CON OGNI MEZZO NECESSARIO
dossier sulla nuova inquisizione
MONTATURA
Gli anarchici sono nemici dichiarati dello Stato e di tutte le concrete realizzazioni istituzionali che quest’ultimo si dà per controllare e reprimere. Questa dichiarazione di principio, pur nella sua astrattezza, è una delle caratteristiche essenziali dell’anarchismo e non è mai stata messa in dubbio.
Lo Stato sa benissimo che gli anarchici sono i suoi irriducibili nemici, coloro che, più o meno efficacemente, lo combatteranno fino alla fine.
Ma sa anche che proprio per questa posizione di totale e radicale inimicizia, gli anarchici non possono trovare alleati nella loro lotta contro lo Stato, se non nella partecipazione spontanea degli individui desiderosi di cambiare le condizioni di oppressione in cui viviamo tutti.
Lontani da ogni gioco di potere, diamantini nella loro cristallina purezza di idee, gli anarchici hanno costituito da sempre la spina nel fianco di ogni Stato, dal dispotico al democratico; da qui la particolare attenzione che gli organi di polizia di ogni genere hanno avuto nei loro confronti.
E poiché polizia e magistratura sanno bene che gli anarchici, anche se alieni dal cercare alleanze politiche, riescono lo stesso a riscuotere la simpatia di coloro che non si sono definitivamente venduti, eccoli con tutti i mezzi cercare di coinvolgere gli anarchici in azioni che spesso non possono essere opera loro, non tanto per motivi di fatto ma proprio per scelte di fondo, per motivazioni di principio.
Gli anarchici sono vicini a chi subisce l’oppressione spesso senza sapere come reagire, e questo lo sanno tutti. La loro vicinanza è qualche volta ideale, ma altre volte dà una mano all’attacco contro gli interessi dei dominatori. Il sabotaggio costituisce un esempio facile da seguire, specialmente quando è realizzato con mezzi semplici e quindi risulta alla portata di tutti. Ciò disturba.
Gli anarchici hanno occhi aguzzi per individuare i luoghi dove le realizzazioni del dominio diventano appena appena visibili, e qui colpiscono. Il loro modo di procedere è sempre facilmente riconoscibile perché diretto ad essere riprodotto nella maniera più ampia possibile. Non hanno la pretesa di individuare cuori sensibili dello Stato o di arrogar-si la competenza di colpirli. Ciò disturba.
Gli anarchici non accettano "sovvenzioni" e sostegni, per la loro lotta trovano da soli i propri mezzi. Di regola ricorrendo all’aiuto dei propri compagni, con sottoscrizioni o altro. Non amano prostituirsi. Per questo non hanno il sacro rispetto per la proprietà dei ricchi. Quando qualcuno di loro, a titolo personale, perché così ha deciso, bussa alla porta di qualche banca, se qualcosa va male è pronto a pagare le conseguenze. Vivere liberi ha i suoi costi. Ciò disturba.
Ma alcune cose non sono disposti a farle. Non sono disposti ad ammazzare la gente indiscri-minatamente, come fanno gli Stati nelle guerre ed anche nei periodi di cosiddetta "pace". Non accetterebbero mai la semplice idea di una strage indiscriminata di persone.
Allo stesso modo gli anarchici sono contro il potere, qualsiasi carcere, anche quello che i sequestratori infliggono ai sequestrati in attesa che si decidano a pagare le somme richieste per il riscatto. Chiudere a chiave un uomo è pratica avvilente.
Un’altra cosa che gli anarchici rifiutano è una struttura clandestina armata, dotata di organigramma, di regole di funzionamento, di progetti politici e tutto il resto. Quello che il linguaggio comune insiste nel definire "banda armata", è lontanissimo dall’idea che gli anarchici si fanno della propria contrapposizione allo Stato, contrapposizione che se qualche volta può anche essere violenta — e quindi armata — non sarà mai rigidamente fissata su canoni che risultano in definitiva mutuati dalla stessa struttura che si vuole combattere.
Tutte le montature che negli ultimi decenni sono state costruite contro gli anarchici hanno quindi seguito due direttrici: da un lato gli organi dello Stato hanno tenuto presente l’estrema pericolosità di un modello di vita e d’azione che se appena appena si generalizzasse o venisse conosciuto in maniera adeguata, potrebbe sconvolgere il presente assetto della società degli addormentati e dei consenzienti; dall’altro lato hanno cercato di indicare gli anarchici come responsabili di stragi, di sequestri, di banda armata: proprio quello che gli anarchici non possono decidere di fare.
