IL DILUVIO - numero unico - ottobre 2000

L'alluvione e il suo mondo

In queste ultime settimane Nus è stata invasa da migliaia di volenterosi che, pala alla mano, si sono confrontati con il fango che ha conquistato le strade e i cortili dell’abitato. Insieme a loro tutti quegli abitanti che hanno potuto rimanere in paese e che hanno organizzato i servizi essenziali. È in questo clima che è nata, tra qualche paesano e qualche volontario, una discussione sull’alluvione, su come organizzarsi per affrontarla e su che paese vorremmo vedere rinascere finito di spalare. In questo siamo stati guidati dalla convinzione che non tutto sia casuale e scollegato, che l’alluvione abbia avuto in sé i segni della nostra situazione sociale, del nostro sistema di vita e della nostra cultura.

Pensando che i primi risultati di questa discussione non siano del tutto insignificanti, abbiamo deciso di metterli in comune con gli altri volontari e con il resto della popolazione di Nus. È così che nasce il foglio che avete tra le mani.

UNA PROPOSTA...

Da quando ha smesso di piovere, molti gruppi di persone volenterose, si sono attivate per dare una mano agli abitanti dei vari paesi colpiti dall’alluvione. Personalmente abbiamo deciso di ritrovarci a Nus, spontaneamente, senza affidarci all’organizzazione di varie associazioni ed enti istituzionali o religiosi (Caritas, Protezione Civile). In questo modo l’operato è più snello e ci permette di compiere delle scelte rispetto al tipo di aiuto che ognuno di noi vuole dare. Il rischio può essere quello di disperdere gran parte delle energie per carenze organizzative: per mancanza di conoscenza del territorio o di rapporti con gli abitanti spesso capita che i vari gruppi si disperdano o che non riescano a raggiungere luoghi che realmente necessitano di aiuto. Per questo vorremmo cercare una forma di coordinamento che rispetti l’autonomia dei singoli gruppi, che serva insomma per scambiarsi le informazioni, organizzare i trasporti, recuperare il materiale. Per cominciare proponiamo due appuntamenti:

Martedì 31 ottobre e sabato 4 novembre alle 10 davanti alla mensa, zona campo sportivo, a Nus.

DA NAUFRAGHI AD AMMUTINATI

Naufraghi in un mare di fango, dopo giorni infiniti di caldo e di pioggia. La piena dei torrenti ci ha sommerso proprio dove ci sentivamo più sicuri: all’ombra delle nostre montagne, per le strade dei nostri paesi, si e infiltrata fin dentro le nostre case. I morti, le case distrutte e l’urlo delle sirene hanno riempito lo spazio lasciato vuoto per un giorno dalla millenaria illusione di poter costruire un muro immenso e invalicabile tra noi e la natura. Di qua il tepore delle case, i ritmi del lavoro, le città fortificate ed i paesi sonnolento; di là il freddo, le insidie dei boschi, il ricatto della fame.

La nostra civiltà si costruisce dentro al perimetro di una diga immaginaria che giustifica ogni sacrificio. Per innalzarla ci siamo piegati alle leggi crudeli dell’economia, abbiamo marciato compatti ai ritmi della produzione, abbiamo respirato veleni industriali e mangiato cibi di plastica, abbiamo visto i ricchi diventare sempre più ricchi ed i poveri inabissarsi nella miseria. Siamo già morti in nome del Progresso, ora vicini di casa ed amici ci muoiono tra le mani perché il Progresso non regge a cinque giorni di pioggia. Chi definisce questa alluvione solo come una catastrofe naturale vuole nascondere il fatto che si é trattato innanzitutto di una catastrofe sociale. Non solo perché il vecchio muro che ci divide dalla natura non ha retto, ma perché proprio erigendo quel muro abbiamo via via ingrossato i torrenti. Il sistema industriale ha causato danni tali alla terra da provocare un rapidissimo mutamento climatico. Cambiamenti della temperatura che un tempo si producevano nel giro di generazioni e generazioni ora maturano in pochi anni: la temperatura si alza facendo avanzare i deserti nel Sud del mondo, sciogliendo ghiacciai ed allagando le terre al Nord. É il sistema industriale, e la produzione, e il cuore pulsante della nostra civiltà che ci costringe a scappare di fronte all’acqua, così come nel Sud da anni i poveri arretrano d fronte al deserto.

Del resto, tutte le innovazioni tecniche che per funzionare hanno bisogno di una complessa organizzazione sociale, di specialisti e di scienziati, sono pericolose proprio perché non sono nostre, perché non le possiamo controllare. Pensiamo solo alle applicazioni pratiche delle scienze biotecnologiche: nessuno sa ancora quali meccanismi potranno innescare, quali danni potranno causare ai no stri corpi, al cibo che mangeremo, all’acqua che berremo. L’unica certezza è che ci guadagneranno gli industriali e i governi, e che le cavie saremo noi.

Due alluvioni in sei anni dimostrano che l’innalzamento delle temperature e un dato ora mai acquisito e che, purtroppo dovremo aspettarcene delle altre. Proprio qui, in un territo rio che in questi anni sembra essere stato modificato apposta per non resistere all’acqua.

