AL DI LA’ DEL MURO
Da quasi quindici anni anche Lecce ha il suo supercarcere, è il bunker di Borgo S.Nicola. Di certo questo nome non suonerà nuovo agli abitanti della zona, visto che gli sciacalli della stampa non fanno che ripeterlo ad ogni arresto. Ciò di cui invece non si parla praticamente mai è cosa realmente accada all’interno di quel groviglio di sbarre e cemento armato. Costruito non a caso ben lontano dal centro abitato, questo carcere è avvolto da una cortina di silenzio, una ulteriore barriera divisoria creata per impedire la fuoriuscita di qualunque informazione circa le condizioni in cui vive, e a volte muore, chi è sequestrato qui dentro. Fare del carcere un mondo a parte è una strategia del potere che risponde alla basilare necessità di nascondere agli occhi del buon cittadino la cruda realtà di un’istituzione totale. In questi luoghi le chiacchiere sui diritti lasciano democraticamente il campo al sistematico tentativo di annientare la personalità dell’individuo, qui il potere getta la maschera, fa emergere in tutta la loro evidenza le innumerevoli contraddizioni che se solo approfondite tradiscono la farsa, l’inganno, svelano in tutta la sua brutale arroganza il vero volto della democrazia. Dentro questa mostruosa architettura sono rinchiuse circa 1250 persone, quando la capienza regolamentare ne prevede un massimo di 550; ogni cella -10mq circa compreso il bagno- anche se progettata per una sola persona, è spesso utilizzata per rinchiuderne tre. Quando si è costretti a dividere uno spazio talmente ristretto in tre, per quanto ci si sforzi a tenere giustamente conto delle esigenze di ciascuno, fare qualunque cosa diventa difficile, anche semplicemente muoversi senza pestarsi i piedi. Il passeggio lo si fa nelle ore più calde della giornata in gabbioni chiusi su tutti i lati -sopra c’è una rete metallica- e quasi completamente privi di una copertura che protegga dal sole o dalla pioggia. Le ore disponibili dovrebbero essere quattro, ma facilmente diventano tre, senza contare che qualunque cosa il detenuto voglia fare (visita medica, messa, colloqui vari, barbiere, doccia…) è costretto a rinunciare all’aria e ad aspettare in cella, salvo poi non essere neppure chiamato. Le docce sono due, con più fortuna tre, per ogni sezione -oltre 70 persone- e si fanno nei giorni stabiliti solo durante le ore del passeggio e sempre ammesso che ci sia l’acqua. Da anni infatti, per tutta l’estate, i carcerieri ne sospendono l’erogazione per almeno quattro ore al giorno. In realtà quasi sempre le ore diventano 7 o anche 8 e senza nessun preavviso. La scusa con la quale giustificano questo e tanti altri abusi è quella solita del sovraffollamento, come se fossimo noi a voler affollare le loro sporche galere. Non esiste nessuna forma di socialità ed è negato l’accesso a tutte le strutture ricreative di cui questo carcere, che è relativamente giovane, dispone: campi da calcio, da tennis, palestra, l’area verde per i colloqui esterni restano da sempre completamente inutilizzati; il vitto dell’amministrazione è scarso e quasi sempre di pessima qualità, quello vegetariano non esiste; la maggior parte dei detenuti, se se lo può permettere, si campa di tasca propria acquistando quello che può dalla spesa interna che, in regime di monopolio, applica ovviamente prezzi da estorsione. Dal punto di vista medico la situazione generale è assolutamente disastrosa: le visite si effettuano solo nei giorni pari, sempre ammesso che il medico ci sia e abbia voglia di chiamarti, quindi è vivamente consigliato non sentirsi male in quelli dispari; i farmaci non ci sono quasi mai perciò il costo di eventuali terapie ricade interamente sul detenuto, che è comunque costretto ad aspettare interminabili lungaggini burocratiche. Quello che invece non manca mai in luoghi del genere è la variegata gamma di psicofarmaci, sedativi e tranquillanti, che i carcerieri sono sempre pronti a dispensare a piene mani. Sono tante qui dentro le persone che da anni si trascinano sulle spalle il peso e la sofferenza della malattia e che ad ogni richiesta