Ma perché lo Stato cerca di "usare" gli anarchici? Perché con il loro modo di essere contrari ad ogni compromesso e ad ogni connivenza politica con gli attuali e con i futuri dominatori, si prestano benissimo ad essere utilizzati in questo senso. Chi troveranno che li difenderà? Chi sposerà la loro causa? Nessuna persona dabbene potrebbe farlo, ed è proprio per tenersi buone le persone dabbene che lo Stato controlla, ruba, massacra e tutto il resto.
Certo, lo Stato potrebbe accontentarsi di mettere in carcere gli anarchici semplicemente accusandoli di comportamento antisociale, di professare una dottrina pericolosa, di vilipendio degli organi istituzionali, di apologia di reati vari, di incitamento alla rivolta. Decine e decine, per non dire centinaia, di processi del genere sono stati celebrati e non ci sono mai state condanne serie: da qualche mese a qualche anno.
Ma gli anarchici disturbano la quiete dorata dei benpensanti, possono costituire la piccola fiamma che fa divampare l’incendio, e con i tempi che corrono occorre tenere pronta una strategia adeguata per metterli completamente fuori gioco.
Ecco venire alla luce un sig. Antonio Marini, sostituto procuratore in quel di Roma. Un signore dai denti aguzzi e dal cervello fertile nell’inventare storie. Ha alle spalle l’esperienza di processi come quelli per il caso Moro o per l’attentato al Papa, quindi non c’è persona più adatta di lui per la bisogna: mai e poi mai potrebbe capire come ragionano gli anarchici e di cosa — a termini di legge — essi sono costantemente responsabili.
Ecco quindi l’egregio Marini porsi sulla scia dei suoi illustri predecessori e costruire il proprio teorema: gli anarchici sono i responsabili di migliaia di azioni contro lo Stato e contro le sue propaggini economiche che negli ultimi anni si sono diffuse in tutto il territorio nazionale. Ora, poiché il teorema fa acqua, come si fa a dimostrare che pochi anarchici hanno buttato giù centinaia di tralicci o incendiato le filiali Standa del sig. Berlusconi? Non lo si può. Occorre quindi che li si ponga al centro di ben altre faccende, più grandi: stragi non ce ne sono a portata di mano (in futuro non si sa, vedremo!), ma ci sono i sequestri. Ecco quindi attribuire loro il fatto, davvero sconvolgente, di avere avuto mano in tutti i più importanti sequestri degli ultimi anni. Che importa se gli anarchici sono contro qualsiasi forma di prigionia: questo il buon Marini non lo sa. Posto il teorema, condito con il corollario della banda armata, si trova anche una giovane che sostiene di conoscerli, gli anarchici, di conoscerli bene, di avere persino fatto una rapina con alcuni di loro. Il resto verrà da sé. Andiamo signori, si parte per l’ennesima sceneggiata.
A suo tempo furono le bombe alla Fiera campionaria di Milano. Alcuni compagni anarchici di Milano vennero accusati di strage e tenuti in carcere per quasi un anno. Al processo tutto si sgonfiò. Montatura.
Poi la strage di piazza Fontana, con decine di morti. Gli anarchici responsabili. L’uccisione di Pinelli, buttato giù da una finestra della questura di Milano. Oggi la stessa magistratura, dopo un quarto di secolo, ha dovuto ammettere che a piazzare le bombe furono i servizi segreti dello Stato democratico italiano. Montatura.
Nel 1980 decine di arresti in tutta Italia di anarchici che vengono accusati di rapine, di banda armata e di insurrezione contro lo Stato. L’inchiesta non supera nemmeno la fase istruttoria. Montatura.
Dal 1984 al 1988 almeno quattro tentativi di coinvolgere gli anarchici nella faccenda dei tralicci dell’alta tensione tagliati un po’ dappertutto in Italia. Dai tanti processi celebrati nei diversi gradi dal primo alla cassazione nessuna condanna. Montatura.