Quella in cui abbiamo sempre vissuto é la società dell’alluvione, la società che l’ha causa to e che non ha saputo farne fronte. Fra una alluvione e l’altra, dobbiamo saper scegliere se continuare a dar credito al Progresso, che ci rende schiavi promettendoci sicurezze illusorie o se pensare ed organizzare un modo nuovo di vivere con 1a natura e tra di noi. Ecco cosa ci rimane dopo il diluvio, oltre a fango e a vecchie certezze incrinate. La forza di non voler pi essere naufraghi, ma ammutinati.

L’economia classica insegna che il prezzo di un bene è determinato dall’intersezione tra la curva della domanda e quella dell’offerta: se un bene viene a scarseggiare, ma la sua domanda resta elevata, il prezzo aumenta. Che pochi giorni dopo l’alluvione chi é rimasto senza casa debba pagare 18.000 lire tre spazzolini da denti o 8.000 lire una cassa di acqua potabile nell’unico negozio rimasto aperto a Nus, il DESPAR, dovrebbe essere logico.

L’evidenza di questo stupido eccesso ci fa pensare a tutti gli altri casi, meno evidenti, di sciacallaggio. Questa é l’economia del profitto, l’economia che regola ogni giorno le nostre vite. Questa é l’economia che ci fa ribrezzo e per questo chiamiamo infame chi applica le sue leggi.

UN MONDO CHE NON C’È

Il fango è dappertutto. A Nus sono poche le cantine o i piani terra a non esserne. pieni. La solidarietà però non manca di certo, si vedono gruppi di giovani e meno giovani che aiutano chi ha ancora la casa allagata. Alcuni di questi portano una divisa, altri indossano dei jeans e una maglietta e lavorano entrambi quasi fianco a fianco. Per alcuni è stato un impulso di generosita, per altri è un lavoro al quale sono stati destinati. Vi sono stati destinati per aiutare a ripulire: loro sono persone addestrate, con mezzi efficienti... Ma sono stati mandati anche per mostrare che rapidamente tutto tornerà alla normalità, tutto nuovamente pronto per un’altra calamità. Grazie a loro, il bravo politico che in questo periodo vede muoversi minacciose accuse per aver commesso degli errori prima e durante (emergenza (allarme tardivo, mancata evacuazione, disboscamenti massicci, cattiva gestione del territorio... ) si riscatta: dimostra che è in grado di rimediare a tutto chiamando aiuti dal resto d’Italia e dalla vicina Francia. Questo alla gente scontenta fa dimenticare a volte la responsabilità di chi ha consentito una tale catastrofe, accontentandosi della gioia di tornare rapidamente alla vita condotta fino a due settimane fa.

I volontari, invece, si sono organizzati in due maniere differenti. Alcuni si sono rivolti alle grosse strutture istituzionali o religiose (Croce Rossa, Comuni, Caritas, Protezione Civile), subordinando il proprio tempo e le proprio forze a decisioni prese dall’alto, rinunciando così a scegliere autonomamente chi aiutare e in che modo. Altri, invece, hanno contattato la gente dei paesi tentando di capire quali erano le necessità più urgenti e mantenendo la propria autonomia. Spesso la scelta tra queste due differenti modalità organizzative è avvenuta in maniera casuale od obbligata: soprattutto i primi giorni, le grosse strutture di volontariato non riuscivano ad indirizzare tutti gli aspiranti spalatori. Molti degli esclusi hanno così preferito mettersi al lavoro da soli, anziché aspettarne le direttive a casa. A Nus, nella settimana successiva alfalluvione, queste tre realta hanno convissuto, impegnando ciascuna un considerevole numero di persone. Nella stessa maniera, gli abitatiti del paese hanno organizzato autonomamente alcuni servizi di base (la mensa dei volontari, per esempio), accanto alle strutture ufficiali della Protezione Civile e del Comune.

Anche se finora hanno convissuto, pensiamo che queste tre maniere di organizzarsi siano radicalmente differenti, perché disegnano due mondi completamente diversi. Laiuto istituzionale e quello del volontariato organizzato, comportando una separazione netta tra chi spala e chi dii^ige i lavori, proseguono un mondo in cui pochi sono padroni del destino di tutti; gli "spalatori autonomi", abbattendo questa separazione, disegnano un mondo che non c’è ancora, quello in cui ciascuno del proprio destino è padrone. Non ci stancheremo di ripetere che l’alluvione è stata causata anche dal fatto che abbiamo sempre permesso che alcuni organizzassero a nome nostro le nostre vite. Tra i tanti risultati nefasti di questo c’è stato un grande cambiamento climatico ed un territorio impreparato a sopportarlo.

