Il segreto di Pulcinella
Questa piccola Italietta, è da sempre patria di intrighi più o meno oscuri, servizi più o meno “deviati” (quasi che ci possano essere anche quelli “dritti”…), e spioni di ogni risma. Tale genìa si è accresciuta negli ultimi tempi, attraverso la realizzazione di un “servizio segreto di spionaggio” interno alle carceri italiane. In realtà, è altamente probabile che tale servizio esista da tempo immemore, e che la notizia sia saltata fuori di recente, solo in virtù di una sua “ufficializzazione”, anch’essa più o meno segreta. La notizia è stata riportata su un quotidiano nazionale, in seguito ad una interpellanza parlamentare.
In pratica, nei giorni immediatamente seguenti alle ultime elezioni nazionali, quindi mentre i nuovi poteri non erano ancora insediati, il capo dell’ufficio ispettivo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), Salvatore Leopardi, avrebbe creato una struttura di spionaggio interna alle carceri, preposta a “monitorare” i rapporti “intramurari ed extramurari” dei detenuti; tale struttura, sarebbe composta da un numero molto limitato di uomini (se così si possono definire…), del corpo della polizia penitenziaria, sparsi per le carceri, e senza rapporti tra loro, ma solo in relazione verticale col DAP. Tra gli uomini più fidati di Leopardi, che sarebbero coinvolti nella struttura, figura anche il direttore del carcere di Sulmona, Giacinto Siciliano, “il Sindaco”, come ama auto-proclamarsi, ritenendo evidentemente il carcere che dirige una sorta di feudo personale.
Giusto per fare un po’ di campagna elettorale a questo Sindaco, può forse essere utile sapere che è figlio d’arte: il padre è stato infatti direttore della famigerata “Villa Bobò”, uno dei due vecchi carceri leccesi. Insomma, se il Dna non è una semplice opinione, nelle sue vene scorre di certo sangue schifoso…
Ma torniamo al servizio di spionaggio. Questo avrebbe delle specifiche categorie di detenuti da tenere particolarmente sotto controllo, e cioè quelli ritenuti appartenenti a gruppi di criminalità organizzata, quelli in carcere con accuse di terrorismo internazionale, terrorismo interno e individui facenti riferimento all’anarchismo insurrezionalista. Si tratta, in pratica, di tutte le tipologie di detenuti che si trovano nel circuito E. I. V. (Elevato Indice di Vigilanza) delle carceri, oltre che in regime di 41 bis.
Ma concretamente, che cosa vuol dire un servizio del genere? Significa la legalizzazione di un sistema di schedatura di massa; una mappatura a tappeto di persone, rapporti e relazioni, anche del genere più intimo, di buona parte del corpo prigioniero, non solo di quello sottoposto a censura della corrispondenza – dal momento che, quindi, viene tutta “monitorata”. Significa una rete di controllo che si allarga sempre più, come la tela di un ragno, a chiunque venga anche solo marginalmente e sporadicamente in contatto con un detenuto, che vedrà quindi finire un faldone di cartaccia a suo nome sul tavolo del Ministero dell’Interno e conseguenti organi repressivi. Si punta, così, ad instaurare un servizio di repressione preventiva, attraverso la conoscenza profonda del soggetto che si andrà a colpire, intervenendo – magari – con i consueti sistemi di intimidazione, tipicamente “mafiosi” e quindi endogeni all’agire stesso di ogni istituzione statale, puntando, di conseguenza, ad ottenere la desolidarizzazione e l’isolamento dei prigionieri. E che si possa arrivare ad avere conoscenza profonda di chi mantiene contatti coi detenuti, posso testimoniarlo personalmente, in virtù della enorme mole di corrispondenza, in arrivo e partenza, che mi è “sparita” proprio quando ero detenuto nella sezione E. I. V. del carcere di Sulmona, corrispondenza anche indirizzata a parenti assolutamente distanti dai contesti e dai motivi che mi avevano condotto in prigione, per non parlare dei prigionieri che hanno visto sparire anche foto dei propri famigliari, o lettere che poi, magari, sono riapparse pubblicate su qualche quotidiano nazionale.
Una notizia del genere, forse, potrà ancora scandalizzare le anime pie della cosiddetta “società civile”, quelle che si appellano al “rispetto della privacy” e ritengono intollerabile un simile “abuso”, tipico – affermano – di uno Stato di polizia. Credono, costoro, che la democrazia totalitaria che vige nel loro Paese garantisca ampi spazi di libertà dentro cui muoversi, ma non si rendono conto che, agire dentro questi spazi di “libertà”, significa restare chiusi in un recinto predeterminato.
Lo Stato di polizia non è solo quello storicamente inteso, contrassegnato da check-point, militari e carri armati per le strade, ma anche quello dove il controllo diventa assoluto, grazie all’impiego di una grandissima gamma di mezzi tecnologici di uso e consumo quotidiano, e di un sapiente utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa.
La guardia che, nel chiuso del suo ufficio, apre furtivamente la corrispondenza del detenuto, e la legge con interesse morboso, è solo una piccolissima sfaccettatura del controllo democratico. Fregarsene, continuando ad esprimere affetto e solidarietà ai prigionieri, a dispetto di tutto, è veramente il minimo che si possa e si debba fare. ** **
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