di trasferimento in un centro clinico, non fanno che ricevere un rigetto dopo l’altro, perché il dirigente sanitario di questo carcere dichiara di poterli curare. In realtà questo sporco carceriere dal camice bianco è una specie di figura astratta, ne senti parlare ma non lo vedi mai, conosco gente che da due anni continua a fare domandine e che non è stata ancora mai chiamata. Ci si ritrova completamente abbandonati a se stessi, ad assistere impotenti all’inesorabile aggravarsi del proprio stato di salute, sino a quando la situazione non degenera in emergenza. E’ quello che è accaduto nel luglio scorso. Un uomo, da tempo affetto da più patologie, si sente male, si accascia sulla branda e non riesce a parlare, ha come delle convulsioni respiratorie, una faccia da far paura. Immediatamente i suoi compagni di cella chiamano la guardia perché apra la cella, ma la risposta è che si trovano in alta sorveglianza e per ragioni di sicurezza devono aspettare l’arrivo dei soccorsi. Nella sezione molti detenuti iniziano a battere le sbarre e a urlare come dannati, ma solo dopo 40 minuti d’ininterrotto putiferio finalmente si decidono ad aprire. Fuori la cella non c’è nessuna barella su cui caricarlo, quindi alcuni lo prendono in braccio e lo portano per due piani giù in infermeria. Li fanno quasi subito risalire in cella, accusandoli di aver minacciato guardie e infermieri, non resta loro che aspettare. Quando lo riportano su è in evidente stato confusionale, si sdraia e piomba in un sonno comatoso dormendo per 20 ore di fila, l’hanno imbottito di valium. Questa volta fortunatamente è finita bene, altre volte no. Ogni uomo e ogni donna che muore in carcere è un omicidio di Stato.
Borgo S.Nicola non è un’eccezione, ma è la norma. Che siano più o meno dure le condizioni di detenzione, qualunque carcere è costruito con un solo scopo: addomesticare, rendere gli individui docili e quindi utili al mantenimento della pace sociale, quella pace imposta tra sfruttati e sfruttatori che tutela solo gli interessi di questi ultimi.
Non è la pietà che serve, né alcuna riforma che renda apparentemente meno odiosa l’ignobile pratica di rinchiudere un essere umano. Quello che occorre è una critica complessiva del dominio che porti al rifiuto radicale sia dell’istituzione carcere in sé che di quell’immenso carcere che è il mondo in cui viviamo. Allora si, con tutta la rabbia che abbiamo in corpo, potremo urlare FUOCO A TUTTE LE GALERE.
Dal racconto di un prigioniero
Il 31 dicembre 2005 si è suicidato nel carcere di Lecce un uomo della provincia di Bari, il cui nome Gaetano Maggio abbiamo appreso dai giornali. Mentre era in attesa di giudizio per una rapina, ha preferito evadere in maniera definitiva con una corda al collo. Qualche settimana dopo si è tolto la vita nello stesso modo anche un uomo tunisino, Mohamed Faleb. Aver conosciuto il carcere da vicino non può che farci capire ancora di più quante e quali motivazioni possano spingere verso tale gesto, consapevoli che la stessa assurdità e illogicità del carcere, oltre alla privazione della libertà ne sono alla base. Le parole a volte non sono sufficienti, ma un gesto può racchiudere in sé tutta l’angoscia e la disperazione che in tali luoghi si può provare, molto spesso indotta e fomentata dalle angherie dei carcerieri, dai giudici al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fino all’ultima delle guardie che cercano di rendere la vita difficile in ogni suo aspetto, anche il più banale, rendendo esasperante per i detenuti e per i loro familiari qualsiasi cosa fuori scontata.
SONO QUI
Non stare a piangere sulla mia cenere.
Non sono là. Non sono morto.
Io sono mille venti che soffiano.
Io sono lo splendore nella neve.
Io sono lacrime che luccicano nei tuoi occhi.
Non piangere per me. Non sono morto.
Io sono il sole sui tuoi capelli: guardami.
Io sono dappertutto.
Per favore, non stare a piangere per me.
Non sono là. E non dormo…
(Ray “Running Bear” Allen, nativo americano giustiziato di recente con pena di morte negli USA)
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