Ci verrà obiettato che senza l’azione della Croce Rossa e della Caritas gli aiuti sarebbero stati meno veloci ed efficaci, che senza l’Esercito e la Protezione Civile sarebbe morta molta gente in più, abbandonata sui tetti delle case invase dall’acqua. Questo e vero. Ma è vero solo perché queste organizzazioni hanno avuto il monopolio dei mezzi di soccorso. In queste settimane, infatti, chi ha scelto di impegnarsi al di fuori delle organizzazioni istituzionali e del volontariato organizzato si è dovuto limitare per lo più a fare lo spalatore. Questo perché i tantissimi gruppi autonomi non hanno saputo coordinarsi, senza in nulla rinunciare alla propria autonomia, e conquistare anche loro quei mezzi essenziali in una situazione di emergenza come quella che abbiamo vissuto.

NEI GIORNI DI PIOGGIA

L'alluvione che ha colpito la Valle non ha prodotto soltanto distruzione e dolore, ma anche uno sconvolgimento sociale. Come capita in molte situazioni simili, si sono spezzati i ritmi di vita abituali: l’emergenza ha infatti interrotto l’attività lavorativa, quanto meno nei paesi più disastrati, lasciando spazio a meccanismi sociali insoliti ma interessanti.

Senza acqua corrente, senza macchina, senza andare il sabato sera in discoteca, senza farsi la doccia tutti i giorni, senza bar e supermercati a disposizione, la gente dei paesi ha scoperto e vissuto sulla propria pelle un mondo in cui si può dare senza ricevere niente in cambio, la solidarietà tra le persone è diretta, in cui tutti hanno dovuto recuperare una capacità organizzativa autonoma, magari sepolta dalla quotidianità e dalle comodità, facendo leva sulle proprie esperienze e conoscenze. Sono state in parte messe tra parentesi le istituzioni: sotto la pioggia, le decisioni riguardanti la vita e la sicurezza dei paesi venivano prese non più esclusivamente dai sindaci e dagli assessori ma anche dagli abitanti. Due forze parallele hanno fatto fronte all’alluvione nei paesi; da una parte le amministrazioni comunali, dall’altra la forza degli abitanti che hanno dimostrato di sapersi organizzare da sé. All’interno di questa nuova situazione ha avuto spazio anche chi abitualmente non ce l'ha. I vecchi, per esempio, hanno potuto mettere a disposizione di tutti conoscenze - come quelle sugli antichi corsi dei torrenti - spesso più importanti in quei momenti di quelle specialistiche dei tecnici moderni. Spezzati i ritmi di vita abituali, dunque, sono emerse le potenzialità di una vita diversa, di un nuovo modo di stare assieme.

Questi momenti di vita diversa tratteggiano delle comunità reali che sono l’opposto di quella fittizia regolata dall’economia e dal capitale, nelle quali ogni individuo si muove solo, instaurando con gli altri relazioni anch’esse fittizie, in una vita scandita dai ritmi frenetici ed incalzanti del lavoro.

Il "ritorno alla normalità", se da una parte vuol dire liberar e i paesi dal fango, dall’altra segna la fine di queste esperienze la riconsegna dei paesi alle amministrazioni, ai politici di ogni fazione e all’economia. Un ritorno, insomma, a quella normalità che è stata una delle cause del disastro, un predisporre la prossima disgrazia. Perché se è vero che nulla ci può garantire definitivamente contro le catastrofi naturali, è anche vero che non tutte le catastrofi sono interamente naturali.

L’alluvione che abbiamo patito è figlia di una società in cui l’industrializzazione ha completamente sconvolto gli equilibri climatici e che, a livello locale, ha distrutto tutte le difese che esistono in natura proprio contro questi veloci cambiamenti del clima. Ligi alle regole dell’economia, difatti, gli amministratori hanno deciso di spostare i letti delle acque dei ruscelli, hanno costruito argini che velocizzano il flusso delle acque anziché rallentarlo, hanno disboscato per far posto a piste da sci e riempito le montagne di strade e muraglioni che indeboliscono la struttura dei versanti favorendo le frane. Questo non perché gli amministratori siano miopi o cattivi, ma perché fino a quando non ci saremo sbarazzati di tutti quegli strumenti tecnici che possono essere controllati solo da una ristrettissima cerchia di tecnoburocrati, non é pensabile un rapporto non distruttivo col territorio. E non é pensabile fino a quando quegli strumenti tecnici che effettivamente ci servono per vivere realmente nelle mani della collettività. Le esperienze che si sono manifestate nei giorni di pioggia sono importanti proprio pero la possibilità di organizzarsi senza deleghe per gestirli.

È per questo che l’instaurarsi di quei meccanismi che hanno portato gli alluvionati a cercare la relazione con l’altro, la cooperazione, la gestione collettiva degli aiuti, delle mense e, più di tutto, la partecipazione senza intermediari alle decisioni riguardanti la propria vita, apre senz’altro la possibilità di percorrere strade nuove su cui si affacciano vite, relazioni e ritmi determinati da passioni e desideri, non scanditi dal suono di una campanella.

Pur in una situazione che nessuno vorrebbe rivivere, abbiamo dunque potuto toccare con mano la possibilità di una vita autentica, non alienata. Proprio nel centro di una catastrofe che ci sembrava inspiegabile abbiamo trovato i possibili anticorpi delle catastrofi a venire.