I fatti che stanno per essere giudicati a Montpellier l’otto febbraio 2001 (sabotaggio di un riso transgenico sperimentale del CIRAD [centro di cooperazione internazionale nella ricerca agronomica per lo sviluppo] su iniziativa della «carovana intercontinentale») hanno segnato, nel giugno 1999, il punto culminante della campagna condotta da quasi due anni contro le applicazioni agricole dell’ingegneria genetica. Lo scopo era stato di «andare in fondo a quello che era stato iniziato, passando dai colpi di mano contro le compagnie private alle prime offensive, necessariamente frontali, contro la ricerca pubblica. Non la ricerca pubblica introvabile che una virtù sui generis avrebbe retto a santuario esonerandola da ogni responsabilità nel mondo così come va, ma la ricerca pubblica reale, presa con le mani nel sacco di quello che essa produce» [René Riesel, testo per la rivista "l’Ecologiste", autunno 2000, ripreso nella nuova edizione accresciuta delle Déclarations sur l’agricolture transgénique et ceux qui pretendent s’y opposer, Editions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2001] .

L’introduzione di questi «OGM agricoli», che sarebbe probabilmente passata inosservata senza questa sorta di campagna d’informazione, è stata abbastanza generalmente avvertita come rivoltante, e un’aura di simpatia ha circondato coloro che si erano così pubblicamente opposti a questa nuova soglia nell’artificializzazione della vita. Il fatto è che con una simile dispersione di chimere genetiche, iniziava ad applicarsi su grande scala il progetto di sottomettere irreversibilmente alla logica industriale il cuore della vita naturale, la sua autonomia nel riprodursi; che questa sterilizzazione appariva lì, nell’agricoltura, come un attentato a quello che si era voluto credere preservato degli antichi legami con la natura; che alla fine era confortante pensare che si trovava tra i più direttamente minacciati, gli agricoltori, una capacità di reazione in ogni altro dove perduta, se non addirittura anche un’attenzione alla sicurezza alimentare dei cittadini. Ma il tentativo di soppiantare la natura, di sostituire ad essa una tecnosfera burocraticamente gestibile, ha soltanto iniziato allora a essere giudicato per quello che è. L’espulsione della natura, la sua cacciata in pochi parchi multifunzionali protetti, non significherebbe infatti soltanto la fine di tutti i contadini (laddove esistono ancora) e dei saperi acquisiti nell’adattamento assennato dell’ambiente, ma anche quella della stessa ragione umana; la quale ha potuto costituirsi soltanto incontrando, sotto forma della natura esterna e interna all’uomo, un limite, qualche cosa che gli resisteva: «quel fuori di cui l’uomo ha bisogno per non essere rinchiuso in se stesso, vale a dire per non sprofondare nel solipsismo, nel delirio logico di onnipotenza». A contrario, si constata già sui bambini educati fuori suolo, con il computer, che cos’è la «formazione» di un essere che trova davanti a sé soltanto l’universo interattivamente malleabile delle rappresentazioni digitalizzate.

In un momento in cui il dominio si propone, a colpi di sperimentazioni genetiche cieche, di richiudere sull’umanità la propria prigione tecnologica e di gettarne via la chiave, il tempo ci viene più che mai misurato. Non dalla venuta prossima di un’improbabile perfezione totalitaria: la tecnosfera assai funzionale che ci viene preparata2 sarà, non c’è da dubitarne, tanto sicura quanto un gigantesco ospedale ultramoderno gestito tramite informatica. [Per esempio sperimentando di gettare della limatura di ferro nell’oceano australe, per doparvi la fotosintesi degli organismi planctonici, e quindi la loro capacità di consumare CO2, affinché l’aumento dei gas responsabili dell’effetto serra cessi di conseguenza di essere un problema].

Ma perché resterà ben poco da giocare per la libertà quando saranno degli uomini ancora più dipendenti, per non essere usciti per tempo e volontariamente dalla carcerazione industriale ad essere privati della comodità della vita artificiale dai disastri high tech e ad essere gettati brutalmente in un mondo devastato. Spaventati dall’essere abbandonati a se stessi, debilitati, senza memoria, e quindi senza immaginazione per fare qualcosa di diverso, sotto la frusta della necessità, che aggiornare le vestigia delle vecchie sottomissioni, verso quali nuovi protettori si volgeranno?

Dopo l’esempio dei sabotaggi di chimere genetiche agricole, e mentre il disastro di un modo di produzione è così patente (in particolare con lo sconvolgimento climatico, dagli effetti sulla vita naturale ancora più diretti di quelli delle manipolazioni genetiche), esistono le condizioni affinché un’opposizione anti-industriale emerga e si dichiari in quanto tale. Se non viene allargato all’insieme delle costrizioni tecnologiche, il terreno della «lotta anti-OGM» rimarrà occupato, cioè parassitato, dai diversi succedanei di critica, che si combinano d’altronde agevolmente nel pastone della retorica anti-mondialista: la compiacente denuncia alla Attac o alla Monde diplomatique, dove l’indignazione santifica se stessa come non plus ultra della coscienza, senza che non si dica mai niente contro il modo di vita moderno (ci si meraviglia molto dagli spazi di libertà aperti dal cyber-militantismo), e ancor meno contro lo Stato al quale ci si rimette per instaurare, un giorno forse, la trasparenza e la felicità cittadina; il consumerismo ecologicamente corretto, che reclama «buoni prodotti», addirittura una «vita sana», per continuare a sopportare l’industrializzazione totale del mondo (si vede quanto il corporativismo a malapena mascherato della Conféderation Paysanne o di un Bové, imputato con Riesel nel processo di Montpellier, contribuisca ad alimentare l’illusionismo pubblicitario dell’agro-industria provvista del marchio di genuinità); infine il goscismo che si perpetua, sempre in cerca di giuste cause per sostenere il suo bluff attivista, e che soprattutto non vuole pensare alle poste in gioco reali dell’opposizione alle necrotecnologie, preferendo annegare tutto questo nella propria minestra riscaldata di slogan “anti-capitalistici”. (Questo goscismo movimentista serve d’altronde molto volentieri da fanteria manifestante e da massa di manovra ai neo-statalisti e ai cittadinisti, come si è visto ancora recentemente a Nizza.) In queste diverse consolazioni procurate dalla falsa coscienza – perché è consolante immaginare un capitalismo che non sia il processo stesso della meccanizzazione del mondo, ma soltanto la sua escrescenza mercantile –, si ritrova lo stesso compromesso illusorio fra quello che si è obbligati pure ad ammettere e quello che si vuole continuare a credere.

