CONTRIBUTI PER LA RIPRESA DELLE OSTILITA'

Sul G8 di Genova si è detto di tutto e di più.

Abituati come siamo al deliberato confusionismo mediatico, non ci stupiamo più di nulla; neppure del fatto che venga scritto, nero su bianco e da “fonti autorevoli”, che Osama Bin Laden avrebbe assoldato eserciti di naziskin europei per uccidere il presidente americano durante la riunione dei G8, o che incomba su Genova la minaccia di aerei telecomandati da terroristi pronti a bombardare indiscriminatamente con gavettoni di sangue all’Aids; o ancora che la Cia stia preparando delle bombe-puzza capaci di scatenare nei manifestanti il senso di colpa, e via di questo passo.

Verrebbe quasi da ridere, se non ci fosse da piangere.

Già, perché subito dopo ci si sente dire che la riunione degli Otto Grandi sarebbe animata dalle stesse identiche preoccupazioni dei contestatori (ma come?!), che questi ultimi stanno facendo un referendum per vedere se gli italiani sono d’accordo o meno a vedere in televisione i loro “scontri” con la polizia, e che, risoluti a bloccare il G8, lo sono nondimeno nel pretendere che lo Stato li finanzi e li ospiti a Genova per farlo (?!).

Spudorate menzogne accanto ad orrende verità, vero e falso insieme alla fiera dell’incredibile, in un confusionismo asfissiante interessato a sancire la resa di un qualunque buon senso critico divenuto, di fronte al delirio in cui siamo, tanto pericoloso quanto una minaccia rivoluzionaria. La realtà dev’essere sempre più incomprensibile per sostenere una sopravvivenza ogni giorno più insopportabile.

Il battage ossessivo sull’evento G8, e in modo particolare sulla cosiddetta “galassia” dei contestatori, conferma in maniera inequivocabile il trionfo su tutto e tutti del rovesciamento di realtà e rappresentazione: fa sì che siano i manifestanti ad adeguarsi alla propria immagine mediatica, costruendo in base ai suoi diktat i propri ruoli, comportamenti e identità.

In questo modo lo spettacolo invade - con i suoi meccanismi e la sua ideologia di “partecipazione” fittizia - il movimento di contestazione alle conseguenze della produzione industriale, scongiurando la possibilità di una critica seria e di uno scontro reale. Tale invasione, peraltro, risulta essere molto ben accetta da quella parte di “contestatori” candidamente convinta di poter usare i giornalisti (e non piuttosto di esserne usati) per ingrossare le proprie fila, sbavando dietro al consenso che un grande successo mediatico inevitabilmente darebbe loro. Ecco dunque la presunta “ala dura” del Social Forum (le temibili tute bianche) infliggere ai già martoriati telespettatori estivi una vergognosa campagna pseudo-pubblicitaria (a suon di referendum, finti scontri, interviste e servizi di ogni sorta) diretta a rapire il consenso del cittadino-consumatore di cui, in tal modo, non si fa che santificare il ruolo di spettatore passivo di fronte a un mondo distante e gestito da altri. Ma non è proprio questa l’alienazione su cui si fonda il rapporto di potere attuale? Non è forse proprio ciò che qualunque forza interessata a rovesciarne i presupposti dovrebbe combattere sul campo?

Ma allora “contestatori” di che cosa? Che cos’è che viene messo in discussione da questo “movimento anti-globalizzazione”?

Non è certo la grigia quotidianità della democrazia spettacolare, che anzi, a corto di argomenti, ha puntualmente bisogno di qualche finto oppositore che contribuisca a tenere in piedi artificialmente una credibilità incrinata dalla recrudescenza mondiale di catastrofi e sofferenze.

Né, tantomeno, viene messa in causa la necessità dell’economia mercantile, che trova piuttosto una boccata di ossigeno nel vedere i propri (potenziali) oppositori battersi per un capitalismo “dal volto umano” invece che per la sua abolizione.

L’ideologia borghese del progresso, l’illusione di un benessere planetario frutto dell’abbondanza di merci e garantito dal razionalismo tecnologico e scientifico, ha dato ormai prova di sé; i suoi risultati, i suoi disastri, sono sotto gli occhi - nei corpi, nei piatti… - di tutti, non c’è certo bisogno di elencarli (se c’è qualcosa di cui si sente il bisogno oggi, non è certo di altra informazione, o contro-informazione che sia).

Esaurita ogni funzione innovativa, non rimane altro che la riproduzione e l’amministrazione dispotica di un’organizzazione sociale che, nonostante tutto, deve andare avanti.

Finito il trionfalismo che accompagnava agli albori lo spettacolo dell’abbondanza mercantile, resta un mondo che va a rotoli su tutti i fronti, e una casta di funzionari a governarne l’agonia. Non ci dicono più che siamo nel migliore dei mondi possibili - perché sarebbe ridicolo - ma semplicemente che nessun altro è ormai in grado di amministrare un pianeta così malconcio. Dopo aver distrutto ogni forma di comunità e aver sterilizzato ogni rapporto umano, dopo averci espropriato di ogni conoscenza e saper fare e averci trasformato in appendici di un apparato tecnologico infernale e incomprensibile, resi incapaci di interagire con la natura, con il nostro corpo e con gli altri individui della nostra specie, ci viene detto che, al punto in cui siamo, non ci resta che affidare la nostra sorte e quella del nostro pianeta alla tecnica (cioè al Capitale) per risolvere un’emergenza che noi non possiamo né capire né tantomeno affrontare. Questo è ciò che si intende affermando che “la storia è finita”, che poi non vuol dire altro che dobbiamo abbassare la testa e obbedire, …altrimenti mazzate.

