Gratis Edizioni ::: NEMICI DEL POPOLO NEMICI DEL POPOLO

Una delle tante ridicole credenze degli sventurati è che le loro miserie debbano necessariamente suscitare simpatia.

Questa è davvero la più tenace delle loro convinzioni.

Non è mai troppo sbagliato dimostrare, nel loro stesso interesse, fino a che punto una simile convinzione sia grottesca. Se i diseredati fossero le vittime di una sorte implacabile e non potessero in alcun modo migliorare la loro posizione, senza dubbio si converrebbe di compiangerli e magari di trasformare in amore la pietà che ispirano. Ma non è affatto così. Gli sventurati non sono tali loro malgrado. Lo sono perché vogliono esserlo. Hanno posto volontariamente il collo sotto il giogo e preferiscono non levarlo. È dunque comprensibile che un certo numero di persone non provi nei loro riguardi alcuna compassione, o che addirittura provi rabbia e disgusto per tanta stupidità e tanto avvilimento.

Il "popolo" ha degli amici. Che se li tenga! In genere sono degni l’uno degli altri. Ma che abbia anche i suoi nemici, per quanto indegno di loro possa essere! Capisco che si possa essere amico di un povero animale, di un cavallo o di un asino condannato ai lavori più duri, senza difesa e senza parola. Non comprendo come si possa essere, ai giorni nostri, amici del popolo. L’abominevole e tirannica sottomissione popolare ha potuto avere, fino ad ora, degli alibi, delle giustificazioni: l’ignoranza o l’impossibilità materiale di una lotta. Oggi, il popolo è cosciente e sa dove trovare le armi adatte alla bisogna. Non ha più scuse.

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Che cos’è il popolo? È quella parte della specie umana che non è libera, potrebbe esserlo e non lo vuole; che vive oppressa, fra incomprensibili sofferenze; o che opprime, con stupido godimento. Ed è sempre rispettosa delle convenzioni sociali.

È la quasi totalità dei poveri e la quasi totalità dei ricchi. È il gregge delle pecore e il gregge dei pastori. È la maggioranza delle Mani Callose e dei Denti Compiaciuti, degli Occhi Stanchi e dei Culi Rifatti. Agnelli, Berlusconi, il piccolo servo Trentin, l’immortale Andreotti, Umberto Eco, Vittorio Sgarbi, il cardinale Carlo Maria Martini, Pippo Baudo, Occhetto, i tre moschettieri Di Pietro-Colombo-Casson, Michele Santoro: fanno tutti parte del popolo, proprio come tutti i lavoratori e i disoccupati che chiedono salari e diritti.

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Al di là del popolo ci sono gli individui, i fuori-popolo. È inutile fare nomi. Sono le persone che hanno nutrito odio per ciò che esisteva ai loro tempi e che hanno concretizzato questo odio secondo le personali attitudini e le proprie possibilità. Sono tutti quelli che odiano ciò che attualmente esiste, che rifiutano il cosiddetto contratto sociale e rifiutano di accordare la loro simpatia sia ai vigliacchi che l’accettano sia agli ipocriti che lo discutono. I fuori-popolo sono persone consapevoli che non esistono più vittime; che le sedicenti vittime della menzogna sociale sanno benissimo a cosa aggrapparsi di questa menzogna sociale e la accettano come verità solo per codardia o per interesse.

Fino ad ora, gli amici del popolo non hanno fatto che falsare i sentimenti più autentici, avendo per lo più esercitato o subìto il potere. Gli istinti sono stati talmente soffocati che l’Odio viene considerato come un vizio orribile, una passione inconfessabile che disonora l’infima minoranza che ancora tormenta. In effetti esso esiste raramente e si osa a malapena lasciarlo indovinare. C’è da credere che senza i grandi individui del furore che riaccesero la scintilla nei cuori degli esseri lanciandoli con o senza ragione gli uni contro gli altri, la facoltà di odiare avrebbe cessato d’essere una possibilità umana. Gli Spartaco, gli Attila, i Ravachol, i Bonnot meritano la nostra eterna gratitudine. Grazie a loro l’individuo non è ancora caduto al rango di pecora. Può ancora odiare. Può ancora essere scosso dalla più grande e dalla più generosa delle passioni.

