e produca sofferenze a non finire, questo potrebbe dirlo non solo qualsiasi anarchico, più o meno primitivista, ma anche qualsiasi persona dotata di due grammi di sensibilità e intelligenza (chi ne è privo sarà costretto a leggersi i libri di Theresa Kintz). Per rendersene conto non occorre affatto sapere che i Kung San «riuscivano a sentire un aeroplano monorotore quando era ancora a settanta miglia di distanza, e molti di loro riuscivano a vedere le quattro lune di Giove ad occhio nudo», è sufficiente sapere cosa accade a Baghdad, a Beslan, a Gerusalemme e ovunque nel mondo. La critica della civiltà non è prerogativa del primitivismo, non è sinonimo di primitivismo, non ha bisogno del primitivismo. Basti pensare che la stragrande maggioranza degli autori che hanno influenzato Zerzan non solo non sono primitivisti, ma sono contrari al primitivismo. Lewis Mumford, per esempio, raccomandava di evitarlo. Jacques Ellul lo considerava illusorio. Lo stesso Fredy Perlman lo rifiutò espressamente, consapevole che sarebbe diventato un’ideologia. Il suo libro Against His-Story, against Leviathan è una controstoria poetica della nascita del dominio, non ha mai preteso di servire da base a un sistema di pensiero. Lo stesso vale per David Watson della rivista Fifth Estate, imbarazzato di essere considerato un caposcuola in materia perché, come ha tenuto a specificare, «parlare di primitivo non richiede un primitiv-ismo politico». Tutti questi hanno espresso il pericolo insito nel trasformare la critica a ciò che è (la prospettiva anticivilizzatrice) nella mitizzazione di ciò che era (il primitivismo). Taciamo poi sui situazionisti, sfrenati tecnofili, arruolati come pioneri dai primitivisti solo in virtù della loro fama radicale (per non parlare di altri autori a cui Zerzan fa spesso ricorso, i vari Freud, Adorno, Horkheimer, Lévy-Strauss… nelle cui opere si potrebbe pescare un numero infinito di citazioni favorevoli alla civiltà). Dunque, Zerzan non è d’accordo con Mumford, Ellul, Perlman e Watson quando negano la possibilità e l’opportunità di un ritorno all’età della pietra: «Non sono convinto che un vero "ritorno" vada escluso. Se non un ritorno, cosa allora? Per me è una questione aperta». Non sarebbe bello sapere secondo quale strana logica Zerzan identifica la fine della civiltà con il ritorno alla preistoria?

Magari si può capirlo leggendo quanto afferma nella parte non tradotta di una delle due interviste pubblicate da Stampa Alternativa. Alla domanda se l’anarchia non sia un combattere contro i mulini al vento, Zerzan risponde che con la civiltà gli esseri umani si sono sforzati a lungo di convincersi che una condizione anarchica non è mai esistita, «perché se nessuna condizione simile è mai esistita, è inutile darsi da fare per raggiungerla ora». Un ragionamento, questo, ricorrente fra i primitivisti e su cui vale la pena riflettere. Sicché l’importanza fondamentale delle società primitive sarebbe data dal fatto che smentirebbero il luogo comune, caro al dominio, secondo cui l’anarchia non è mai esistita. Argomento buono per lasciare i fautori della necessità del potere a bocca aperta per un istante, ma niente di più. Il fatto che l’anarchia possa essere esistita più di diecimila anni fa non significa in sé che potrebbe esistere adesso, nemmeno se oggi esistesse per un ristretto numero di aborigeni australiani. Identificarla con condizioni sociali e ambientali scomparse da millenni, o presenti solo in ambiti molto ristretti, non le rende di certo un buon servizio. Ci sarà sempre qualcuno pronto a far notare che oggi la popolazione mondiale si aggira sui sei miliardi di individui e che la ricca vegetazione e fauna di un tempo ha lasciato il posto al cemento. Ergo, l’anarchia diventa irrealizzabile. Ma c’è di peggio. I primitivisti fanno dell’Eden preistorico la premessa indispensabile per andare all’assalto della Storia. In pratica, prima di darsi da fare per raggiungere la libertà bisogna essere certi che sia già esistita in precedenza. Insomma, si può desiderare solo quello che già si conosce. Dietro a queste realistiche parole si ode il lugubre suono di una condanna a morte della fantasia e dell’immaginazione. Il primitivista è come il sindacalista: entrambi hanno bisogno di mostrare un modello sociale in grado di funzionare, di un paradiso da vendere. L’ignoto, l’avventura, il meraviglioso, l’utopia, li riempiono di terrore.

