Autorganizzazione e spazi sociali
UN’UTOPIA AGITA IL MONDO. Cinque incontri sull’autorganizzazione. Rovereto, 28 novembre - 19 dicembre, sala di Palazzo Balista, corso Rosmini 13
Rovereto, Giovedì 12 dicembre 2002, ore 20:30
Autorganizzazione e spazi sociali
Controllo urbano e occupazione di luoghi collettivi
IL RAPPORTO TRA SPAZI sociali ed autorganizzazione è indissolubile.
In un mondo che ha sottomesso ogni metro quadrato di terra e di mare alla legge dell'economia di mercato e di conseguenza ad un controllo sociale sempre più capillare, un'idea come quella autogestionaria, basata sull'autorganizzazione dell'attività umana, non trova spazio se non ponendosi in aperto conflitto con la realtà.
La maggioranza di noi vive, ma sarebbe più verosimile dire sopravvive, in pochi metri quadrati di cemento - gentilmente offerti a prezzi esorbitanti dagli imperi dell'immobile - e trascorre gran parte del suo tempo in ambienti artificiali e malsani come le fabbriche, i magazzini, le scuole, gli ospedali, gli ipermercati. Anche il "tempo libero" è costretto in vicoli ciechi: dal bar al parco giochi, dal viaggio organizzato nel villaggio-vacanze alla discoteca, nulla esula dallo strapotere del denaro.
Eppure il rapporto tra gli uomini e l'ambiente in cui vivono è profondamente dialettico, nel senso che come ogni uomo plasma lo spazio adattandolo alle sue esigenze, allo stesso modo quello spazio si rivelerà portatore di possibilità, di immaginazione, di incontri o di solitudini.
Ed è soprattutto su questa intuizione che si basa l'apparato di controllo del territorio o lo studio scientifico degli spazi che va sotto il nome di urbanistica. Nata con la città contemporanea, dall'analisi dei problemi sociali che metropoli come la Parigi del XIX secolo ponevano in evidenza, l'urbanistica si è sviluppata unicamente come strumento per arginare e reprimere tutte le spinte individuali e collettive alla creazione di nuovi spazi e quindi di nuove possibilità.
Se non fosse abbastanza chiaro basterà portare come esempio la prima pianificazione di Parigi, operata da Hausmann all'indomani delle rivolte generalizzate che culminarono nell'esperienza della Comune; per evitare la costruzione di barricate, permettendo al contempo un più agile intervento della gendarmeria a cavallo, vennero spianati interi quartieri, dove crogioli di vicoli e stradine facilitavano agli insorti l'allontanamento della polizia o la fuga. Al loro posto i boulevards, ampi viali a raggiera chiaramente indifendibili. Contemporaneamente Hausmann ideò il prototipo del moderno centro connnerciale edificando le famose gallerie coperte - i passages - sotto la cui volta trovavano spazio
negozi, spacci, atelier e caffè dove la borghesia potesse dare sfogo alla sua adorazione della merce.
Per stessa ammissione di architetti e pianificatori, una delle leggi universali dell'urbanistica sottolinea come l'importanza di un'abitazione non risieda tanto nelle sue caratteristiche, quanto nell'effetto che ha sulla vita delle persone. Una dichiarazione di intenti che si è fatta tristemente pratica con la divisione delle città in ghetti, quartieri satellite, quartieri residenziali e commerciali, zone industriali e periferie degradate. Quale effetto può avere un ghetto di Los Angeles, costantemente controllato con telecamere e posti di blocco, rastrellamenti e coprifuoco, sull'immaginazione e sui sogni di un giovane afroamericano? Quale l'effetto di un villaggio blindato e circondato dal filo spinato su un palestinese? Quale l'effetto di Porto Marghera e dei grigi quartieri dai palazzi a dieci piani su un operaio? E quante vite si sono perse su una tangenziale, quante sono affogate nelle luci baluginanti di un ipermercato?
Viviamo in città fortezze, brutalmente divise in cellule fortificate della società benestante e luoghi di terrore dove la polizia combatte i poverì criminalizzati. La seconda guerra civile, cominciata nelle lunghe estati calde degli anni Sessanta, è stata istituzionalizzata nella struttura dello spazio urbano.
Mike Davis,
Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles
A questo punto è abbastanza chiaro quanto l'urbanistica sia innanzitutto al servizio di un potere che ci vuole rassegnati ad uno spazio gestito da altri, dentro il quale non possiamo che agire a senso unico - produrre, consumare e obbedire - e sul quale non abbiamo voce in capitolo.