Dal momento in cui un essere impara a odiare, cessa di appartenere al popolo. Il popolo non può odiare; non c’è odio fra i ricchi e i poveri che lo compongono, solo un certo grado di invidia. I ricchi confessano perfino di invidiare la fortuna dei poveri, lo riconoscono. Il popolo non può odiare neanche gli individui. Non può farlo. Li adora tremando; o li scomunica con un sospiro.

L’odio dell’individuo per il popolo dovrà essere intenso e costante. Prima o poi ciò accadrà, questo odio troverà formidabili mezzi di espressione. Ma per il momento è abbastanza difficile per un fuori-popolo odiare costantemente il belante gregge. Così come è altrettanto difficile per un amico del popolo conservare a tutte le temperature una uguale umidità delle palpebre. L’anarchico buono può digrignare i denti, di tanto in tanto; ed il rivoluzionario autoritario potrebbe avere una lacrimona negli occhi, non ne sarei sorpreso. Questione di ambiente, di momento, chi lo sa? Quando si ghigliottinerà il Papa, sarà l’anarchico buono a domandare che gli si lasci il tempo di dire la preghiera, e sarà forse il rivoluzionario autoritario a tirare la cordicella come risposta.

Comunque la distinzione tra amici e nemici del popolo non si limita ad indicare una differenza di temperamenti: separa due idee generali. La considerazione delle idee generali serve per evitare perdite di tempo. Ognuna delle due idee generali indica una strada diversa da seguire verso uno scopo che è — ne convengo — instabile e abbastanza vago e che si può richiamare alla felicità; ma che ritengo sia sufficiente denominare altro.

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La via preconizzata dall’anarchico buono, la conosciamo. È la Sacra Via dei fallimenti. I segnali indicatori sono scientifici a sinistra e religiosi a destra. Del resto, non ci si può sbagliare: le lapidi, ornate coi nomi dei Riformatori, indicano la via. Solitamente si muore in cammino, ma se si raggiunge lo scopo, si può assurgere fino al cielo delle felicità ideali. Non farò all’anarchico buono l’offesa di dire che è in buona fede. Me ne frego di lui da tempo e non lo rimpiango affatto. Non che manchi di stima per lui; bisognerebbe essere pazzi per disconoscere la rettitudine del suo carattere. Ma le sue tendenze romantiche, a mio avviso, sono nefaste; bisogna impedirgli di fare scuola. Un anarchico buono, va bene; un partito di anarchici buoni, no. L’anarchico buono, prima di ogni altra cosa, è un confidente. Ha fiducia in ogni possibilità, è tollerante e si ferma davanti al «libero corso delle nostre istituzioni», proprio così. Difende la Democrazia dalle coalizioni clerico-autoritaria. La difende — come fanno altri amici del popolo, meno disinteressati di lui — in nome dei Princìpi, convinto di rendere in tal guisa un servizio al popolo, di cui è l’amico fedele. Ed è ancora per servirlo che si arruola nella marmaglia pacifista.

L’anarchico buono ci informa che il pacifismo può essere utile; anche i preti ce lo fanno sapere. Ci insegna, inoltre, che il pacifismo ha sempre lottato contro il potere e che ha canalizzato i propri sforzi verso questo mirabile obiettivo: la liberazione dell’umanità. Mi dispiace dire all’anarchico buono che si sbaglia. Si sbaglia in buona e numerosa compagnia — questo è vero — insieme a tutti i sinceri democratici; ma si sbaglia.

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La soppressione del capitalismo e dello Stato, è la sola possibilità che abbiamo per cambiare le cose. Sarebbe bello credere nelle favole e pensare che i potenti abbandoneranno volontariamente i propri privilegi senza scagliarci contro i loro scagnozzi. Ma poiché invece reagiranno con forza, dovremo pur combatterli in qualche modo. Quale?

