Lo Stato democratico tortura

Lo abbiamo sempre sostenuto. Lo abbiamo detto, scritto ed urlato mille volte. Lo abbiamo appreso leggendo le biografie di chi lo aveva provato, così come lo abbiamo sentito raccontare dalla viva voce degli amici che ci erano passati, o raccolto dalle lettere dei compagni e di tanti altri prigionieri. Spesso, però non siamo stati creduti; ci hanno detto di essere visionari, esagerati. Eppure, gli Stati democratici applicano ancora la tortura. E non lo fanno solo al di fuori dei loro confini nazionali, no; le torture dei parà italiani in Somalia o degli eserciti in Iraq e nel carcere di Abu Graib, o nella base di Guantanamo, sono solo la punta di un iceberg. Queste sono diventate reali perché, nella società dello spettacolo, fondata sull’immagine, ormai solo la documentazione visiva produce la realtà. Tutto il resto, non esiste. Invece,le opulente e avanzatissime democrazie occidentali torturano ogni giorno, nelle loro carceri, migliaia di individui. Certo, la tortura fisica è di gran lunga inferiore a quella che esportano negli altri Paesi, ma è stata sapientemente affiancata e spesso sostituita da una forma più subdola e più raffinata di tortura, messa a punto da eminenti specialisti che si formano nelle università, “dove uccidete il germe dell’uomo”, come cantava la Banda di Tirofisso. Oggi la tortura è psicologica, e la subiscono ininterrottamente tutti i reclusi, in forme più o meno dure.

Io ho avuto modo di avvertirne tutto il peso appena arrivato nel carcere di Salerno, e nel corso delle prime due settimane che vi ho trascorso. L’impatto sicuramente non mi ha aiutato. Isolato in una cella di metri uno e ottanta per quattro, sporca; il bagno tutt’uno con la cella, senza nessun divisorio, senza bidet, e con il water accanto alla cancellata d’ingresso, con un piccolo pannello di compensato a “nascondere” la tua intimità dalla vista delle guardie. Alla finestra, oltre alle sbarre, una doppia rete metallica interna-esterna, tanto fitta da nascondere quasi del tutto la vista di quel piccolo pezzo di cielo che si riesca a vedere; la cella buia, tanto da dover tenere accesa la luce per gran parte del giorno, ma il cui interruttore è solo fuori, e quindi si dipende dalla guardia per accendere e spegnere, così come per la tv. Il passeggio lo faccio da solo, in un piccolissimo cortile di metri sette per otto, per un tempo che è sempre variato da mezz’ora fino al massimo di un’ora, al mattino e al pomeriggio, col risultato di passare spesso anche ventitre ore in cella. Sempre che aprano per andare all’aria, quando non trovi la guardia che ti dice che quel pomeriggio non esci, tanto sei già uscito la mattina, oppure che si eclissa quando arriva l’orario del passeggio e devi chiamarlo incessantemente per mezz’ora, e capisci che non vuole aprirti perché altrimenti deve restare lì, e guardarti a vista mentre tu cammini all’aria. La doccia si fa solo due giorni a settimana, e la prima l’ho fatta con acqua fredda in un locale doccia lirido. E poi perquisizioni corporali, quindici guardie per una perquisizione della cella, in seguito alla quale ti tocca risistemare tutto quello che hanno buttato per aria; sottrazione di gran parte del materiale che arriva con la corrispondenza(manifesti,volantini, comunicati, riviste…), disturbo del sonno varie volte ogni notte, che ti impedisce di dormire bene, ecc. Mille piccole e meno piccole angherie, per esasperare la situazione e distruggere il morale.Dai libri chiesti, promessi, ma mai consegnati, al rifiuto di un secchio per poter lavare la cella, alla negazione delle telefonate consentite.

Ho capito appieno quello che già sapevo e che da anni vado dicendo ad altri: che il fine del carcere è l’annientamento psico-fisico e la spersonalizzazione dell’individuo. Ed ho pensato spesso a cosa sarebbe potuto accadere se al mio posto si fosse trovato qualcuno più debole, più solo o in condizioni psicologiche particolari, e magari non avrebbe esitato ad evadere con una corda attorno al collo. Ogni volta che accade, l’assassino è senza dubbio lo Stato.

Io ho la grande fortuna di non essere solo in questa cella, ma ci sono i miei affetti, i miei amici e i miei compagni, le mie idee, ogni momento della giornata. Così ora sono molto più tranquillo; ho imparato a gestirmi meglio la giornata, ad andare via da questo posto, quando sono al passeggio, lasciando il mio corpo -un involucro vuoto- andare avanti e indietro, otto metri per volta, fino a che non torno in cella. Certo è straordinario come i muri di queste celle raccontino le sofferenze che hanno vissuto. Dove sono ora leggo nomi arabi, un calendario con i mesi in caratteri cirillici e la scritta “Ucraina”, e poi un sacco di scritte, di frasi e di proclami in un italiano sgrammaticato: dalle invettive contro i pentiti alle raccomandazioni a qualche santo; da una “apologia della masturbazione” fino ad una frase che dice: <Quando si muore si va in paradiso perché all’inferno ci siamo già stati. E questo! Chiunque chiedesse e questo che dovete rispondere>.

Perché, per affermare verità così evidenti, non c’è bisogno di essere grandi letterati.

Salvatore, Salerno 5 luglio 2005