Nel 1989 tentativo di costruire un’associazione sovversiva dopo l’arresto di alcuni compagni anarchici nel corso di un tentativo di rapina. L’azione giudi-ziaria abortisce. Montatura.
Nel 1991 clamorosa operazione diretta a coinvolgere un presunto gruppo "Anarchismo e provocazione" nel sequestro Silocchi. Il gruppo si rivela inesistente, mentre esistono da molto tempo sia una rivista che si chiama "Anarchismo" che un giornale che si chiama "Provocazione". Il tentativo di dare vita a questa mostruosa macchinazione abortisce. Montatura.
Nel 1994 perquisizione a Firenze della redazione del settimanale anarchico "Canenero" (negli stessi locali poco prima era stata rinvenuta una microspia) e consegna di 3 avvisi di garanzia ad altrettanti compagni per reati relativi agli attentati incendiari contro la Standa di Berlusconi. Anche in questo caso l’inchiesta non supera neanche la fase istruttoria. Montatura.
IL DISEGNO REPRESSIVO
ll 19 settembre 1994 venivano arrestati cinque anarchici (Eva Tziutzia, Christos Stratigopulos, Jean Weir, Antonio Budini e Carlo Tesseri) per una rapina ai danni della Cassa Rurale di Serravalle, in provincia di Trento. A conclusione del processo di primo grado, tenutosi a Rovereto il 30 settembre, Eva veniva assolta, Carlo condannato a 6 anni di reclusione perché recidivo e gli altri compagni a 5 anni (da notare che i quattro anarchici condannati avevano ammesso di aver compiuto la rapina, e di averlo fatto per necessità personale). La sentenza del processo d’appello, tenutosi l’1 giugno 1995 a Trento, aveva poi ridotto la pena ai quattro anarchici (3 anni e 4 mesi a Jean, Antonio e Christos; 4 anni a Carlo), ma aveva condannato anche Eva, assolta in primo grado, a 3 anni e 4 mesi. Infine l’11 dicembre la Cassazione ha suggellato definitivamente la sentenza.
Per tutta la durata delle prime due udienze numerosi anarchici hanno inteso mostrare la propria solidarietà attraverso iniziative di vario genere: volantini, manifesti, diffusione di un dossier, presenza costante ai processi, concerti, serate organizzate per raccogliere fondi, lancio di fumogeni e petardi sotto il carcere di Trento. Ma anche l’apparato repressivo non è stato a guardare: in seguito all’iniziativa sotto il carcere sono stati denunciati 28 anarchici e sono stati dati 8 fogli di via più qualche diffida, le perquisizioni domiciliari e le intimidazioni si sono succedute con regolarità, senza contare le continue provocazioni mafiose corredate di taglio dei copertoni delle auto lasciate incustodite nella zona dai compagni.
Il fastidio provato dall’autorità costituita doveva essere considerevole, e non si è accontentata di quelle condanne. Così, il 19 aprile 1995, il giudice per le indagini preliminari Carlo Ancona ha deciso di accusare i quattro anarchici di altre due rapine avvenute contemporaneamente il 20 luglio 1994 in due banche adiacenti a Ravina di Trento, rapine rimaste irrisolte. Quindi ha proposto loro di accettare una condanna immediata della cui entità i compagni si sono rifiutati perfino di conoscere la consistenza. Di fronte alla ferma risposta dei compagni, il giudice ha stabilito il rinvio a giudizio e ha fissato la prima udienza processuale per il 13 ottobre 1995 presso il tribunale di Trento.
Fin dal primo appuntamento a Trento la presenza degli anarchici fra il pubblico è consistente, una presenza solidale quasi muta, discreta, ma ferma nella sua intenzione di non far passare quella montatura annunciata.
La Corte è formata dai giudici Battista Palestra, Marco La Ganga e Francesco Forlenza. Il pubblico ministero si chiama Bruno Giardina.
Gli appuntamenti dibattimentali, all’inizio quasi noiosi, vengono rinviati nel tempo in maniera oltremodo curiosa. Quei giudici saranno davvero pieni di lavoro — ci diciamo. Così il 13 ottobre viene fissata una nuova udienza per il 14 novembre, poi per il 12 dicembre, infine per il 9 gennaio.
Ma, nel frattempo, accade qualcosa.
