Come pensare liberamente all’ombra di una chiesa?

Scritta murale del maggio francese

Negli ultimi mesi, l’amministrazione leccese si è prodigata in una martellante propaganda, ripresa dai media locali, per creare la solita domanda d’ordine e sicurezza in città, soprattutto nel centro storico che si vorrebbe consacrare ai negozi, ai turisti ed ai frequentatori non troppo molesti delle birrerie.

Microcriminalità, vandalismi contro l’arredo urbano e i monumenti, disagi per i residenti dovuti ai frequentatori notturni dei locali, sono le solite emergenze cavalcate.

Altrettanto scontate le soluzioni prospettate: telecamere collegate con Questura e Vigili Urbani per la sorveglianza delle strade, cancelli per chiudere l’accesso ad alcune corti del centro, ronde di vigilantes volontari, numero verde per aspiranti delatori, uno spot per il rispetto della città commissionato al campione di salentinità Edoardo Winspeare.

Un neonato "Comitato per la salvaguardia del centro storico e della movida leccese", che raggruppa, a quanto pare, "giovani frequentatori del centro", universitari ed alcuni gestori di birrerie, si è proposto come possibile interlocutore per studiare, insieme al sindaco, delle probabili soluzioni, dichiarandosi disponibile a creare momenti di sensibilizzazione e dialogo con i "fruitori del centro" e stimolare eventi culturali. Non ho capito bene se sarebbe anche favorevole alle telecamere e disponibile a dare corpo alle ronde di vigilanza.

Comunque, di quale cultura e dialogo si va parlando? Cosa è questa formula magica capace, in apparenza, di risolvere tutto?

Da parte mia, altri sono i miei desideri, altre le riflessioni che mi viene da fare.

Quasi tutti gli spazi urbani non rispondono ormai che a due esigenze: il profitto e il controllo sociale. Sono le loro regole a dettarne l’organizzazione. Cercare e proporre una serie di aggiustamenti significa intervenire comunque all’interno dell’organizzazione mercantile della vita, senza criticarla e metterla in discussione nel suo complesso, senza chiedersi a chi realmente giova, quali interessi serve, ma accettandola come dato di fatto ineludibile, magari da rendere "più umana o meno invasiva" e così creando l’illusione che vi possa essere convergenza fra gli interessi economici e di potere e quelli degli esclusi.

E’ in questo modo che chi ha il potere di decidere delle nostre vite, di ridurci al ruolo passivo di clienti e sudditi da amministrare, non viene percepito come nemico da combattere, ma semplice controparte con la quale trattare; ed il quadro generale non viene intaccato.

Tornando agli esclusi ed alle città, se i luoghi d’incontro scompaiono, se parchi e giardini lasciano il posto al cemento dei parcheggi, se strade e piazze diventano il prolungamento di negozi e birrerie oppure miseri e vuoti percorsi per raggiungere il luogo di lavoro, se le abitazioni si trasformano in tristi ed inaccessibili bunker, dove incontrarsi per discutere, dove sedersi senza l’obbligo di consumare?

Si può parlare di vero incontro fra individui nella realtà dello stare assieme coatto, degli spostamenti dettati dai tempi del lavoro e del tempo libero e dei desideri fabbricati in serie? Quale dialogo è possibile, quale comunicazione, quale interazione fra gli individui per discutere delle soluzioni a problemi comuni se le città sono progettate apposta per isolare le persone e contemporaneamente riunirle nella massificazione del consumo di merci, ruoli ed opinioni? E quindi, è credibile aspettarsi o chiedere una soluzione a sindaci, assessori, urbanisti ed operatori economici che sono i diretti responsabili di questa mostruosa realtà?

Un ambiente pensato economicamente e per il controllo sociale non può che imporre desideri economici e repressivi (o autorepressivi), non può essere gestito diversamente, per altri scopi, non può che soffocare ogni possibilità di libera e reale sperimentazione dei rapporti.

Penso allora che i desideri possano cambiare solo se cambia la vita che li fa nascere. Penso che gli spazi necessari alla nostra esistenza vadano strappati al potere e al profitto attraverso la rottura della normalità e dell’abitudine; attraverso un’urgente opera di demolizione del presente, dei suoi luoghi e dei suoi valori.

È nella rivolta sociale che si possono creare nuovi spazi di incontro, di comunicazione e dialogo reali, che si possono sperimentare nuovi e vecchi modi di stare assieme, di discutere, di decidere, organizzarsi, di fare festa.

 
 

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