Estratto dal libro di Hassan Itab,

La tana della iena. Storia di un**
**ragazzo palestinese

(Ed. Sensibili alle foglie, 2003)

[…] Era buio quando arrivammo a Ponte Galeria. Le luci d’ambiente rimandavano a un carcere o a un luogo ancora più spettrale. E infatti si trattava di un Centro di Detenzione Temporanea per stranieri.

Il tredicesimo giorno di febbraio con tutte le sue agitate correnti stava ormai finendo la sua parte. Di quel che sapevo in questi reclusori venivano portati, per il tempo necessario ad organizzare la loro espulsione dall’Italia, quei migranti trovati in giro senza un documento certo d’identificazione e di lavoro. Persone che non avevano commesso alcun reato né subìto condanne. Poveri del mondo in cerca di un futuro.

A prima vista Ponte Galeria mi apparve assai peggiore del carcere dal quale provenivo. Varcata la soglia fui subito aggredito da immagini di estrema degradazione, una sensazione mai provata prima di quel giorno. Mi accompagnarono all’accettazione, una specie di ufficio matricola, e per prima cosa fui accuratamente perquisito. Quindi: "Si spogli". Guardato a vista lasciai per terra pezzo dopo pezzo ogni mio indumento. Si presero tutto, compreso l’orologio, l’anello, la collanina, la cinta dei pantaloni, e i lacci delle scarpe.

Nudo come un verme provai a chiedere al militare di turno: "Perché mi togliete le mie cose? Sono in arresto, forse? Perché questo trattamento dal momento che non ho commesso alcun reato?"

Nessuno pensò di rispondermi. Ero allibito. Su mia insistenza, non senza una certa flemma, un funzionario aprì infine la bocca per dirmi soltanto che non c’era bisogno d’avere fretta, tutto mi sarebbe stato ridato a tempo debito. Nel frattempo c’era altro da fare, la visita in infermeria. Qui trovai un medico che non andava d’accordo con la fantasia. Non si preoccupò di visitarmi, gli bastò chiedermi come me la passavo. "Discretamente, non c’è male" provai a dire con una certa ironia, ma lui prese la risposta per buona e saltò direttamente al punto due. Dovevo fare la doccia e poi lasciarmi irrorare da una polvere bianca. Roba contro le pulci, i pidocchi, le piattole. Come "nuovo giunto" ero sospettato di portare con me insetti e parassiti, forse per compagnia. Ma anch’io ebbi un sospetto: che pulci e pidocchi fossero in agguato proprio nelle celle in cui m’avrebbero infilato.

Nudo, imbiancato, in quello sgabuzzino riemersero una ad una le immagini sepolte della mia prima carcerazione e di tutti i transiti successivi. Una storia circolare, sempre uguale, in cui a ogni nuovo passaggio corrisponde una mortificazione ulteriore, un ulteriore sprofondamento nella fossa della spersonalizzazione. Mi sentivo veramente violentato da quel freddo rituale, violentato nella mia persona e nella mia libertà. Non avevo fatto nulla, ero solo straniero.

Tentai di dire al medico che non avevo affatto bisogno di polveri o medicinali. Anche quel giorno mie ero lavato, come tutti gli altri precedenti. Nonostante l’aspetto, che forse risentiva degli ultimi eventi, ero civilizzato, mi spazzolavo i denti. Non colse affatto lo spirito, rimase irremovibile. Con le buone o con le cattive la doccia la dovevo fare, e in fretta. E per la polvere dovevo stare buono e lasciarli fare. Sapevano loro cos’era meglio per me. Ero costretto. Desistetti da ogni ulteriore resistenza. Quando aprii gli occhi dopo l’impanatura mi aspettava un’altra bella sorpresa: al posto dei miei abiti personali erano spuntati fuori: una tuta, un asciugamano, un paio di mutande, un paio di calzini e, per completare l’opera, un paio di ciabatte.

Una divisa, insomma, come ad Auschwitz o come a Guantanamo. Fui scosso da brividi. Privato dei miei gusti personali, dei colori e delle fogge che fino a poco prima avevo scelto per presentare la mia immagine al mio prossimo, ero finalmente pronto per fare il mio ingresso in società.

Il primo impatto con l’interno fu peggio di un pugno nello stomaco. Molto peggio. Recinti metallici, baracche, stanzoni enormi, letti a castello, ferirono dolorosamente i miei occhi. E tanta, tanta gente, tanta povera gente, tanti poveri umani abbandonati a se stessi in enormi, spropositati gabbioni. Un buco tragico nel luccicante Occidente, una parentesi degli orrori nelle cattedrali della modernità.

Nonostante il mio lungo vissuto carcerario non avevo mai neppure immaginato che qualcosa di simile esistesse. Ancora con un piede sulla soglia mi parve di capire che chi aveva immaginato, voluto, realizzato questi luoghi doveva compiacersi a tal punto del suo benessere da considerare i migranti senza mezzi e senza carte la peggior minaccia per la sua sicurezza. Per la sicurezza della sua immagine prima ancora di quella del suo portafoglio.

Qui infatti non ci finiva chi aveva rubato o, comunque, commesso un qualsiasi reato, bensì chi aveva la colpa, l’enorme intollerabile unica colpa, di mostrarsi a questo mondo così come, con le sue guerre di rapina, questo mondo l’aveva lasciato. […]

 
 

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