Il 16 novembre scatta una vasta operazione repressiva in tutta Italia e nelle isole: all’alba i Raggruppamenti Operativi Speciali dei Carabinieri — su ordine del sostituto procuratore della repubblica Antonio Marini — perquisiscono le abitazioni di alcune decine di anarchici notificando avvisi di garanzia che informano di indagini in corso relative a reati di particolare gravità ("associazione sovversiva", "banda armata", "attentati ad impianti di pubblica utilità", "concorso in rapina", "detenzione di armi ed esplosivi", e per qualcuno anche "concorso in omicidio"). Il giorno successivo vengono perquisiti e raggiunti dai medesimi avvisi di garanzia anche gli anarchici detenuti per questa e per altre vicende giudiziarie. Fra questi ci sono alcuni compagni già condannati per "sequestro di persona" — compagni che hanno sempre proclamato la propria estraneità ai fatti di cui sono stati accusati, insistendo sull’assurda montatura ordita ai loro danni.
Immediata è la mobilitazione degli anarchici, che lo stesso giorno delle perquisizioni diffondono volantini e affiggono manifestini in alcune città per denunciare quanto sta accadendo, senza peraltro possedere ancora un’adeguata cognizione della portata di quell’operazione poliziesca.
Viene quasi subito stampato un manifesto nazionale dedicato all’artefice di questo progetto repressivo, Antonio Marini, ed è proprio questo manifesto a destare l’attenzione dei giornalisti i quali, chiedendo chiarimenti in merito, costringono la Procura di Roma ad emettere un comunicato: il 3 gennaio 1996 su quasi tutti i quotidiani nazionali compaiono articoli che descrivono gli anarchici indagati come sequestratori, sciorinando con la consueta disinvoltura una serie di menzogne, tutte giustificate dall’esistenza di una misteriosa "pentita".
Il 9 gennaio riprende il processo a Trento. A conclusione dell’udienza il pubblico ministero Bruno Giardina annuncia gongolante la novità: Mojdeh Namsetchi, l’ex ragazza di Carlo Tesseri, da alcuni mesi sta collaborando con la procura di Roma e con quella di Trento, ma per ragioni di sicurezza il suo interrogatorio dovrà essere effettuato a distanza. Così l’udienza viene aggiornata al 16 gennaio per approntare gli strumenti necessari.
Il 16 gennaio l’aula è stracolma di anarchici, l’aria è pregna di tensione e tutto è pronto per dare inizio alla farsa. Comincia l’interrogatorio e — sorpresa! — la collaborante dichiara di aver compiuto la rapina insieme agli anarchici imputati.
Le domande (che all’inizio, vergognosamente suggerite dal pm, richiedono soltanto un sì o un no) incalzano e alla fine dell’interrogatorio costei riesce a coinvolgere altri tre anarchici: Guido Mantelli, Roberta Nano ed Emma Sassosi — i primi due come partecipanti alla rapina e l’ultima per aver fornito le indicazioni necessarie per compierla. A domanda risponde di non aver mai condiviso l’ideologia (!) anarchica e di aver commesso la rapina "per amore". Quando Giardina le chiede quando è cominciata l’opera di "proselitismo" del Tesseri, rimane interdetta: certo è comprensibile che non conosca il significato di quel parolone, meno comprensibile è leggerlo ben due volte nella trascrizione delle risposte da lei rese nel corso di un interrogatorio effettuato il 2 novembre dai pubblici ministeri Antonio Marini e Bruno Giardina.
Così sicura nel fare nomi e cognomi, tuttavia non ricorda nulla, ma proprio nulla, di quanto è successo durante la rapina. Non sa cosa abbia fatto all’interno della banca. Non sa come fosse vestita. Non ricorda neppure se abbia inciampato, se per caso le sia caduta la pistola e se nella concitazione abbia fatto partire un colpo. Colpa della forte tensione emotiva — insiste spudorata — giacché si trattava della prima e ultima "azione armata" cui abbia mai partecipato. Ricorda però che sono entrati in 3 in una banca e in 2 nell’altra. Ricorda che i due complici entrati con lei indossavano tute da lavoro (anche se i due uomini ripresi dalle telecamere appaiono vestiti elegantemente). Ricorda che la sua arma era "piccola e scura" e che sono arrivati tutti in treno, poi a piedi si sono recati sul posto... anzi no, prima si sono ammucchiati in 6 in un’automobile di piccola cilindrata — strana decisione per chi ha bisogno di passare inosservato — e l’ultimo tratto di strada l’avrebbero fatto a piedi. A rapine ultimate, sono fuggiti sempre in 6 con l’auto... tutti tranne una, una complice che lei non ha visto quando è arrivata, ma che sa che è rimasta fuori e della quale tuttavia non conosce il mezzo di fuga.
