[Introduzione alla prevista edizione inglese per Elephant Editions della biografia scritta da Antonio Tellez, che per il momento risulta sospesa. In italiano su: Alfredo M. Bonanno, A mano armata, Anarchismo, Catania 1998]

José Lluis Facerias

Facerias fu uno di quegli uomini per i quali viene quasi spontaneo scrivere un libro. Nelle sue azioni, nella sua vita e nella sua morte ci sono tutti gli elementi essenziali dell’anarchico da leggenda, del vendicatore che insorge nella lotta contro il nemico di classe e non accetta compromessi. E, certamente, questo costituisce uno dei modi di lettura del volume che presentiamo, il primo modo, il più semplice e, se vogliamo, il meno utile.

Molti anarchici hanno lottato e lottano anche oggi con i medesimi sentimenti di irriducibile contrapposizione che caratterizzarono la vita di Facerias, o di Sabate o dei mille altri guerriglieri che caddero continuando lo scontro armato contro il franchismo anche dopo la caduta della Repubblica, e per molti di loro altri libri si potrebbero scrivere, non tanto dedicati ad un metodo o ad una certa posizione rivoluzionaria, quanto alla volontà del singolo che insorge quando tutti gli altri tacciono aspettando timorosi che segnali favorevoli si disegnino nel cielo.

Eppure questo primo empito del discorso non mi sembra adeguato. O meglio, per dire la verità, non mi sembra più adeguato. Ci fu un tempo in cui, vent’anni fa, mi soddisfece l’analisi diciamo così primaria, essenziale, quella diretta a sottolineare il grande coraggio dell’azione, proponendolo come esempio da seguire. Oggi sono sicuro che questa condizione propedeutica non è più sufficiente. Si correrebbe il rischio di cadere nell’agiografia.

Oggi dobbiamo dire qualcosa di più. Non tanto in merito alle responsabilità di coloro che indirettamente favorirono la repressione, e quindi ostacolarono il lavoro rivoluzionario di Facerias e di tutti gli altri, in nome di prospettive politiche che intendevano difendere scelte di partito o di conventicola resistenziale; quanto riguardo la concezione stessa dell’antifascismo, come elemento ritardante dello sviluppo della lotta rivoluzionaria, e comunque equivoco o difficilmente utilizzabile in modo chiaro in una prospettiva anarchica di distruzione del potere.

La guerra di Spagna e l’eredità che le sue tragedie consegnarono nelle mani della sinistra politica europea e mondiale, non aveva certo creato l’ambiente ideale per chiarire problemi come questo. L’antifascismo sembrava, e continuò a sembrare per decenni avvenire, il terreno comune sul quale si poteva impiantare una collaborazione rivoluzionaria. Le organizzazioni anarchiche che all’estero appoggiavano l’attività di Facerias, o di Sabate, perché i problemi furono uguali per questi due compagni come per molti altri, avevano anche, e direi essenzialmente, una prospettiva antifascista, una prospettiva cioè di dare vita ad un contropotere in grado di programmare il ritorno in Spagna della Repubblica. Pertanto potevano sostenere fino ad un certo punto l’attività di compagni che invece si recavano all’interno della Spagna per fomentarvi la rivolta, ma non potevano sostenere del tutto l’attività di questi compagni quando essa si realizzava in situazioni come quella francese e italiana, dove per definizione il fascismo non era al potere.

Da questa strana concezione della lotta rivoluzionaria, almeno per come l’intendevano le organizzazioni istituzionali dell’anarchismo spagnolo all’estero, e per come la condividevano non poche organizzazioni non spagnole, ma allineate su posizioni politiche simili o vicine all’anarcosindacalismo, derivavano due ordini di problemi, ambedue forieri di malcomprensioni ed equivoci. In primo luogo, la necessità di una generica collaborazione in nome dell’antifascismo, e ciò a prescindere da una vera e propria analisi delle posizioni di chi proponeva un intervento di lotta. In effetti, poniamo, sia delle posizioni di Facerias, come di quelle di Sabate, non furono mai fatti seri approfondimenti, non furono mai avviati dibattiti o discussioni. E lo stesso Facerias non andava al di là di un generico desiderio di vedere organizzati in modo federativo tutti i gruppi che non condividevano la posizione della FAI spagnola o della CNT. Secondo, per lo stesso motivo, quel generico, e non chiaro, accordo giustificava l’isolamento e il boicottaggio quando quelle iniziative minacciavano di allargare il proprio campo d’azione e non intendevano più colpire "soltanto" il fascismo spagnolo, etichettato dal franchismo, ma qualsiasi struttura statale, in quanto qualsiasi Stato è nemico per gli sfruttati, fascista o meno che sia il suo statuto costituzionale.

E se la lotta doveva continuarsi, questa non poteva che contare sull’autonoma decisione di quei pochi compagni che volevano continuarla. Decisione che si vedeva costretta ad affrontare e risolvere tutti i problemi, senza sostegno esterno, quando non si trovava di fronte ad una vera e propria rete di calunnie o di ostacoli più o meno dichiarati.