Invito l’anarchico buono a consultare il suo Venerabile, dal quale senza dubbio potrà ottenere qualche informazione in merito. Del resto, i "documenti storici" non sono introvabili. Scoprirà cose che lo stupiranno. Perderà probabilmente un po’ della sua fede nei Princìpi, un po’ della sua illimitata fiducia. Ma ho già detto che oggi non esistono più vittime.

È soprattutto questo che vogliono i nemici del popolo: non essere vittime. E neanche fingere di esserlo.

Non sono amici del popolo perché ritengono che il popolo, che non si ama da sé, non sia affatto amabile. Pensano che il popolo sia solo un gregge e lo pensano perché constatano che il popolo è un gregge. In spregio ai cataplasmi umani che modellano con la loro accomodante commiserazione i vecchi ascessi sociali, i nemici del popolo vogliono ben altro, cercano l’autentico, l’immediato. Pensano che molti mezzi siano buoni — anche fra quelli che agli amici del popolo appaiono atroci — e che il criterio della loro scelta non dipenda dal popolo, non rappresentando affatto il loro referente.

Sostengono che esiste un solo crimine: l’inazione. Non cercano di conformare i propri gesti ad un Ideale, che non solo è pregiudiziale, ma putrefatto fin dalla preconcezione. Lasciano che l’ideale si sprigioni da sé, dai fatti e dalle azioni. La via che preconizza il fuori-popolo, la conosciamo molto poco. Ragione di più per esserne interessati.

Siamo certi che non incontreremo ad ogni passo i fetenti residui del Passato, come accade sul percorso del rivoluzionario autoritario: la Bastiglia, il Palazzo d’Inverno, etc. Non sappiamo bene dove andremo e lo confessiamo con piacere; ma sappiamo come ci andremo. Andremo come cazzo vorremo! Non ci interessa il compito di liberare l’Umanità. Vogliamo soddisfare il nostro bisogno di libertà, adesso, subito. Il fuori-popolo è pieno di illogicità. Speriamo che non se ne liberi. La fantasia è sovente più necessaria dei Princìpi.

Ma l’individuo che rifiuta tutte le dottrine ritenute sacre dal popolo e dai suoi amici, non deve condannarsi al semplice ruolo di "protesta vivente"; non vi troverebbe che un piacere insufficiente. Dopo tutto, proverà gioie maggiori a distruggere gli idoli che non divertendosi con le controversie dei loro fedeli. Del resto, più le superstizioni delle masse diminuiranno di virulenza, più grande sarà la libertà d’azione lasciata all’individuo. Il quale ha dunque interesse a far precipitare, per egoismo, la lotta fra le due parti che compongono il popolo: gli esseri che non hanno niente e rispettano la proprietà; gli esseri che hanno tutto e rispettano la miseria. Gli è necessario, di conseguenza, rendere la propria posizione più solida possibile, sia per l’attacco sia per la difesa.

Caratteristica delle pecore del popolo, o dei suoi amici, è la loro ostinazione a porre al di fuori di sé, in formule vuote e astratte, le proprie speranze e le cause delle loro tristi energie.

La caratteristica del fuori-popolo, viceversa, deve essere la sua ferma risoluzione di porre in se stesso i propri moventi e i propri desideri.

Essendo l’uomo un animale terrestre — cosa trascurata dal popolo e dai suoi amici, che sono cittadini delle nuvole — l’individuo deve restare in stretto rapporto con la sua normale base, la Terra. Deve opporsi a questa mostruosità: la scalata al Cielo. Proprio perché l’individuo è radicato nel fango deve fare tutto il possibile per mettere fine all’abominio idealistico che è l’aspirazione al Paradiso. La marcia dell’individuo, lungi dall’essere una nuova marcia verso le stelle, sarà il percorso sempre più libero su una terra sempre più libera.

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Queste ultime considerazioni, che ammettono una progressione, non devono affatto farmi scambiare per un evoluzionista. Credo alle rivoluzioni che producano non leggi (sterili) ma metodi (fecondi). È necessario contrastare l’opinione determinista e fatalista secondo cui una rivoluzione umana è un «fatto scientifico» e «nessuno può farci niente». Una rivoluzione scaturisce anche da un atto di volontà.

