Presentazione

Pensiamo che la questione della tecnica, il cui dominio pare oggi indiscusso, richieda quantomeno uno sforzo per capire cosa è successo, come si sia arrivati a questo punto e come si possa intervenire decisamente per invertire la rotta che porta al disastro.

La fase tecnologica del capitalismo ha raggiunto la piena “maturità”, arrivando a stendere il suo invischiante manto su tutte le attività dell’uomo; superati i confini della fabbrica e dei luoghi di lavoro in genere, all’uomo non si chiede più di farsi spossessare “solo” della sua forza lavoro ma anche dell’insieme delle sue manifestazioni vitali. Come questo sia avvenuto, come cioè si sia passati dall’introduzione delle macchine nel processo produttivo al sopravvento della tecnica sull’uomo, non è davvero difficile da spiegare, dato che l’obiettivo finale era già implicito sin dall’inizio: privare l’uomo di quelle capacità che potevano assicurargli un margine di autosufficienza e perciò renderlo restio a consegnarsi passivamente alla logica dello sfruttamento. Continuamente vediamo riprodursi lo stesso meccanismo che mira all’impoverimento delle competenze umane. La tecnica, divenuta sistema che agisce su l’intero ambiente della vita, può riuscire in quello che la coercizione al lavoro da sola non poteva: minare alla radice la dignità umana e l’aspirazione alla libertà. Dalla nascita in poi, fino alla morte, l’uomo è inseguito da “proposte” di sempre nuovi prodotti tecnologici, presentati come indispensabili per rimanere al passo con i tempi. Senza la radiolina elettronica controlla-bambino la mamma non è una buona mamma, senza il cellulare ultima generazione “somministrato” insieme al Ritalin quotidiano il ragazzino va “in rischio di devianza”, senza l’auto tecno-accessoriata il papà potrebbe diventare uno sterminatore di famiglia e senza il farmaco riadattante lo zio un pedofilo, senza i seni rifatti magari la ragazzina potrebbe trasformarsi in una pericolosa sociopatica e senza un organo predato a qualcuno quell’uomo o quella donna potrebbero morire… indisturbati. La fascinazione della tecnologia seduce approfittando di ogni poro, alletta con la sua scienza che promette scoperte mirate ad evitare qualunque residuo di fatica e ad assicurare quindi una facile esistenza, in cambio della disponibilità a farsi attaccare nell’ultimo baluardo di autonomia che ci rimane: il nostro corpo. Ci sono protesi tecniche pronte a sostituirci in ogni compito, bisturi che intervengono per adattare il nostro organismo al mercato, mappature genetiche per individuare ed eliminare gli “errori”, supporti informatici per incontri virtuali che proteggono dai vecchi contatti considerati ormai troppo impegnativi, il tutto partecipe di un movimento incalzante che ci porta a diventare estranei a noi stessi, incapaci di relazioni e dipendenti da tutto ciò che è stato inventato. Per il solo fatto di esistere ogni prodotto risulta assolutamente necessario. Eterodiretti fin dalle fasce perdiamo la possibilità di riconoscere i nostri desideri perché questi ci vengono “imboccati”, ancor prima di venire avvertiti, attraverso qualche merce concepita apposta per plasmare le nostre esigenze. Ma ciò che viene spacciato come “prodotto per il nostro bene” in realtà opera per deprivarci della capacità, non solo di valutare in proprio cosa ci serve, ma anche di mettere in pratica le nostre abilità.