Dunque, ricapitoliamo. I nostri signori e padroni ci dicono che oggi stiamo bene in confronto a ieri, quando stavamo male: ecco perché dovremmo esser loro grati e non rompere i coglioni sul domani. Zerzan ci dice che questa è una menzogna perché oggi stiamo più che male (e fin qui siamo d’accordo), ma aggiunge anche che la consapevolezza di quanto stiamo male oggi nasce dalla conoscenza di quanto stavamo bene ieri (da qui il suo apprezzamento per l’antropologia e l’archeologia), e che possiamo pretendere di star bene in futuro solo se conosciamo il nostro passato. Perché altrimenti, se nemmeno allora fossimo stati bene, diventerebbe inutile protestare contro gli apologeti del Progresso. In poche parole, se nella preistoria l’essere umano avesse condotto una vita di stenti, se Hobbes non avesse poi avuto tutti i torti, allora oggi Zerzan non sarebbe anarchico ma magari un portaborse di Bill Gates. Perché, se ieri l’essere umano era un miserabile, se oggi è un miserabile, cos’altro potrebbe essere domani? In fondo anche per Zerzan l’essere umano è solo un ingranaggio, benché andato fuori posto per colpa della civiltà.

Così si rischia di trasformare la stessa critica della civiltà e della tecnologia in qualcosa di ridicolo e patetico. Così non si attacca affatto la civiltà, la si fortifica. Se «il marxismo è l’ultimo rifugio della borghesia», come riconosceva un noto marxista, allora il primitivismo è l’ultimo rifugio della civiltà. Zerzan fa un grosso errore quando, anziché rifiutare del tutto il diktat lanciato dai fautori della civiltà — o l’orrida caverna o il confortevole grattacielo —, ne proclama la falsità solo per rilanciarlo dopo averlo capovolto: o la confortevole caverna o l’orrido grattacielo. Se l’alternativa è questa, i palazzinari possono dormire sonni tranquilli. I primi come i secondi rifiutano di prendere in considerazione la possibilità che i percorsi dell’umanità siano potenzialmente vari e infiniti. A partire dalla caverna si poteva arrivare in mille luoghi diversi e sconosciuti, che non abbiamo mai avuto modo di esplorare. La civiltà del potere e del denaro ci ha impedito di farlo, imponendosi come unico percorso da seguire. Ma distruggere la civiltà non significa tornare nelle caverne, significa andare altrove, in un mondo tutto da scoprire e da inventare. I tecnofili e i primitivisti si azzuffano tra di loro solo per presentarci la stessa identica minestra riscaldata, il grattacielo o la caverna. Sia detto una volta per tutte: no ad entrambi.

Come già detto, Zerzan rischia seriamente di compromettere senso e prospettive della critica antitecnologica. È sbalorditivo come questo anarchico che ama denunciare ovunque la nocività della scienza e l’influenza della sinistra, non si accorga di quanto sia scientifica la sua teoria e di sinistra la sua pratica. I suoi testi sono quasi privi di ogni riferimento alle rivoluzioni del passato e alle lotte sociali radicali del presente. Sebbene ci siano stati diversi anarchici e libertari che si sono interessati ai popoli primitivi o comunque selvaggi, Zerzan sembra ignorarli del tutto. Non ricorda né quelli che hanno parlato di loro (come Kropotkin o i fratelli Reclus), né quelli che hanno vissuto fra di loro (come Zo d’Axa o Malato), né quelli che hanno anche combattuto con loro (come Louise Michel). Non ricorda nemmeno gli anarchici che hanno abbandonato la vita civilizzata per andare a vivere nei boschi a contatto con la natura. Li snobba perché li considera troppo vecchi e quindi legati a concezioni non ancora anticivilizzatrici; sostenevano ancora la piccola industria o una limitata agricoltura. In realtà, li snobba perché non sono abbastanza vecchi: solo un secolo, purtroppo, non diecimila anni (prima o poi il povero Makhno verrà tacciato d’essere leftist perché andava a cavallo, cioè praticava il fottuto addomesticamento). La loro colpa è quella di aver sì preso in considerazione le società primitive, senza farne però un modello ideale da seguire.