L’anarchico buono, naturalmente, crede che una rivoluzione sia sempre la «conseguenza ineluttabile di bla bla». Quella che si prepara, secondo lui, sarà «il risultato dell’evoluzione di un secolo formidabilmente industriale». Lo sviluppo industriale e scientifico, è vero, potrà offrire potenti mezzi d’azione alla rivoluzione. Ma non conduce per questo a una rivoluzione, al contrario. La sua azione, se non ostacolata e impedita, condurrà al dominio di una classe di "tecnici" privilegiati. Una parte sola del lavoro umano — la meno necessaria — è ora remunerata; la tendenza s’accentua. Contemporaneamente cresce il dogma mostruoso della bellezza, della santità del Lavoro. Una grande parte della specie umana è rigettata nel nulla sociale. Fra questa saranno i fuori-popolo, coscienti o incoscienti, a spingere la rivoluzione, a costringere il popolo a tagliarsi la gola — infine! E se questa rivoluzione sarà «il risultato dell’evoluzione etc», bisogna considerare che questo risultato sarà assai indiretto.

In ogni caso, non sarà di certo "una vittoria proletaria". Questa non è possibile. Il Popolo, ricco o povero, il popolo produttore di bambini, il popolo che si perpetua in piccoli milionari e in piccoli morti di fame — questo Proletariato dell’Autorità e dell’Obbedienza — ha già avuto la sua vittoria. Ha avuto la vittoria in cui poteva sperare. Ne gode. Ne abusa. Non ha che la sconfitta da attendere. Ed è bene che sappia che gli viene augurata — questa sconfitta — dagli individui che non nutrono per lui che odio e che gli rifiutano una simpatia che considerano complicità.



Gratis
si occuperà anche dei fuori-popolo, di queste donne e uomini della collera e del furore, di questi nemici del popolo e delle convenzioni sociali. Ma non ne farà una cieca esaltazione.

Non forgeremo nuovi idoli davanti a cui inginocchiarsi. Ciò che vogliamo è soffiare sul fuoco, incitare all’odio sociale, fomentare la rivolta. Come sempre, per sempre.


***Piccolo dizionario tascabile*
pecora**

s.f. 1. Nome italiano dei Mammiferi appartenenti al genere omonimo, part. riferito alle razze domestiche, allevate principalmente per lo sfruttamento della pellaccia, della forza lavoro, etc.; fra queste razze domestiche, le più rinomate sono le pecore operaie, originarie dei paesi industriali, e le pecore da riproduzione, i cui agnelli migliori vengono utilizzati per rinnovare il gregge dirigente. 2. fig. Simbolo o termine di paragone della mansuetudine o anche, più spesso, di viltà, codardia, soggezione o passività, che si manifesta attraverso la partecipazione volontaria al proprio sfruttamento.

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*Severino Di Giovanni - Il pensiero e l'azione***