Insomma l’apparato tecnologico sta chiudendo l’uomo in un bunker per assediarlo con i suoi prodotti, educarlo con lo spettacolo dell’informazione che gli detta gli “stili di vita” e rimodellarlo in base ai parametri socialmente richiesti fino a renderlo un automa che sostiene e approva il sistema che lo annienta. La macchina, prendendo “finalmente” il sopravvento, riduce tutto il resto, uomo compreso, a materia prima buona per essere inserita nell’ingranaggio che riproduce, in serie, vite programmate sui bisogni del mercato. Per portare a compimento l’opera occorre però ancora un elemento: la paura di avere qualcosa da perdere, per esempio quel microcosmo di tecnocomodità che qualche predone venuto da fuori potrebbe minacciare. Da fuori quelle mura che delimitano non solo un diverso spazio geografico e un diverso spazio di possibilità economiche, ma anche un diverso spazio di idee su come si intenderebbe vivere con gusto una vita che non fosse schiava del denaro. Quest’ultima trasformazione del mondo (come sempre a scopo di profitto) prodotta dall’organizzazione tecnologica del capitale ci mette pericolosamente a rischio; davvero ormai l’imperativo del “progresso” tecnico è diventato un tarlo che ci tormenta dall’alba al tramonto e la nostra esistenza è da troppo tempo sottoposta ad un continuo depauperamento che non consente di aspettare oltre per intervenire e fermare tutto. Le nostre vite sono tenute in ostaggio da un sistema di controllo che va dal condizionamento dei comportamenti all’osservazione diretta dei nostri spostamenti quotidiani e, quando è il caso, dove non arrivano le telecamere puntate da ogni angolo delle città su di noi, arriva la solerzia del bravo cittadino addestrato a collaborare.

L’attenzione sul pericolo di catastrofe che minaccia l’uomo nell’epoca della sopraffazione tecnologica è avvertita da più parti ma, nonostante l’angoscia per il rischio apocalittico imminente, non si va al di là di proposte fondate su confusi richiami etici, accorati appelli alla centralità dell’uomo o inviti a rivedere tutte le categorie del pensiero (ci riferiamo, per esempio, ad H. Jonas, L. Mamford o U. Galimberti). Invece di essere conseguenti rispetto a ciò che è così ben individuato e denunciato come «baratro» e quindi di assumere l’unica posizione possibile vale a dire il rigetto netto e totale della società che ha prodotto “la dittatura dell’irrazionalità”, queste analisi, non arrivando mai ad indicare nell’ordine mercantile l’origine del disastro, stanno predisponendo una base ideologica che si presta a rendere accettabile il definitivo asservimento della vita umana alla tecnica. Qualche correttivo sembrerebbe sufficiente a sviare l’attenzione, come un bel comitato etico che stili decaloghi su qualcosa a piacere tipo la fecondazione assistita, o un’etichettatura che “protegga” dagli OGM o ancora qualche fine parametro che valuti quanto deve essere morto uno perché gli si possa prendere quell’organo che serve ad un altro. La tecnologia industriale è la padrona mal contrastata di un mondo che ha come finalità il superamento dell’uomo, ma sembra avere ancora una cosa da chiedergli: il suo lasciapassare per vedersi definitivamente dimenticato.


Ma la tecnologia, come già il mercato, non è un destino dal quale non ci si può affrancare, non è come si vuol far credere un’entità astratta che regola dall’alto le nostre vite e che al massimo possiamo controllare nei suoi effetti più devastanti, bensì la risultante di una precisa volontà di sopraffazione del capitale che ha costruito sullo spossessamento delle abilità tecniche dell’uomo il suo potere. È importante riuscire a rimanere fuori dall’“incanto” della tecnica fattasi mito, non è per nulla doveroso inchinarsi al suo potere supremo. Ribellarsi all’imposizione del progresso inarrestabile è l’unica possibilità attuabile.

Per costruire un percorso critico che vada alla radice della questione, ci dia gli strumenti per continuare la faticosa lotta e ci aiuti ad individuare i punti di attacco, proponiamo qui una raccolta storica di interventi sulla tecnologia che, insieme a quelli sulla merce, riteniamo sia necessario conoscere, anche nelle diverse, in certi casi illusorie e forvianti, direzioni prese dall’elaborazione teorica. I contributi all’analisi inseriti in questa raccolta vanno considerati come parte dell’insieme costituito dagli altri testi sull’argomento riportati in catalogo, con particolare riferimento ai bollettini de Los Amigos de Ludd che, con lucida precisione, ci sembra colgano gli aspetti essenziali delle cause e delle conseguenze del dominio del sistema tecnoindustriale, di ciò che ci ha tolto e di ciò che ci sta infliggendo.