Eppure quello spazio si può modificare. Le strade e le piazze svuotate dagli uomini per fare spazio alle automobili, alla circolazione insensata di automi e di cose, i palazzi e i cortili dove un'amanita indifferente e anonima si passa accanto, tornano ad essere punto d'incontro nel corso delle rivolte; la pratica dell'autorganizzazione viaggia assieme alla riscoperta di luoghi collettivi dove discutere e confrontarsi reciprocamente, dove sperimentare nuove forme di scambio e di solidarietà, dove pensare l'utopia, il non-luogo ancora da inventare. La fame e l'esasperazione delle condizioni materiali, spesso scintille di rivolta generalizzata, o persino le catastrofi naturali che sospendono temporaneamente il normale corso dei tempo, possono essere la premessa ad un nuovo modo di affrontare la quotidianità, un imprevisto necessario che dà la misura agli individui delle loro possibilità di far fronte ai problemi e ai conflitti della comunità; e questo perché la comunità in quelle condizioni straordinarie si ricrea, e dalle ceneri di una massa irresponsabile delle sue azioni nasce la consapevolezza di unirsi e di organizzarsi nella pratica per far fronte all'evento eccezionale.
Da qui può nascere spontanea la domanda se sia possibile vivere gli attuali spazi urbani in una prospettiva di liberazione a lungo termine. Credo che la città contemporanea non sia solamente una scenografia sulla quale si può improvvisare una nuova scena, tanto più che la città nella sua essenza non esprime semplicemente uno spazio, ma si porta immediatamente appresso anche il rapporto tra gli uomini e la natura, tra gli uomini e un'organizzazione economica, tra gli uomini, la tecnica e la tecnologia.
La città moderna non è neutrale.
Ma le risposte possibili alla necessità di vivere autenticamente l'ambiente che ci circonda trovano luogo e sincerità solo nelle esperienze di rottura con l'abitudine a subire le decisioni che ci riguardano da vicino.
D'altra parte tendiamo a dare per scontata l'organizzazione attuale delle idee, del tempo, delle attività e dello spazio, quasi fossero il risultato fatale di una storia di cui siamo passivi spettatori. Per questo, principalmente, non osiamo.
Non osiamo porci in modo critico e creativo al mondo.
Restando nel tema del rapporto tra gli uomini e l'ambiente è forse buono ricordare che la progenitrice delle metropoli attuali, la città-stato europea dell'epoca moderna non fu assolutamente un beneficio per molti.
Nata contemporaneamente alla fondazione delle prime banche - e quindi sull'istituzione del neonato sistema di credito -, al potere acquisito dalla nuova figura del mercante, all'accentramento delle ricchezze nei granai e nei magazzini municipali e, non ultimo, al carcere, la città-stato soppiantava di fatto l'organizzazione economica più orizzontale delle cittadelle medioevali e dei villaggi rurali. Di sicuro questo imporsi dell'economia di mercato non l'u un cambiamento accolto con tranquillità e rassegnazione da buona parte del popolo, tanto più che i monopoli della produzione e del commercio avevano come naturale conseguenza lo smantellamento delle corporazioni dei mestieri artigianali e il progressivo espandersi degli interessi economici nelle campagne, privatizzando e recintando le terre.
L'esproprio delle terre comuni fu duramente contestato nell'arco di due, tre secoli (dal XVII al XIX), dando adito a numerose rivolte contadine in tutta Europa. La proprietà privata, inizialmente, veniva vista come un furto non solo dai vagabondi, ma anche da quegli agricoltori saltuari che la terra la coltivavano solo quando ne avevano personale bisogno. Fu proprio questa genia non facile alle domesticazioni che allora si propose di riprendersi le terre sottratte dai ricchi, e spesso vi riuscì, facendo del rifiuto della proprietà la propria bandiera e ingaggiando una vera e propria guerra con i nuovi latifondisti a colpi di occupazioni abusive. Non di rado le loro vittorie avevano il sapore della beffa, come quando, nell'Inghilterra del XIX secolo, sfruttando un'antica legge inglese che lasciava l'usufrutto di un'abitazione a chiunque l'avesse costruita tra l'alba e il tramonto, intere comunità rurali si misero a costruire case in giornata dando la possibilità a molti nullatenenti di possedere quantomeno un riparo.
Non furono solo i poveri e i diseredati a comprendere la catastrofe imminente che l'economia di mercato stava operando sul territorio europeo, tant'è vero che le più famose riflessioni sull'utopia nacquero in quella stessa epoca.
La facoltà di immaginare città libere, quasi templi di un'umanità redenta dal peccato del potere, aumenta - non a caso - in un momento storico che mette sotto gli occhi di tutti la distruzione di quel substrato solidale e di mutuo soccorso che esisteva e resisteva nelle piccole comunità agricole, nei villaggi e nelle corporazioni. L'idea che tutto questo andasse scomparendo ha rinvigorito e radicalizzato il sogno di una "città ideale", ad esempio in Campanella e in Thomas Moore.