pp. 136 - Euro 5,70

Questo libro nasce dal desiderio di approfondire la conoscenza di un anarchico del quale sappiamo solo ciò che un giornalista ci ha dato di sapere. Stiamo parlando di Severino Di Giovanni (1901-1931), sulla cui vita le informazioni che finora possediamo provengono dal libro di Osvaldo Bayer ("Severino Di Giovanni - l’idealista della violenza*"), edito vent’anni or sono dall’Edizione Collana Vallera.
Anarchico abruzzese, emigrato in Argentina, Severino Di Giovanni nel corso degli anni ’20 portò avanti una intensa attività rivoluzionaria, sia sul piano teorico — con la pubblicazione del periodico "Culmine" e di alcuni libri — sia sul piano dell’azione, con una lunga serie di attacchi contro strutture del potere e contro la proprietà. Morì fucilato. Questa, molto sinteticamente, la sua vita su cui si è dilungato Bayer che, malgrado la simpatia che mostra di provare per Di Giovanni, non può evitare di buttare acqua sul fuoco, di delegittimarne l’azione rivoluzionaria, riducendo ciò che ha sempre mosso Di Giovanni a una mera questione di fanatismo ideologico, di idealismo.
Il rivoluzionario ha vissuto, ha agito, è morto per i suoi sogni. Il giornalista invece lo ha esaminato, ci ha scritto sopra un bel libro, e la sua "ricostruzione dei fatti" ha preso il posto della realtà. Bayer indaga unicamente* alcuni aspetti dell’intera vita di Di Giovanni, per la precisione — seguendo una precisa regola giornalistica — quelli più "sensazio-nalistici", gli attentati e la passione di Di Giovanni per la sorella minorenne di due suoi compagni di lotta, trascurando per lo più tutto il resto. A prescindere dalle testimonianze dirette da lui raccolte, su cui naturalmente non siamo in grado di dir nulla, Bayer cita soprattutto le cronache dell’epoca, i rapporti di polizia e la corrispondenza di Di Giovanni, limitandosi a fare qualche breve accenno al suo giornale "Culmine*". Non ha interesse a pubblicarne gli articoli così da comprenderne meglio il pensiero. La dimostrazione della sua pochezza emerge quando decide di non limitarsi a riportare con distacco i dati raccolti, quando cioè azzarda un commento, un giudizio, un abbozzo di analisi, che non va più in là della facile morale spicciola, riprendendo le banali frasi fatte di tutte le oneste e brave persone di questo mondo.
Di tutta la vita di Severino Di Giovanni, Bayer non riesce a vederne il cuore, la dimensione in cui è immerso dall’inizio fino alla fine: l’utopia, il sogno dell’impossibile, l’anarchia. Per lui, Severino Di Giovanni era solo un idealista, un romantico, un uomo violento che esercitava una cattiva influenza sui più giovani… esattamente le accuse mossegli, per ovvi motivi, dalla polizia e dai più beceri moralisti.
Dall’insieme della sua attività, appare chiaro come in realtà per Di Giovanni la violenza non fosse che uno degli strumenti da usare assieme agli altri. Prendeva la parola nelle varie manifestazioni, partecipava alle assemblee, distribuiva volantini, teneva aperta una libreria, pubblicava un giornale; oltre a tutto ciò, compiva degli attacchi dinamitardi e delle rapine di autofinanziamento.
Ecco cosa si legge al riguardo nell’articolo "Lotta nostra" apparso sul n. 7/8 di "Anarchia": «La stessa bellezza è nella molteplicità delle attività. A mio giudizio, l’individuo che ha per meta e per ideale la lotta, vive rigogliosamente. Oggi egli fonda un periodico, domani fa un libro, poi un articolo. Necessita mezzi per l’effettuazione di questi progetti, ed espropria chi possiede soverchia-mente ed ingiustamente. Ecco l’individuo sul piede di lotta. Bandito illegale contro banditi legali».
Anche se inevitabilmente fu soprattutto un uomo d’azione, questo non significa che Di Giovanni fosse privo di teoria, o che ne sottovalutasse l’importanza. Pubblicò trentatré numeri del suo giornale e diversi libri (di: Pisacane, G. Asturi, Armand, Schicchi, Reclus), ne aveva in preparazione moltissimi altri (uno suo, ben dodici di Sebastian Faure, e poi ancora di Bakunin, Ryner, Nieuwenhuis, Pisacane, Proudhon, Goldman, Thoreau, Armand ed altri ancora) e contribuì insieme ad Aldo Aguzzi alla pubblicazione di un quindicinale, "Anarchia", dove non firmava più gli articoli oppure utilizzava degli pseudonimi sconosciuti, costretto dalla propria situazione di latitante.
La maggior parte dei suoi articoli richiamavano all’agitazione, scritti sull’onda dell’entusiasmo, nella foga della passione, e ciò era anche dovuto al suo carattere, ma non tralasciava di scriverne altri che richiedevano una maggiore riflessione.