Nel primo testo della dispensa, il “Frammento sulle macchine” di Karl Marx, tratto dai Gundrisse der Kritik der politischen öconomie, viene posta la questione della trasformazione del lavoro operata con l’introduzione delle macchine nella produzione. La macchina non appare, una volta accolta e immessa dal capitale nel suo processo di valorizzazione, come il mezzo di lavoro dell’operaio, ma è invece l’operaio che si adatta e si regola, perdendo il suo saper fare, all’attività della macchina. Il lavoratore si inserisce ora nel processo produttivo come un anello che risulta utile al funzionamento generale del sistema e il suo lavoro perde ogni contenuto umano. Ma la fiducia di Marx, segnata da una positivista fede nel progresso, nel fatto che la meccanizzazione accelererà le condizioni oggettive per il superamento della fase storica del capitale conduce a un’analisi idealista delle macchine, viste come negative solo nel loro “uso capitalista”: «il macchinario non perderebbe il suo valore d’uso il giorno in cui cessasse di essere capitale».

Panzieri prosegue in questa direzione sostenendo che «mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente». Il progresso tecnologico è il modo di esistenza del capitale, è il suo sviluppo. L’autore porta a compimento l’idea che le macchine non siano cattive in sé ma solo per il loro utilizzo e proprietà e lancia la parola d’ordine del controllo operaio come “proposta politica generale e attuale”.

Marcuse elabora una critica che mette in discussione la concezione marxiana essenzialmente liberatoria della tecnologia moderna ponendo la domanda cruciale: come è potuto accadere che la tecnologia sia divenuta esclusivamente uno strumento dell’egemonia di una classe e non anche uno strumento di liberazione? Il capitalismo si è rafforzato e non indebolito attraverso il “velo tecnologico” che è stato steso sui rapporti di classe e sull’ideologia che il capitale promuove per la sua sopravvivenza. Questo perché la natura, separata dall’uomo, è trattata come materia prima da sfruttare nella logica del potere e del profitto ed ogni nuovo mezzo tecnico, nel momento in cui entra in questa realtà, assume un contenuto socialmente specifico relativo al soggetto storico che lo applica. «Per diventare veicolo di libertà, la scienza e la tecnica dovrebbero cambiare i loro attuali indirizzi e scopi; dovrebbero essere ricostruite in accordo con una nuova sensibilità – le esigenze degli istinti vitali» (Saggio sulla liberazione, 1969)

Nell’estratto di Cesarano e Collu, di non facile lettura, si ragiona sull’utensile visto come il segno dell’apparire dell’uomo come tale, diverso dall’animale, «modo di essere del corpo quale membro del sociale». Il punto è che questa protesi in una prima fase è la risposta strumentata della specie alle condizioni ambientali ma tende poi ad autonomizzarsi nella ricerca del dominio morto, della protesi, sull’uomo. Il corpo, sede sia della spinta adattiva alle condizioni ambientali che della resistenza all’autonomizzazione della protesi, deve infine rigettare il dominio della protesi divenuta autonoma che, nella fase attuale, è il modo d’essere del capitale.

Nel saggio di David F. Noble c’è una cruda descrizione dei degradanti cambiamenti imputabili a quella che definisce l’ideologia del progresso tecnologico che ha favorito lo sviluppo capitalistico in nome della prosperità materiale. Come accadde ad opera dei luddisti nella prima rivoluzione industriale anche questa seconda transizione è caratterizzata da tentativi di opporsi, dei quali Noble porta molti esempi, alla “violazione della moralità e dell’umanità”. In nome del progresso economico e tecnologico i nuovi sistemi tecnici aprono non solo alla prospettiva di trasformare gli uomini in robot, ma anche di sostituire gli uni agli altri e di eliminare completamente la necessità del saper fare dell’uomo. Secondo l’autore si potrebbe approfittare del fatto che la diffusione di tecnologie a tutto campo ha fatto sì che oggi, in diverse parti del mondo, ci si trova ad affrontare in misura crescente gli stessi problemi, ciò potrebbe fornire le condizioni per un collegamento tra situazioni affatto diverse in luoghi lontani. Inoltre, i sistemi estremamente complessi e precari da cui dipende il raggio di controllo del capitale sarebbero più vulnerabili alla resistenza e allo smembramento con un’azione diretta, anche se «questa finestra di vulnerabilità» non rimarrà aperta per sempre. Numerosi sono i suggerimenti.