Di fronte a questi inspiegabili "vuoti di memoria", a queste contraddizioni macroscopiche, quale conclu-sione si potrebbe trarre, se non che si tratta di una falsa testimonianza resa da una pentita altrettanto falsa? È la cosa più ovvia, così come sarebbe ovvio confidare che nessun uomo dotato di buon senso potrebbe mai prendere per buone quel mucchio di bugie, figurarsi un "giudice delle azioni altrui". Eppure. Eppure c’è una sensazione strana.
Quando il giudice che presiede ha chiesto agli avvocati difensori di procedere con le arringhe quello stesso giorno, in modo da concludere nel giro di qualche ora il processo, sentenza compresa (e solo dopo l’insistenza di un avvocato difensore il presidente si è trovato costretto ad aggiornare l’udienza); quando la boria del pubblico ministero Bruno Giardina è apparsa raddoppiata, laddove avrebbe dovuto essersi addirittura sgonfiata; quando abbiamo letto sui giornali locali l’interrogatorio appositamente "sistemato" per sembrare veritiero; quando, infine, abbiamo avuto consapevolezza delle immense possibilità che una "pentita" costruita in tal fatta può offrire a un magistrato con pochi scrupoli e con intenzioni non troppo benevole — allora abbiamo capito. Abbiamo capito per quale ragione questa ragazza — che ha cessato di andare a trovare il suo convivente dopo un ultimo colloquio avvenuto il 31 dicembre 1994, che da diversi mesi è stata assunta da un magistrato grazie all’amicizia che ormai la lega con un maresciallo che è riuscito ad avvicinarla nel locale notturno dove lei lavorava come entraîneuse, che anarchica non è mai stata, che era alla ricerca disperata di denaro per vivere — si sia prestata accusandosi di un reato che non ha mai commesso.
Non che Marini non ci abbia provato, da circa un anno a questa parte, a trovare ulteriori elementi che potessero avvalorare la sua teoria repressiva, avendo già fatto diverse profferte ad alcuni compagni per ottenere una loro collaborazione. Alla fine, scontrandosi con associazioni impossibili da collocare secondo i suoi schemi mentali, con vocaboli a lui poco familiari — quali possono essere individualità, informalità, affinità — si è visto costretto a ricorrere ad uno stratagemma, suggerendolo al suo collega Giardina con meno esperienza e ancor meno da perdere. Ecco come, dopo mesi e mesi di inutili tentativi, il 2 novembre decidono di procedere all’interrogatorio che verrà trascritto e portato in aula come prova.
E improvvisamente tutti hanno fretta di concludere, hanno fretta di pronunciare una sentenza di già stabilita, hanno fretta di farla finita con chi rifiuta il dialogo e si mostra incorreggibile. Costi quel che costi, è la ragion di Stato che deve vincere.
Al di là di tutto, vi invitiamo a riflettere su alcune questioni. Come mai una ragazza che dichiara di aver compiuto un’unica "azione armata" e che decide di collaborare prima dell’estate, non si è liberata subito la coscienza di questo suo fardello, ma ha atteso fino ai primi di novembre per confidare al magistrato interessato quanto sa su queste rapine? Perché questa "pentita" non è comparsa fin dalla prima udienza? Perché Marini se l’è tenuta nascosta per tutto questo tempo? E dato che di quell’unico fatto specifico in cui afferma di essere coinvolta ha parlato in novembre, nei mesi precedenti di cosa ha parlato? Per quale altra grottesca "rivelazione" è stata addestrata?
Anche i più ostinati struzzi democratici in questa circostanza avranno parecchie difficoltà a ficcare la testa sotto la sabbia. Siamo di fronte a una delle più incredibili montature giudiziarie che siano mai state organizzate negli ultimi anni.
Ma noi, a recitare la parte delle vittime, non ci stiamo.