Del resto, se è vero che nei suoi scritti Di Giovanni innalza l’individuo che si ribella, non lo fa mai a scapito dell’insurrezione sociale, anzi considera la rivolta del singolo uno sprone, un incitamento all’insurrezione generalizzata, un atto di dignità individuale che non si pone mai in modo altezzoso e distaccato rispetto alla situazione generale degli sfruttati. Il fine ultimo è sempre la rivoluzione sociale degli oppressi.
Se "Culmine" è così pieno di appelli all’azione, ciò si spiega inoltre facilmente con l’esame della situazione sociale di quel perio-do (la campagna internazionale in favore di Sacco e Vanzetti, il fascismo in Italia e altrove, le tensioni reazionarie presenti in Argentina che sfoceranno nel colpo di Stato del 6 settembre 1930), nonché con l’ovvia constatazione che il potere non si dissolverà da sé. Di fatto "Culmine" darà ampio spazio a tutte le correnti dell’anarchismo, senza preclusioni, ma anche senza opportunismi di sorta. Gli argomenti trattati erano i più svariati, dalle analisi sulla situazione argentina e mondiale alle notizie sui detenuti politici, dalle critiche al fascismo e all’antifascismo liberale alla denuncia dello stalinismo (una rubrica di "Culmine" si intitolava "Dall’inferno bolscevico"), dai saggi di carattere storico ai numerosi articoli sul libero amore, quasi tutti di Emile Armand. Che poi il tutto convergesse nell’affermazione della necessità dell’azione, la cosa può turbare soltanto chi ritiene che un giornale anarchico debba limitarsi ad esercitare il diritto alla parola, facendo cioè dell’opinione, e non spingere e preparare all’insurrezione.
Questo libro inizia con la riproduzione del numero della "Adunata dei Refrattari" edito il 28 marzo 1931, interamente dedicato alla morte di Severino Di Giovanni e di Paulino Scarfò: un numero commemorativo che abbiamo voluto includere, sia perché è una buona fonte di informazioni sulla sua vita, sia perché — a quanto ci risulta — è il solo materiale sulla vicenda che sia opera di anarchici.
Del silenzio in cui è stato annegato Di Giovanni, all’interno del movimento anarchico, sono in buona parte responsabili coloro che — con solerte spirito pedagogico — hanno deciso di confidare nell’infallibilità della propaganda culturale le speranze per la realizzazione dell’anarchia, convinti come ogni prete che si rispetti che la fede trionferà per grazia divina. Di anarchici come Di Giovanni è meglio, assai meglio, non parlarne. È preferibile affidarne la conoscenza all’oblio: più facile, più comodo, più conveniente. E se proprio qualcuno decide di occuparsene, che a farlo sia almeno un giornalista, qualche bravo pompiere che usa l’inchiostro come acqua per spegnere il fuoco della rivolta.
Per parte nostra, non siamo minimamente interessati a costruire — o a consolidare acriticamente — il mito di Severino Di Giovanni, la sua leggenda, così come non siamo neanche disposti a dimenticarlo, lui come tanti altri rivoluzionari anarchici, la cui squisita coerenza di vita e l'instancabile attività sono ancora oggi fonti a cui attingere a piene mani. Ecco perché ci interessa conoscerlo per meglio comprenderlo all’interno della sua reale dimensione rivoluzionaria di vita.
Così abbiamo cercato e raccolto qui alcuni suoi scritti apparsi su "Culmine", firmati col suo nome o con i suoi diversi pseudonimi, o a lui attribuibili, come è il caso di quasi tutti gli editoriali del giornale "Culmine", a cui abbiamo aggiunto quello del primo numero del quindicinale "Anarchia". Di quest’ultimo giornale pubblichiamo anche un articolo firmato da Josefina America Scarfò: giacché lo stile e il contenuto sono tipici di Di Giovanni, come in altri scritti apparsi su "Anarchia".
Ai lettori ora il piacere o anche il dispiacere di tuffarvisi, magari sbuffando per le reiterate esaltazioni del "maschio sacrificio", sicuramente facendosi trascinare dall’ardore e dalla lucida passione di cui sono impregnati, soprattutto quando vengono affrontati argomenti di immutato interesse, come la solidarietà rivoluzionaria — tangibile nell’azione e non nello sdegno — o anche le diverse proposte insurrezionali avanzate. Sta a noi interpretare il pensiero e l’azione rivoluzionaria di Severino Di Giovanni, fuori dall’oblio, dalla leggenda mistificatoria, dal mito riduttivo, dall’agiografia*