Anders ha la capacità di trovare le parole più efficaci per descrivere i cambiamenti che, a causa del predominio della tecnica sull’uomo, hanno subito e continuano a subire gli individui singoli e l’umanità nel suo insieme. Da qualunque prospettiva venga osservato il fenomeno, la disperazione per la perdita di controllo sulla propria vita e sulle possibilità future per l’uomo è impossibile da nascondere se non annullandosi completamente nel meccanismo dell’automazione. Certo la visione di Anders è apocalittica, a tratti anche confusa, e non sembra dare molto respiro alle possibilità che ancora rimangono di fermare la corsa verso il nostro annientamento, ma ci sono almeno due considerazioni da fare. La prima è quella a cui si accennava sopra e cioè che Anders è in grado di farci sentire fino in fondo come ci siamo ridotti a vivere e di svelare il meccanismo di condizionamento che si nasconde dietro ogni profferta di beni e di tecniche; la seconda è che egli stesso non si è mai davvero arreso, lottando sempre sia attraverso l’azione che con i suoi scritti, all’idea che pure esprime nella presentazione alla raccolta di saggi del 1980. Lì sosteneva che: «questa fase [della tecnocrazia] anche se non dovesse portare, un giorno o l’altro, alla fine dei tempi (come tutto lascia pensare), neppure potrà essere seguita da una fase successiva, ma sarà e rimarrà per sempre un tempo finale». Non ci saranno quindi più rivoluzioni che potranno portare fuori da quello che definisce il quarto stadio della rivoluzione industriale: quello che ha trasformato l’uomo in materia prima e che ha messo l’umanità in condizione di produrre la propria distruzione.

Bologna, Marzo 2004

Alcune considerazioni finali

La questione fondamentale rispetto ai cambiamenti prodotti dall’avvento del totalitarismo della tecnica nella vita quotidiana è senza dubbio ciò che abbiamo perso. È quindi da qui che dobbiamo incominciare se vogliamo trovare la strada da seguire per contrapporci alla corrente che ci trascina verso la completa automazione e per riappropriarci del nostro mondo. La prima considerazione da fare è che, come tutta la critica riportata sopra sottolinea, il condizionamento più pericoloso che subiamo è condotto alla radice, mira cioè a renderci preventivamente passivi rispetto anche all’idea stessa di poter fare qualcosa per risollevare la condizione dell’uomo sottomesso alla legge del profitto e dell’efficienza. Il controllo, che sia subliminale o percepibile, agisce inibendo l’azione. La mera esistenza di una telecamera fa scartare l’ipotesi di intervenire in tutti quei luoghi dove si esercita il sopruso (che ovviamente sono ovunque come ovunque sono le telecamere). Il timore di vedersi rigettati tra gli scarti della società fa comportare secondo i dettami dell’adattamento. Per reagire occorre recuperare e mettere in campo tutte le capacità necessarie per inceppare la macchina del potere in ogni suo ingranaggio e ribaltare la situazione a vantaggio dell’uomo. Opporsi in tutti i modi possibili alla tecnologia significa aver sempre presente che, ovunque ci si trovi e qualunque cosa si stia facendo, si è sempre in lotta contro un sistema che minaccia continuamente e subdolamente. Non è una posizione facile da mantenere perché le chimere del progresso incantano, non sempre abbiamo chiaro a cosa stiamo rinunciando quando, per compiere un qualsiasi gesto, scegliamo un nuovo ritrovato tecnico al posto di vecchie modalità. Nel momento in cui scegliamo di comunicare con il cellulare invece che incontrarsi fisicamente mettiamo in moto una serie di conseguenze a cascata: lasciamo traccia pubblica di un fatto intimo, perdiamo il piacere di vederci, taciamo, per tante ragioni, molte delle cose che desidereremmo dire etc. D’altronde la necessità di fermare l’avanzamento tecnologico non deve confondersi con il desiderio illusorio di un ritorno al passato chiaramente impensabile. Piuttosto è possibile per ciascuno iniziare a ostacolare la tecnologia sin da subito con mille comportamenti e azioni diverse. Piccoli sabotaggi consentono di esprimere le proprie aspirazioni e nell’atto stesso ci si esercita al recupero delle abilità e dell’autonomia perdute. Questi gesti, presi isolatamente, sembrano insignificanti nell’attacco al dominio ma, accumulandosi, raggiungono significato e forza.

