#lang it #title Severino Di Giovanni La figura di Di Giovanni ha sempre messo in luce una profonda divisione all’interno del movimento anarchico, divisione che va molto oltre i limiti degli avvenimenti specifici durante la sua vita. Da prima della attività di Di Giovanni, fino a oggi, ci sono sempre stati compagni che includono i metodi di azione diretta, lotta armata e esproprio nella lotta contro lo sfruttamento. D’altro canto, ci sono sempre stati quelli contrari a questi metodi, e a favore soltanto della propaganda e dell’educazionismo libertario. Quest’ultima è la posizione tenuta dagli anarchici argentini riuniti, all’epoca di Di Giovanni, attorno al quotidiano anarchico "La protesta". Anche oggi ci sono molti che mantengono questa posizione e che sicuramente avrebbero preferito lasciare Di Giovanni, e ciò che rappresenta, in una relativa oscurità. Per com’è questo libro [O. Bayer, *Anarchism and Violence. Severino Di Giovanni in Argentina. 1923-1931*, London 1986] contiene certi difetti che devono essere indicati e che esamineremo più avanti. Il lavoro di Bayer è un tentativo onesto e oggettivo, lontano dagli stereotipi così cari alla stampa borghese. Racconti contemporanei alle sue attività riempirono colonne e colonne, dipingendo Di Giovanni come bombarolo, bandito e assassino. Non solo la stampa dei padroni, come si dice, ma anche quella parte della stampa dalla quale ci si aspetterebbe di meglio, hanno insistito nel vedere Di Giovanni immerso in una realtà brutale e omicida, nella quale viveva e portava avanti la sua lotta, distaccato dal movimento anarchico di cui invece faceva parte. Per esempio, l’autore della *Prefazione* all’edizione spagnola di questo libro, José Luis Moreno, dice: «Di Giovanni voleva dalla violenza ciò che la borghesia voleva dalla legge: uno strumento per ottenere uno scopo finale, che naturalmente in ambedue i casi erano diversi e antagonisti. Di Giovanni credeva di potere combattere la borghesia con le sue stesse proprie armi». E più avanti: « […] Egli utilizzava il suo arsenale di guerra come uno strumento di base, relegando i problemi ideologici al secondo posto. Per lui, come per molti anarchici, è questo che significava azione diretta». E ancora: «In realtà fu un romantico. Paradossalmente come potrebbe sembrare, e citando Bayer, diremo che fu un romantico della violenza, l’amore e la violenza sono veri scopi, e per lui non ce ne furono altri». Potrebbe essere difficile al primo sguardo fare una distinzione tra la violenza proletaria della difesa e l’opprimente terroristica violenza dello Stato. Ma questa distinzione può e deve essere fatta. Attaccando le istituzioni, armi in mano, Di Giovanni non stava usando le stesse armi della borghesia, ma quelle, completamente diverse della liberazione e della rivendicazione popolare, e dove mai l’autore della *Prefazione* all’edizione spagnola ha letto che Di Giovanni ha messo i problemi ideologici in secondo piano? Forse avrebbe fatto meglio lui, al posto di Di Giovanni braccato, inseguito dalla polizia come un animale selvaggio, ma nonostante ciò lo stesso curando in tipografia numerose pubblicazioni anarchiche, compreso un giornale quindicinale: "Culmine", e una edizione degli *Scritti sociali* di Reclus? E, in fine, perché definirlo un romantico? Quando sappiamo benissimo che oggi la storiografia lega questo termine agli aspetti decadenti della poetica romantica, quelli che sono lontani dalla realtà? Utilizzare questo termine oggi può solo confondere il lettore. Esisteva per Di Giovanni molto di più dell’amore e della violenza: la lotta contro il fascismo, la lotta sindacale, la lotta per una società nuova, la lotta per l’anarchia. Tutte queste lotte furono intraprese nella piena coscienza del bisogno di utilizzare mezzi pericolosi, mezzi giustificati solo dalla guerra aperta, dichiarata da quelli al potere. Per tornare al libro. Come abbiamo detto è una ricostruzione oggettiva lontana dal sensazionalismo dell’epoca di Di Giovanni. Lo sviluppo dell’attività di Di Giovanni. è stato seguito attentamente attraverso la consultazione di giornali contemporanei, documenti e testimonianze. Dagli avvenimenti al Teatro Colon, al momento finale, davanti al plotone di esecuzione, incontriamo Di Giovanni attraverso un miscuglio di distanza e simpatia. Non avendo accesso alle fonti utilizzate, possiamo solo accettare le conclusioni raggiunte dallo storico e