Non stupisce che il primitivismo si sia formato in un paese privo di una forte tradizione rivoluzionaria, gli Stati Uniti, alla fine di un periodo di grossa contestazione sociale, gli inizi degli anni Ottanta. Come annota Prunetti nella sua introduzione, il primitivismo prende avvio allorquando «si comincia a leggere meno Marx e Bakunin e si cammina di più per i boschi». In effetti, è il caso di aggiungere, una passeggiata nei boschi è moolto più semplice e meno pericolosa di una rivoluzione. C’è però un piccolo particolare: passeggiare per i boschi non ferma il processo distruttivo di una civiltà in procinto di far scomparire quegli stessi boschi, la rivoluzione potrebbe invece farlo. Come dicevano i situazionisti cari a certi primitivisti, se il problema non è quello di come fare la rivoluzione diventa quello di come evitarla. Zerzan fa venire in mente un suo vecchio rivale, Murray Bookchin, che come lui si vanta di aver superato «l’anarchismo classico» (l’ideologia anarchica che esiste solo nella sua testa e in quella di poche cariatidi militanti) invitando per di più gli anarchici del mondo ad abbandonare ogni prospettiva rivoluzionaria in favore del munipalismo libertario. Zerzan non è un tecnofilo come Bookchin e non ne condivide le aspirazioni elettorali, ma ne possiede la stessa caratteristica arroganza dei profeti illuminati e, soprattutto, la stessa ostilità per una rivoluzione sociale. Non essendosi ripreso del tutto dai postumi del giovanile sindacalismo, Zerzan pensa ancora che la rivoluzione sia il momento in cui i lavoratori si impadroniranno dei mezzi di produzione. Non riesce a capire che la rivoluzione è il momento in cui l’impossibile diventa possibile, cioè una rottura con la normalità dominante capace di rimettere tutto in discussione. La rivoluzione potrebbe dare a ciascuno di noi la possibilità di realizzare ciò che desideriamo. Non ci sono modelli prestabiliti e univoci da seguire.

Non che Zerzan abbia rinunciato alla speranza di vedere la fine della civiltà. Anzi, in un suo recente articolo si dichiara certo dell’imminenza della crisi finale (entro i prossimi cinque anni). Ma su come si manifesterà e su cosa si potrebbe fare per affrontarla, non sa proprio cosa dire. Lo dimostra il suo stupefacente saggio Sulla transizione, pubblicato qualche anno fa, in cui riesce a tradire completamente il titolo non dicendo una sola parola sulla transizione. Evidentemente gli studi di antropologia e di archeologia non riescono a venirgli in soccorso. A livello pratico sembra diviso fra la possibilità di soluzioni individuali e la necessità di quelle collettive. Abbandonare la civiltà per ritirarsi in qualche zona selvaggia? Passare all’azione diretta e al sabotaggio? Emulare Kaczynski e fare entrambe le cose? A parole Zerzan sostiene tutto ciò ed il suo contrario. Da un lato invita all’esodo verso zone selvagge incontaminate, dall’altro ammette che non esistono zone selvagge incontaminate tali da rendere seducente questo esodo. Da un lato invita a brandire la spada contro il nemico, dall’altro afferma di ritenere inviolabile ogni vita umana. Da un lato si vanta della sua amicizia con il supposto "Unabomber", dall’altro dichiara di non condividerne né alcune idee né le pratiche. Da un lato saluta i rivoltosi di Seattle e Genova, dall’altro ostenta indifferenza per gli insorti d’Argentina. Non si comprende se questo suo continuo oscillare sia dovuto alla confusione che gli annebbia la testa o all’opportunismo che gli imputridisce il cuore. Di certo si sa cosa fa lui: se ne sta in città a scrivere saggi, partecipa a iniziative riformiste su temi ambientali e rilascia interviste. È nota infatti la sua disponibilità a concedersi come comparsa ai mass media. In Italia è Luca Casarini a farsi intervistare in televisione, negli Stati Uniti è John Zerzan. Lo scopo di entrambi è il medesimo, fare pubblicità alla propria merce ideologica. È così che è stata creata la leggenda di uno Zerzan ispiratore degli scontri di Seattle (cosa che ha infastidito molti dei compagni che allora presero parte al Black Bloc). Diventa superfluo far notare l’ennesima contraddizione in cui incappa Zerzan, il quale accusa chiunque non sia d’accordo con lui di essere un «leftist», pubblicando per una casa editrice di sinistra come Stampa Alternativa. Mica per niente il suo ultimo libro Running On Emptiness è stato pubblicato negli Stati Uniti dalla Feral House — casa editrice portavoce di quel «pensiero terminale» che contraddistingue il termine del pensiero —, il cui catalogo è un’allucinante galleria del bizzarro e del kitsch estremo: cospirazionisti, serial killer, satanisti, torturatori, nazisti, extraterrestri, estremisti islamici, vampiri... Ciò che per Zerzan probabilmente dimostra la forza dirompente delle idee primitiviste, in grado di espandersi anche in contesti meno congeniali, in realtà testimonia la loro cedevolezza. Ma se il primitivismo di Zerzan si esaurisce in eccentrici sospiri di nostalgia per il passato buoni per il mercato editoriale, è anche perché si guarda bene dallo sfociare nell’urlo di guerra contro il presente.