Lo sforzo individuale di resistenza e di attacco deve essere portato oltre fino ad investire il piano sociale e diventare una questione collettiva, ma perché questo avvenga occorre ritrovare una potenza di linguaggio che raggiunga anche chi non crede di poter veramente far qualcosa per contrastare il dominio sulla propria vita.

Si può partire da una qualunque delle manifestazioni di prepotenza prevaricatrice, segnando mano a mano la via verso la liberazione, per colpire e riappropriarci di ciò che ci è stato tolto.

La scelta di ritmi di vita che ci facciano recuperare il senso di uno scorrere del tempo che si muove insieme a noi e con il quale non essere necessariamente sempre in lotta, potrebbe essere realizzato rallentando i tempi sul posto di lavoro e nei luoghi delle altre attività rompendo quindi la scansione della giornata regolata sulle esigenze del mercato. Pensiamo per esempio all’ultimo tipo di sciopero dei tranvieri con corse rallentate o al rifiuto di correre ad alte velocità verso mete uguali ai posti di partenza o a tutte le modalità di ostacolo alle attività “produttive” che ciascuno conosce nei propri luoghi di lavoro e di svago coatti.

Il piacere di stare insieme in una vera relazione potrebbe essere cercato incontrandosi fuori dagli spazi comandati per incontri virtuali, sui gradini di una piazza o sulle panchine di un giardino, segate a metà per non risultare troppo comode, perché già questo è considerato un comportamento atipico. In allegra compagnia mandare poi in fibrillazione i computer e le antenne per relazioni cibernetiche.

Il concedersi una passeggiata tranquilla in città facendo scioperare le telecamere come è accaduto recentemente a Milano dove gli occhi elettronici sono stati opportunamente oscurati.

Il rifiuto del lavoro si può esprimere liberandoci dei bisogni fasulli, soddisfacendo gli altri come si crede meglio dedicando comunque meno energie possibile al lavoro a pagamento, e non consentendo ai caporali di agire indisturbati nelle loro squallide agenzie.

Il gusto per i buoni cibi lo si può riconquistare trattandoci bene nel mangiare, liberandoci dei surrogati, delle coltivazioni transgeniche e delle loro ricerche di laboratorio specializzate.

Intervenire contro la divulgazione di false verità rompendo gli schemi di Convegni per i soliti esperti e per i loro devoti intervenendo chiassosamente per scoprirli e metterli in ridicolo. Riprendere la pratica costante di scrivere il nostro pensiero sui muri delle città per aprire al senso ciò che parla solo di chiusura e difesa dal mondo.

Negare le separazioni tra uomini, tra uomini e loro attività e tra uomini e natura, animale o vegetale che sia, rompendo come si può le sbarre che delimitano le diverse forme di reclusione: carceri, lager per immigrati, fabbriche, uffici, centri commerciali, laboratori di ricerca, allevamenti criminali….

Le oppressioni che pesano su di noi sono così tante e così varie che non mancano purtroppo i luoghi e i temi sui quali dirigere il nostro attacco usando tutti quei modi che la fantasia di ciascuno riesce ancora a produrre nello sforzo di rivendicare comportamenti legati agli istinti vitali e di lottare contro ciò che vi si contrappone.

Bologna, Marzo 2004