considerare il suo lavoro come positivo. Sono altri aspetti del libro che ci danno preoccupazione, particolarmente il frequente ricorso a giudizi di valore tutti legati ad una visione, "romantica e idealistica" dell’attività rivoluzionaria di Di Giovanni. Non è nostra intenzione privare il lettore del piacere di leggere il racconto ricco che Bayer fornisce, allora non cercheremo di riassumere qui l’attività di Di Giovanni. Sentiamo comunque che è necessario indicare la mancanza di fondamento alle conclusioni teoriche di Bayer. Per esempio scrive: «Da buon autodidatta, Di Giovanni crede, nella sua tragica ingenuità, che la teoria è fatta per essere applicata. Bakunin e Kropotkin avevano detto che tutti i mezzi sono leciti per giungere alla rivoluzione e per conquistare la libertà». È in tali passaggi che ci si rende conto che Bayer. per quanto un ricercatore coscienzioso, o non ha letto, o ha capito poco del pensiero anarchico. Dove mai ha trovato l’affermazione che Bakunin e Kropotkin dicono che tutti i mezzi sono giustificabili? Dove mai ha letto che utilizzare la teoria anarchica acriticamente è tipico degli autodidatti? Dove ha saputo che la teoria anarchica è teoria fatta solo per restare sulla carta. Di Giovanni era uomo coerente, non è vero che qualunque mezzo fosse buono per lui. Sceglieva sempre i mezzi in rapporto alla violenza terroristica delle strutture del potere, ed è rimasto su questa strada fino alla fine. Chiedersi, come fa il nostro autore, la psicologia del suo rapporto con la teoria anarchica non ha senso. *Faccia a faccia col nemico*, il famoso volume di Galleani, è anche il titolo di una sezione del giornale di Di Giovanni "Culmine", e dimostra la vera sostanza del rapporto tra teoria e pratica. Di Giovanni sapeva che l’attacco contro l’oppressione doveva usare certi mezzi, ma sapeva anche che gli altri mezzi, la propaganda, le pubblicazioni anarchiche erano di grande valore perché servivano a preparare il campo per l’intervento attivo rivoluzionario. Ma, affinché questo scambio tra teoria e pratica potesse verificarsi, occorreva che in futuro la prima fosse sviluppata in una certa direzione, e non diventasse ostacolo nella strada dell’azione diretta come nel caso degli editori de "La protesta". Un’altra interessante interpretazione fatta da Bayer di Di Giovanni è quella che lo identifica con l’individualismo nicciano. Questo è un problema interessante. Bayer individua a più riprese la presenza del filosofo tedesco nel pensiero di Di Giovanni. E, in effetti, questa influenza non può essere negata. Bayer ci dice: «È percepibile in Di Giovanni l’immensa l’influenza di Nietzsche (nel perquisire la sua biblioteca a Burzaco vennero trovati dei cartelli esposti alle pareti, con frasi dell’autore di *Zarathustra*». E in una lettera dell’22 ottobre 1928, egli stesso scrive: «Oh, quanti problemi si affacciano sulla scarpata della mia giovane esistenza, travolto da mille turbini del male! Eppure l’angelo della mia mente mi ha detto tante volte che solo nel male vi è la vita. Ed io vivo tutta la mia vita. Il regno della mia esistenza si è perduto in essa: nel male? Il male mi fa amare il più puro degli angeli. Faccio io male? Ma se essa mi guida? Nel male vi è l’affermazione più alta della vita. E stando in essa, sono equivocato? Oh, problema dell’ignoto, perché non ti risolvi? […]». Per questo Bayer. conclude: «Tenerezza che, presto, quando gli toccherà di agire, si convertirà in crudeltà. Era evidentemente un uomo spontaneo, completo nei suoi sentimenti, che agiva come ubriacato di tutta la gamma di colori, di lotte, di contraddizioni, di bellezze, di generosità, di tradimenti che la vita ci presenta. Vale a dire un autentico nicciano». Leggere Nietzsche costituisce un impatto per molti, e probabilmente anche per Di Giovanni. Ma da questo, arrivare a definire l’uomo e le sue azioni come nicciani, sembra un passo troppo grande. Anche la presenza di alcune frasi dell’opera di Nietzsche nella biblioteca del nostro compagno, sembra essere un elemento troppo modesto per giustificare l’affermazione che lui era un dichiarato seguace delle dottrine del filosofo, L’approfondimento delle radici filosofiche è un problema molto serio e può avere un effetto su tutte le azioni dell’anarchismo che insiste sull’azione diretta, e che pur non negando l’importanza e i valori della propaganda, dell’educazione libertaria, accentua l’importanza