In fondo il disinteresse di Zerzan ad approfondire la questione di una pratica anticivilizzatrice conseguente è dovuto alla convinzione che sarà la civiltà stessa a farci ritornare alla condizione primitiva. Questo genere di fede è capace di aprire un varco non solo ad ogni compromesso, ma anche ad ogni aberrazione e fanatismo. I rivoluzionari deterministi negano di limitarsi ad aspettare che il sol dell’avvenire spunti come per incanto da dietro la collina, e si dichiarano pronti ad agire. Qualcuno tra loro in effetti è disposto ad essere conseguente. Purtroppo, non per fermare e distruggere il processo storico contro cui protestano, bensì per accelerarlo e ultimarlo. È per questo che Marx era contrario al luddismo, ma era favorevole alla guerra fra Germania e Francia o al colonialismo inglese. È per questo che alcuni primitivisti meno topi di biblioteca di Zerzan sarebbero lieti di affrettare il crollo della civiltà, e pure con ogni mezzo necessario, tant’è che qualcuno arriva a salutare le stragi dell’11 settembre, gli stermini di massa e quant’altro. Su tutto ciò, Zerzan preferisce mantenere un diplomatico silenzio e restare in attesa del collasso della civiltà sotto forma di catastrofe naturale. È questa la sua speranza, la maniera per risolvere la tragica situazione che stiamo vivendo senza essere costretto ad agire. A confidarlo è lui stesso quando ricorda con commozione una storiella raccontata da Vaneigem: «I cani del laboratorio di Pavlov erano stati condizionati per centinaia di ore. Erano pienamente addestrati e addomesticati. Poi ci fu un allagamento nel seminterrato. E sai cosa accadde? Dimenticarono tutto il loro addestramento in un batter d’occhio. Una cosa del genere dovremmo essere in grado di farla. È su questo che punto tutta la mia esistenza ed è a quest’obiettivo che dedico la mia opera».

Noi siamo quei cani addestrati. Inutile pensare di riuscire a spezzare le catene che ci legano, inutile pensare di poter mordere gli aguzzini che ci torturano (ma allora, perché correre inutili rischi con il sabotaggio? Basta attendere circa un lustro…). Possiamo solo fare affidamento sul diluvio della civiltà, in grado di allagare il seminterrato dove ci troviamo. Dopo diecimila anni di pioggia battente, dovremmo quasi esserci. Fra l’apocalisse e la rivoluzione, Zerzan sceglie decisamente la prima, su cui punta tutta la sua esistenza e a cui dedica la sua opera. In attesa della fine del mondo, possiamo continuare il nostro tran-tran quotidiano. Magari potremmo imparare ad accendere il fuoco sfregando bastoncini o pietre, come invitano a fare molti primitivisti. Un domani potrebbe servirci.

Ammesso che ci sia un day after l’apocalisse, naturalmente.

Alcuni anticivilitici

[Ottobre 2004]