Una bambina di appena cinque mesi muore, e la madre è arrestata con l’accusa di omicidio.

E’ accaduto a Bari, a metà marzo. “Non si tratta di un dramma della miseria”, si sono affrettati a dichiarare gli inquirenti, affermazioni che i media nazionali hanno subito diffuso ed amplificato, preoccupandosi di rassicurarci del fatto che la miseria non ha nessun ruolo nella vicenda, e forse, in fondo, non esiste neanche più, nell’Italia del ventunesimo secolo. Si segue un copione già visto tante volte: si nega l’evidenza dei fatti smascherandoli; si tenta di occultare la realtà, sbattendola in faccia a tutti. Dopo due giorni, infatti, l’autopsia chiarisce che la bambina è morta di un raro tipo di polmonite fulminante, e la madre viene scarcerata, dopo averla dipinta come l’ennesimo mostro infanticida, segnata con lo stigma di un’infamia che le resterà addosso per sempre, come se già non fosse sufficiente la condanna che la vita le ha inflitto, togliendole la propria bambina.

E’ qui allora che il dramma si manifesta in tutta la sua brutalità, in tutta la sua, per davvero, miseria.

La bimba ed i suoi genitori abitano in una casina in campagna, senza corrente elettrica ed acqua potabile, in condizioni igieniche precarie, e vivono di quello che il padre guadagna lavorando come muratore a giornata, in nero, sempre ammesso che trovi lavoro e venga retribuito.

La miseria emerge prepotentemente. La miseria di un sistema sociale che costringe a vivere, e a sopravvivere, una famiglia in condizioni inumane, ai margini della città, tra l’indifferenza generale, fino a che il dramma non si compie. La miseria anche, e forse soprattutto, morale, di una società che ha già condannato una madre in base al pregiudizio, colpevole per il fatto stesso di essere povera, di avere appena diciassette anni ed una bambina, essere nuovamente incinta, e di avere un compagno molto più grande di lei, e per di più divorziato, tutte macchie ancora molto gravi in una società gretta e bigotta. Una società miserabile che tende a scaricare responsabilità che sa appartenergli ed essere intrinseche alla sua stessa esistenza, che la rivelano compiutamente. Ed ora la verità è emersa in tutte le sue brutture, è presumibile che il sistema metta in moto tutto il suo apparato e decida di occuparsi della ragazza, per risciacquarsi la coscienza, trascinandola in un vortice per certi versi peggiore di quello appena attraversato, attesa da tutta una trafila di comunità, case-famiglia, psicologi, assistenti sociali e varie altre categorie di sbirri in camice bianco, preposti ad analizzare, esaminare, psichiatrizzare; che pretenderanno indicarle il giusto cammino da compiere, e pronte a strapparle la nuova creatura che ancora porta in grembo, non appena non seguirà alla lettera i loro dettami, adempiendo quindi allo stesso ruolo che finora ha avuto la morte, perché costoro in fondo ne rappresentano l’equivalente, rispetto alla vita, in tutta la sua bellezza e compiutezza, con le loro pretese di “curare” quanto hanno essi stessi generato.

 
 

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