dell’attacco contro l’oppressione. Non è vero che Di Giovanni «agisse come ubriacato da tutta una gamma di colori, di lotte e di contraddizioni […]». La pienezza della sua concezione di vita non aveva niente della violenza improvvisata che si confonde con la forza vitale nella dimensione filosofica di Nietzsche. Non dobbiamo dimenticare la visione del filosofo tedesco riguardo l’essenza del mondo e della storia, né la sua ammirazione per l’ideale del "superuomo", qui l’elemento deterministico dell’eterno ritorno interagisce con l’elemento volontaristico e mistico della volontà di potenza. Queste tendenze opposte fanno dire delle cose interessanti al filosofo riguardo il nazionalismo, la religione e la guerra; ma anche delle affermazioni assurde e pericolose che nella bocca dei seguaci del nazionalsocialismo hanno a torto fatto di lui un filosofo di "destra". La lettura di Nietzsche come quella di Stirner è un lavoro abbastanza difficile, ed è quasi sempre stato fatto male. Ma esiste una divisione netta tra la lettura che Di Giovanni fa dei libri di Nietzsche e la sua attività anarchica, rivoluzionaria. L’aspetto volontaristico della sua attività non aveva mai lo scopo di creare un mito, o di seguire il modello del "superuomo". Aveva sempre in mente una precisa situazione di lotta, che emergeva dallo sfruttamento di classe e dall’oppressione fascista. Questa situazione venne da lui continuamente verificata, a livello teorico, nel suo giornale "Culmine". Non si dovrebbe essere stornati dalla prosa fiorita e traboccante, una volta abbastanza comune fra gli scrittori libertari, Galleani ne è un esempio. Quando dice che "solo nel male c’è vita", il riferimento letterario si rapporta direttamente a una contraddizione che è abbastanza evidente in un uomo che ha scelto la strada dell’ "outsider". Se la dimensione borghese della vita è ciò che ognuno definisce "buono", allora solo nel "male" esiste vera vita, solo rompendo il cerchio dell’ipocrisia e il falso amore del bene è possibile trovare un differente e più essenziale bene, l’unico capace di fondare la società di domani attraverso il dolore e la sofferenza di oggi. Anche nel suo rapporto con la giovanissima compagna Josefina, egli è cosciente che dal punto di vista borghese la sua azione potrebbe essere condannata e considerata "male": ma è precisamente questo male che gli fa sentire di avere ragione e di affermare la vita. Non rimane allora null’altro da fare che accantonare le parole, guardare la realtà in faccia, e agire. Allora arriviamo al terzo problema, che emerge da una lettura di questo libro, quello del terrorismo. Ancora una volta Bayer dà sfogo a giudizi di valore e si perde in affermazioni assurde e infondate: «Di Giovanni fu un eroe sfortunato, un giovane uomo che prese sul serio ciò che i libri della sua ideologia dicevano. Ideologia questa che, secondo come la si interpreta, può passare dalla bontà e dal rispetto per la condizione umana in tutti i suoi aspetti, alla più disperata e violenta azione soggiogatrice, giustificata con l’ideale di voler instaurare la libertà assoluta per tutti». È dunque indispensabile che il lettore tenga in mente la totale mancanza di comprensione da parte di Bayer riguardo che cos’è l’anarchismo. E, più di tutto, su che cosa significarono e significano le azioni di Di Giovanni. Ma il nostro problema è ancora leggermente diverso. Assieme ai suoi compagni, Di Giovanni ha eseguito delle azioni che normalmente vengono definite "terroristiche", egli stesso ha scritto: «In eterna lotta contro lo Stato ed i suoi puntelli, l’anarchico che sente su se stesso tutto il peso della sua funzione e dei suoi scopi emananti dall’ideale che professa e della concezione che ha dell’azione, non può molte volte prevedere che quella valanga che fra poco andrà a far rotolare per la china dovrà necessariamente urtare il gomito del vicino in astrattiva contemplazione delle stelle o calpestare un callo di un altro che s’impunta in non smuoversi avvenga quello che avvenga intorno a lui». In primo luogo deve essere detto chiaramente che cos’è terrorismo. La propaganda di Stato fatta dai soliti inservienti pagati della stampa borghese ha sempre chiamato terrorismo le azioni di individui o gruppi contro i responsabili dello sfruttamento, contro la proprietà, le istituzioni dello Stato e l’ordine costituito. L’altro terrorismo, il vero terrorismo, eseguito dallo Stato