Eppure bisogna andare fino alle estreme conseguenze della critica se si vuole combattere il razionalismo tecnologico in nome della ragione (e non di una delle molteplici illusioni d’uscita individuale ed immediata dal mondo industriale che questa società si premura essa stessa di fornire: spiritualità di sintesi, naturismo settario, irrazionalismo illuminato, cyber-vita in campagna eccetera). Quando un biologo un po’ meno scervellato dei suoi colleghi osserva che un uomo arrangiato geneticamente, con sostituzione dei pezzi difettosi con ricambi di serie, cervello compreso, perderebbe allora «ogni identità, ogni coscienza di sé» [Articolo del "New York Times magazine" citato in "Courrier international", 21 dicembre 2000], conviene comprendere che solo nella misura in cui questa «coscienza di sé» è già svanita diviene possibile considerare come una buona notizia la totale dipendenza in tal modo promessa verso le protesi tecnologiche e le manomissioni genetiche, senza neppure vedere che questa sordida promessa è per di più una banale menzogna, come tutta la pseudo-medicina che pretende di adattare l’uomo a un ambiente morboso. I bricolage della transgenesi finiranno certo con il portarci, miserabilmente immortali, in un paese di cuccagna cibernetica. Ma in quale stato sarà la «coscienza» degli uomini che avranno sperato questo, accettato di essere le docili cavie di simili esperimenti di criogenie in vivo? Prima che la costrizione della necessità non imponga semplicemente le procedure d’urgenza e di messa sotto perfusione della natura moribonda (per esempio di fronte al bisogno di adattare le colture al nuovo regime climatico), si invoca ancora, per giustificare l’accanimento tecnologico l’atavica e insaziabile curiosità umana, o ancora il gusto non meno radicato nell’uomo dell’avventura, della novità, della varietà eccetera. In realtà, per ogni individuo sensato, che cioè non ha rinunciato all’uso ragionato dei suoi sensi, non c’è niente che possa soddisfare o anche solo destare la curiosità in quest’impresa di semplificazione che procede soltanto attraverso la devitalizzazione, la sterilizzazione metodica: non si esce mai dal laboratorio, lo si estende a tutto, per ritrovare dappertutto gli stessi presupposti meccanicisti e le stesse procedure tecniche. E questa lugubre uniformazione sarebbe un’avventura? L’avventura e la scoperta consisterebbero piuttosto nel liberarci dalle catene delle nostre protesi e dei nostri schermi, di ritrovare la vita delle sensazioni direttamente provate, senza filtro digitale, di andare a piedi incontro al mondo delle necessità materiali, delle realtà tangibili, sulle quali si può agire in prima persona; e di sperimentare cammin facendo delle forme di comunità capaci di scegliere in tutta coscienza i loro strumenti tecnici come i loro modi di associazione e di mutua assistenza. Quanto alle impellenze imposte fin da ora dal deperimento della sopravvivenza amministrata, sono anche simili comunità, libere perché ristrette, che potrebbero effettivamente farvi fronte, sicuramente meglio in ogni caso della società di massa con la sua escalation nel gigantismo, che “risolve” i problemi soltanto amplificandoli.

Una critica della società industriale non può esimersi dal rifiutarne tutto il sistema dei bisogni. (Che ci si ricordi soltanto del modo in cui le lotte contro il nucleare languirono e svanirono per non aver rimesso in discussione i bisogni che giustificavano la dismisura energetica.) Questo impone innanzitutto una chiara demarcazione con tutti i progressismi tagliando corto con le discussioni metafisiche sull’essenza virtuosa (o meno) della ricerca scientifica, pubblica o privata: quali buone intenzioni o quali prospettive di avvenire radioso bisognerebbe ancora con fiducia attribuirle, mentre soffochiamo sotto le sue ricadute? Nel mondo del monopolio industriale e mercantile delle scienze, delle arti e dei mestieri, non si è scienziati innocentemente. Al di là di un’elementare solidarietà, il processo di Montpellier può essere l’occasione per difendere le migliori ragioni del sabotaggio di chimere di stato, quelle che tenteranno di offuscare le prevedibili tirate sulla «ricerca pubblica» e il suo «controllo cittadino». Che ognuno prenda i propri provvedimenti affinché l’insignificanza non abbia questa volta il monopolio della parola, e coloro che non hanno niente da dire non siano come al solito i soli a esprimersi. Se questo non avverrà la “mobilitazione” per questo processo si aggiungerà alla lista dei non-avvenimenti fastidiosamente festanti, kermesse alla moda Millau e altre sfilate carnevalesche di buoni sentimenti.

Encyclopédie des Nuisances, 12 gennaio 2001

 
 

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