La confisca delle terre comuni, d'altro canto, creò una nuova classe di poveri, che, spogliati di tutte le possibilità di sopravvivere nelle campagne, si riversarono nelle città. Tuttavia le prime periferie industriali, come quella londinese, vennero vissute da questi "profughi" mantenendo quei rapporti di mutualismo a cui erano abituati nei villaggi, per cui coloro che lavoravano nelle fabbriche potevano contare sui prodotti della terra che altri coltivavano, dov'era possibile, in piccoli appezzamenti di terra all'estremo limite della città; mentre, allo stesso modo, altri si arrangiavano lavorando la pietra in piccole cave abusive e scambiando pietre e materiali da costruzione con gli abitanti già urbanizzati del centro.
Da questi pochi esempi possiamo dedurre quanto sia stato difficile piegare moltissimi uomini alle esigenze della civilizzazione - in primis la sottomissione degli individui allo spazio urbano e alle sue regole - già nella stessa "culla" (l'Europa) della civiltà industriale.
Anzi, possiamo tranquillamente concludere che sin dalla nascita della città moderna è sempre esistita una storia sommersa dell'urbanizzazione che ha fatto dell'abusivismo edilizio e dell'occupazione di terre il metodo più efficace per contrastare la continua conquista e privatizzazione degli spazi urbani e rurali. Dal proletariato rurale inglobato a forza nella città arriviamo agli occupanti di case delle città contemporanee e agli occupanti di terre in quei paesi del terzo mondo sottoposti alla predazione continua di risorse ad opera del nuovo colonialismo economico.
ORA COME ALLORA, QUI COME ALTROVE, è di primaria importanza continuare a praticare l'utopia, liberando spazi sociali e individuali dalla logica mercantile attraverso l'occupazione abusiva, rifiutando attivamente la miseria dei luoghi che ci riserva il dominio capitalista. Occupare luoghi collettivi non nel senso di un'alternativa sociale in miniatura - il capitale non ammette riserve al suo interno -, ma nel senso di allargare le occasioni pratiche di comunicazione diretta e di lotta. Al di fuori del conflitto, ogni "alternativa" viene recuperata dal mercato - che si tratti di tecnologie dolci o di prodotti biologici - e dalle istituzioni politiche. In quanti casi i "servizi pubblici" forniti dallo Stato sono stati il rovesciamento di quelli che la classe operaia aveva organizzato da sé, sulla base del decentramento e del mutuo soccorso? Questo significa che solo nel conflitto l'autorganizzazione mantiene il suo carattere rivoluzionario. Ma significa anche che durante le rivolte si esprime una forte tendenza autorganizzativa; mentre attaccano lo Stato nelle sue funzioni repressive, i rivoltosi tendono a renderlo inutile nelle sue funzioni "sociali". E questo li porta a modificare radicalmente gli spazi sociali. Anche in tal senso, la storia è ben lungi dall'essere già scritta.
Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell'ora della rivolta la città è sentita veramente come la propria città: propria, poiché dell'io e al tempo stesso degli "altri"; ... ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell'alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini nelle sue strade... nell'ora della rivolta non si è più soli in città.
Furio Jesi,
Spartakus. Simbologia della rivolta
Un ultimo accenno vorrei riservarlo alla fragilità intrinseca della metropoli contemporanea.
La sottomissione della natura, il tentativo di addomesticarla totalmente alle leggi della tecnica e (lei profitto ha reso le zone urbane spaventosamente esposte alle "calamità naturali". Pavimentando i fiumi questi prima o poi straripano, disboscando, forando e cementando selvaggiamente le montagne queste prima o poi franano, inquinando l'atmosfera e il mare questi sono sempre più sensibili ai basculamenti climatici, con le conseguenze tragiche provocate dai cicloni, dalle alluvioni e dello scioglimento dei ghiacci elle ben conosciamo.
Una metropoli come Los Angeles, ad esempio, dove interi quartieri vengono costruiti, riveduti e distrutti in pochi mesi a seconda delle esigenze del capitale, ha messo già sufficientemente in evidenza questa sua estrema dipendenza dalle catastrofi provocate dal clima e dall'esasperato sfruttamento delle risorse e delle possibilità di un territorio: come si può vivere "al sicuro" in una casa costruita in economia di materiali, in una zona paludosa e sismica?
La sicurezza stessa che ci promette il mercato, oltre ad essere pagata al prezzo della libertà, ha dimostrato troppe volte di essere fittizia. Cosa ci tiene, ancora, dal buttarci a capofitto nella pratica dell'utopia? Se solo una rivoluzione, di rapporti e di luoghi, ci può salvare, chi o cosa stiamo aspettando?
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