direttamente utilizzando l’esercito in tempo di guerra, o i padroni sul posto di lavoro, non è mai stato considerato terrorismo. E migliaia di operai uccisi, feriti ogni anno, solo in questo paese. I dolci avvelenati, i gas allucinogeni, i defoglianti e ogni genere di arma batteriologia nel Vietnam, ormai patrimonio di tutti gli Stati in guerra. Al tempo di Di Giovanni lo sport preferito della borghesia argentina era la "caccia" nella Terra del Fuego durante la quale i nativi delle foreste venivano colpiti a morte. Le stesse persone che ammazzavano questi "selvaggi" a sangue freddo per il piacere della caccia, furono fra i più decisi nel condannare le azioni di Di Giovanni. Evidentemente quando il terrore viene praticato contro gli altri non disturba il palato della borghesia. Ma quando la minaccia appare vicino casa, allora essa cambia opinione. È giusto, dunque, che possiamo parlare di terrore solo quando parliamo di violenza repressiva, mai quando parliamo della violenza degli sfruttati. L’uso di tale termine riguardo azioni concernenti il loro diritto di difesa, diventa causa di malcomprensione, e di lunghe e inutili discussioni. E le azioni di Di Giovanni non erano mai violente per il piacere di esserlo, non erano mai applicate indiscriminatamente per creare una tensione che avrebbe solo favorito il potere e la sua politica di consolidamento. Le azioni di Di Giovanni erano sempre guidate da uno preciso ragionamento rivoluzionario: colpire i centri del potere con azioni punitive che trovano la propria giustificazione nella violenza di Stato e che hanno lo scopo di spingere la massa verso un obiettivo rivoluzionario. Di Giovanni ha sempre tenuto conto della situazione di massa, anche se spesso è stato accusato del contrario. È anche stato accusato di avere contribuito alla repressione, scatenandola contro il movimento anarchico. Tale accusa non ha senso. La repressione poliziesca uccide un movimento rivoluzionario solo quando questo è già morto nella sua componente essenziale di attacco contro il potere. In altre parole, se un movimento rivoluzionario, in una situazione democratica, si illude che esiste solo perché vegeta all’ombra della tolleranza governativa, è logico che un’ondata di repressione finirà sempre per distruggerlo. Ma, nei fatti, questa repressione uccide solo un cadavere senza vita, qualcosa che si illudeva di essere vivo perché come una pianta buttava solo pochi semi o generava un numero di gruppi che diffondevano nient’altro che opinioni. È necessario interpretare l’attività di Di Giovanni e il suo rapporto con il movimento anarchico argentino in questo contesto. In ultimo, è necessario dire qualcosa riguardo i possibili "incidenti" che ogni rivoluzionario deve cercare, per quanto possibile, di evitare nel corso dell’attacco contro il potere. Questi incidenti sono sempre deplorevoli, perché vengono subito visti in una luce negativa dalla massa degli sfruttati e perché mettono in pericolo la vita di persone che prese individualmente non sono responsabili per un particolare atto di repressione. Ma una volta che l’atto violento, deciso da un militante o gruppo di militanti, viene eseguito con opportuna analisi e garanzia; quando la sua opportunità politica è stata considerata ed esso viene eseguito in modo da renderlo quanto più chiaro possibile alla massa; e il militante o gruppo sono veramente parte della minoranza armata degli sfruttati: allora se l’azione causa un "incidente" e qualcuno muore durante il suo corso, non possiamo condannare l’azione, né i compagni che l’hanno eseguita. In ogni caso, anche quando non siamo d’accordo con una particolare azione, e una critica ci sembra giustificata, dobbiamo sempre tenere in mente che la nostra critica non può andare oltre quell’azione specifica. Trarre principi generali da essa — per quanto logici questi possano sembrare — è sempre gratuito e pericoloso dal punto di vista rivoluzionario. Molti importanti problemi riguardanti Di Giovanni non avrebbero avuto senso se i compagni che li hanno sollevati, nel passato come oggi, non avessero iniziato con delle malcomprensioni riguardo la funzione e gli scopi dell’azione rivoluzionaria. *Alfredo M. Bonanno* [*Introduzione* a: Osvaldo Bayer, *Anarchism and Violence. Severino Di Giovanni in Argentina. 1923-1931*, Elephant Editions, London 1986, pp. 7-17. In italiano su: Alfredo M. Bonanno, *A mano armata*, Anarchismo, Catania 1998]