I segnali di crisi si accumulano al punto che è lo spettacolo stesso a non poter fare a meno di parlare della propria rovina.

Fin dal suo trionfo, il Capitale ha saputo convertire i problemi di gestione in cui incorreva - derivanti da crisi, resistenze, contraddizioni - in punti di forza per una ulteriore affermazione del proprio potere di classe. Oggi, di fronte all’impossibilità di occultare la gravità di un disastro planetario (ecologico, epidemico, di vita) che non ha precedenti, il Capitale trova nella nocività da esso stesso prodotta l’ultima giustificazione del proprio dominio.

Proprio la dilagante “preoccupazione”, suscitata dalla prospettiva di un futuro governato autoritariamente dai diktat dell’economia globale, viene presa in carico dal Capitale e dai suoi sostenitori che, indossati gli abiti ecologisti ed umanitari, si propongono come unici detentori dei mezzi per affrontare la catastrofe incombente.

La crisi generale dell’esistente viene di volta in volta spacciata per crisi di un settore particolare, scollegata dall’insieme della produzione industriale e delle sue contraddizioni di fondo. Quelle che sono le inevitabili conseguenze di un modo di produzione strutturalmente inquinante, avvelenatore e produttore di squilibri vengono fatte passare per incidenti di percorso dovuti a una cattiva gestione, e che richiedono dunque interventi correttivi da parte dello Stato. Inutile dire quanto tali “aggiustamenti” siano forieri di nuovi danni, che quindi renderanno a loro volta necessari ulteriori “rimedi” tecnologico-burocratici, … e così via, in un business denominato, a seconda dei casi, “ricostruzione”, “regolamentazione”, “conversione”, “bonifica”… Non potendo produrre più nulla di buono, il capitalismo si riproduce parassitando le proprie scorie (tanto quelle materiali quanto quelle ideologiche) e coinvolgendo tutti nella condivisione della propria responsabilità fallimentare (raccolte differenziate, marmitte catalitiche, volontariato ecc.).

Soltanto in questo modo il Capitale riesce ad allontanare la soluzione di una conflittualità di classe inevitabile, dilazionando nel tempo il collasso di un’organizzazione sociale obsoleta e suicida, e facendo sprofondare con sé tutta la specie umana.

In un simile scenario, in cui tutte le relazioni umane, le attività sociali, i tempi e gli spazi di vita sono contaminati prepotentemente dalla separazione e dall’isolamento, qualunque opposizione che non muova da un’ostilità apertamente inconciliabile contro il modo di vita industriale sarà soltanto un contributo al Capitale per tenersi aggiornato. La presunta autonomia di una società civile che dovrebbe controllare le scelte dei potenti, garantire una maggiore democrazia, imporre regole, controlli, precauzioni, è l’ultima menzogna ideologica costruita per legittimare democraticamente una sempre maggiore artificializzazione della vita. Nelle rivendicazioni di un commercio equo e solidale, di diritti globali e di cittadinanza, di uno sviluppo sostenibile, di una redistribuzione della “ricchezza” mercantile, si palesa quella assenza di autonomia che costituisce il limite più grave di un movimento che, anche nelle sue manifestazioni più violente, non va oltre il fatto di rimproverare allo Stato e al Capitale di essere poco democratici e poco attenti ai bisogni umani.

Ma per quanto infestato da ideologie “riformiste” e “progressiste”, il movimento di contestazione in atto apre alla possibilità di una ripresa del “discorso” rivoluzionario, perché le “questioni” poste, al contrario - per ora - delle “risposte” date, sono oggettivamente universali.

La contraddizione, endemica della società capitalista, è sempre la stessa, ancora irrisolta, della alienazione degli uomini dalla propria produzione. È questa la prima vera nocività, quella che presuppone e determina tutte le altre. Non ha senso denunciare le singole nocività prodotte dal capitalismo se non si denuncia la loro causa storica: la separazione degli uomini dalla propria attività creatrice, dunque dal proprio mondo e dalla propria specie. La democrazia è la forma Stato precipua di questa separazione, e la sua presunta neutralità, il fatto che sia un sistema ineluttabile e potenzialmente utilizzabile dai cittadini è una mistificazione già denunciata un secolo e mezzo fa da Marx e dalla critica rivoluzionaria. Un movimento che volesse affrontare seriamente l’ipotesi di cambiare la vita non può fare a meno di affermare con intransigenza la propria estraneità e inimicizia nei confronti della democrazia e di ogni ideologia “progressista”, riallacciandosi nel contempo con il progetto proletario di superamento della società di classe e con la “tradizione” luddista e anti-industriale.

Per incamminarsi sulla strada ancora inesplorata del controllo libero, cosciente e collettivo dei mezzi tecnici e delle forme organizzative che sanciscano la fine della preistoria e l’alba di una comunità di signori senza schiavi.

Porfido - Torino, luglio 2001