In questi casi ci sono due altri ordini di problemi da affrontare. Chi si trova a combattere quasi da solo deve affrontare il problema dell’autofinanziamento. E questo non può affrontarsi che andando a prendere i soldi dove si trovano, in genere nelle banche o nelle gioiellerie. Per risolvere questo aspetto, diciamo strumentale, ci si deve dare una attrezzatura tecnica che è la medesima impiegata di solito nella lotta contro gli obiettivi con qualificazione politica più dichiarata, più facile a identificarsi. Non sono stati rari i casi in cui questi due problemi si sono intersecati a vicenda prendendo l’aspetto di un serpente che inutilmente cerca di mangiarsi la coda. Se gli autofinanziamenti servivano per darsi i mezzi per la lotta, questa era lo scopo reale delle operazioni di finanziamento. Ma, a volte, quest’ultime diventavano faccenda tanto complicata da correre il rischio di essere esse stesse scopo della lotta e non più mezzo. Se a ciò si aggiunge il fatto che, isolati da un vero e proprio movimento di massa, in queste condizioni si è costretti a provvedere a tutto, fin dal più piccolo spostamento, alla casa, alle armi, si ha un’idea di quali giganteschi sforzi questi uomini affrontassero ogni giorno, e senza la minima speranza non solo di aiuto ma anche di comprensione da parte di tanti sapienti indottrinati, dediti soltanto a spulciare dubbi nella comodità delle proprie poltrone.

Che Facerias facesse le rapine in Spagna, a danno delle banche spagnole, è una cosa, ma che avesse il coraggio di ripeterle in Italia a danno, poniamo, del Banco di Santo Spirito, questa è un’altra cosa. Certo, ci si poteva poi mettere una pezza sopra, pensando che comunque il suo scopo ultimo restava sempre l’antifascismo, ma non credo che fossero poi in molti a guardare in modo favorevole questa attività in Italia, a parte quei pochi compagni che non hanno mai avuto gli occhi chiusi sul problema reale dello scontro rivoluzionario.

Viceversa, non risulta che fossero in tanti a sostenere la sostanziale uguaglianza tra banche spagnole e banche italiane, e che da questo concludessero che la lotta contro il fascismo spagnolo doveva cominciare, e continuare, con la lotta contro tutti gli Stati, e tutti i capitali nazionali, in nome della libertà e non in nome della sostituzione di un regime fascista con uno democratico.

L’equivoco antifascista spiega, con grande evidenza oggi a tanti anni di distanza, come fosse possibile allora trovare compagni di strada disponibili ad impegnarsi anche nello scontro armato, ma tutt’altro che disposti a condividere un allargamento della lotta in senso realmente anarchico, cioè al di là dell’immediato obiettivo costituito dal fascismo spagnolo prima, da quello greco dopo e così via. Molti di questi cosiddetti compagni di strada, in epoche molto più vicine a noi, dichiararono subito la loro indisponibilità a sostenere ipotesi di lotta che non si limitavano ad indirizzarsi contro questa o quell’espressione del fascismo ma cercavano di analizzare e quindi di colpire l’espressione stessa del potere come andava modificandosi e realizzandosi storicamente nel corso degli anni. In quest’ultimo caso, cessato l’alibi antifascista, il quale alibi suonava sempre come una sorta di autorizzazione morale, molti si fecero prendere dai dubbi e finirono spesso per chiedersi se fosse veramente il momento di attaccare, se non ci fossero altre strade per impostare una lotta politica contro il potere, una lotta se non proprio riformista almeno capace di tenere conto delle gradazioni repressive che una democrazia bene o male è sempre in grado di proporre ai suoi contrappositori.

E tanti di questi dubbiosi si fecero e continuano a farsi sbandieratori della lotta di Facerias, di Sabate e di tanti altri, proprio perché quella lotta, loro, la vogliono racchiudere in un bel libro, consegnandola al lunghissimo elenco di coloro che seppero sacrificarsi nella guerra contro il fascismo, una guerra perduta ma che si poteva anche vincere.

La nostra lettura del libro dedicato a Facerias [A. Tellez, Guerriglia urbana in Spagna. Facerias], come quella del precedente libro che lo stesso Tellez ebbe a dedicare a Sabate, è invece diversa. Questi compagni sono stati anarchici e rivoluzionari, non antifascisti generici. Per loro la lotta contro il franchismo era soltanto un punto di partenza, e l’eventuale sconfitta del fascismo sarebbe stata tutt’altro che un punto di arrivo. Loro non avrebbero mai risposto che con la democrazia al potere non c’era più motivo di continuare la lotta, avrebbero semplicemente individuato i nuovi nemici e continuato a colpire.

E quale meraviglia? Quale altro ruolo potrebbe mai essere quello dell’anarchico?

Alfredo M. Bonanno

 
 

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