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**Albert Libertad, *La libertà e altri scritti
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pp. 72 - Euro 2,60

Albert Joseph detto Libertad (1875-1908), una delle figure più mal conosciute dell’anarchismo francese, appare ad alcuni un individualista da folclore, amante delle azioni spettacolari quanto inutili, privo di una solida teoria. In realtà, leggendo i suoi scritti, eseguiti con naturale immediatezza, ci si rende conto di quanto infondata sia una simile considerazione, di quanto profonde fossero le sue idee rapportate ai luoghi comuni diffusi nell’ambiente anarchico dell’epoca. Le analisi di Libertad colpiscono per la loro originalità, nonché per l’attualità, se si eccettua l’eccessiva fede nel progresso della Scienza e nella Ragione, frutto del posi-tivismo degli inizi del secolo, che ormai da tempo ha dimostrato la sua scelleratezza.
In tempi come i nostri, improntati alla specializzazione, riecheggiano alcune riflessioni di Libertad: «L’Ordine sociale non forma che un blocco. Un blocco della stessa fusione… non è possibile assestare una picconata ad un determinato filone senza intaccarne un altro».
O ancora, le sue considerazioni sulle varie alleanze: «Non voglio associarmi che per affinità sforzandomi di mantenere il più possibile la mia autonomia… Stiamo attenti a non fabbricare noi stessi i gradini per dare la scalata al potere»; sul sindacalismo: «i sindacati disciplineranno, molto più di quanto sia mai avvenuto, gli eserciti del Lavoro e diventeranno, nel bene e nel male, i migliori guardiani del Capitale»; sulla ricerca assillante di garanzie prima di agire: «Chi contempla la meta fin dai primi passi, chi ha bisogno della certezza di raggiungerla prima di cominciare non ci arriverà mai… la gioia del risultato è già nella gioia dello sforzo»; sui pericoli del recupero: «spesso le teorie più audaci sono diventate — con qualche accomodamento — le teorie più rispettose della proprietà e dell’
ordine*».
Ma naturalmente è l*’individuo il soggetto preferito da Libertad, il quale dimostra di avere idee estremamente chiare in proposito. Acerrimo nemico dell’individualismo liberale, descrive la sua concezione della libertà*: «Per andare verso la libertà, bisogna che sviluppiamo la nostra individualità. — Quando dico: andare verso la libertà, voglio dire: andare verso il più completo sviluppo del nostro essere individui». Libertad, anarchico e non libertario — per sua stessa ammissione — non «confonde l’ombra con la preda», è perfettamente conscio che la libertà non è una questione di fede né di diritto: «Ci disponiamo sempre a ricevere la libertà da uno Stato, da un Redentore, da una Rivoluzione, non ci applichiamo mai perché si sviluppi in ogni individuo».
La propria «gioia di vivere» Libertad non l’ha soltanto espressa in un suo articolo, ma è emersa prepotentemente in ogni atto della sua breve esistenza, spesso andando a cozzare contro il moralismo di un’epoca.
Libertad ha avuto il pregio di esser riuscito ad apportare un'intonazione diversa nel movimento anarchico di inizio secolo, quando ancora questo si limitava a scagliare i propri dardi più che altro contro le strutture e le cause riconosciute dell’oppressione, non scorgendo come la responsabilità dei soprusi sociali risieda per buona parte nell’acquie-scenza degli sfruttati.
La breve sintesi che fa dell’anarchismo così come lo concepisce supera d’un balzo tutte le barriere erette dagli stessi anarchici, dovute ad alcune personalissime ed esasperate interpretazioni: «la corrente comunista e la corrente individualista fuse infine l’una nell’altra e che trovano il proprio logico sbocco nell’anarchismo».
La politica è morta — questa è anche una speranza. I grandi sistemi, quelli che spiegano, giustificano, regolano, dispongono, sono finiti nella polvere della storia. Forse è proprio per questo che l’anarchismo di Libertad, un anarchismo viscerale che proviene dalle profondità dell’individuo e non da una ragionevole adesione ideologica, mantiene ancora oggi intatto il proprio valore e il proprio incanto.*