Lo dimostrano anche le numerose manifestazioni, di denuncia di questo disegno repressivo e di solidarietà con gli anarchici detenuti, che sono state messe in piazza da quando è cominciata questa vicenda, fra le quali ricordiamo il numero speciale di Canenero uscito nel mese di dicembre 1995 — dedicato a questi fatti repressivi e agli avvenimenti che in Grecia hanno coinvolto un buon numero di compagni — e l’iniziativa itinerante di una mostra di strumenti di tortura dal medioevo ad oggi intitolata "Dalla santa alla democratica Inquisizione". Questa mostra, partita da Verona il 16 dicembre, ha toccato alcune città italiane fino alla fine di febbraio e nel corso di queste date è stato diffuso diverso materiale e sono stati fatti pubblici interventi.
Intanto il 31 gennaio a Trento si è tenuta l’ultima udienza del processo contro gli anarchici già detenuti per rapina. Il tribunale, presidiato dalle forze dell’ordine, è stato invaso da oltre una settantina di compagni giunti da tutta Italia per dimostrare la propria solidarietà agli imputati. La cosa ovviamente non è stata gradita dalle autorità, che avrebbero preferito si facesse meno chiasso attorno a quel processo ("dopo tutto si tratta di un semplice processo per rapina", li abbiamo sentiti affermare con insistenza): così, col pretesto che "si era in troppi", il capo della squadra mobile di Trento ordinava una carica e i guardiani in divisa si lanciavano all’inseguimento degli anarchici nei corridoi del tribunale e poi in strada, provocando alcuni feriti (il giorno seguente un giornale locale intitolerà "Sventato dalla polizia l’assalto al tribunale"). All’interno dell’aula, dopo la delirante arringa del pubblico ministero Giardina che esaltava la "limpida" deposizione della superteste, i tre avvocati difensori ne smontavano una per una tutte le farneticazioni, evidenziando la natura politica di quel processo. Non più semplice processo per due rapine, ma passo indispensabile per permettere agli inquirenti di mettere sotto inchiesta e possibilmente processare e condannare decine e decine di anarchici scomodi.
Dopo due ore di camera di consiglio, alle 10 di sera la Corte usciva col verdetto. L’ottimismo di alcuni compagni, increduli fino alla fine che una simile mostruosità si potesse consumare, svaniva prima ancora che il presidente iniziasse a parlare, vedendo gli uomini della celere — nel frattempo arrivati in forze — indossare i caschi e imbracciare i manganelli. Il tribunale di Trento, avallando le affermazioni della "pentita", condannava Jean Weir, Antonio Budini e Christos Stratigopulos a 6 anni e mezzo, e Carlo Tesseri a 7 anni di reclusione. Un applauso sarcastico accoglieva la grottesca sentenza.
Adesso sì, adesso Mojdeh Namsetchi è diventata una collaboratrice di giustizia a tutti gli effetti. Le sue parole sono state ritenute credibili da un tribunale della repubblica italiana. Da questo momento in poi ogni sua "rivelazione" potrà far finire in carcere qualsiasi anarchico, a discrezione degli inquirenti.
Da parte nostra, invece di nasconderci sperando nella benevolenza dell’autorità, siamo determinati a dare battaglia. Non solo la mostra itinerante è proseguita fino alla fine di febbraio, ma molte altre iniziative sono in cantiere per denunciare apertamente l’operato degli inquirenti.
Questo dossier, uscito in un migliaio di copie prima del termine del processo di Trento, viene ora ristampato, aggiornato, con un’alta tiratura (25.000 copie) e avrà una distribuzione più ampia possibile. Un dossier simile dovrebbe uscire anche in inglese e diffuso all’estero. Già in Grecia è stato organizzato un presidio davanti al consolato italiano di Atene, mentre in Germania il Soccorso Rosso ha messo a disposizione un proprio conto corrente per raccogliere fondi. Sul settimanale "Interim", il più diffuso nel movimento tedesco, verrà pubblicato un resoconto di questi avvenimenti e numerosi compagni hanno dimostrato il loro più vivo interesse per questa incredibile vicenda. Preoccupati che qualsiasi magistrato senza troppi scrupoli in altre parti d’Europa potrebbe prendere esempio da questa per eliminare le voci troppo scomode, alcuni compagni tedeschi hanno preso contatto con avvocati di chiara fama per farli partecipare in qualità di osservatori nei futuri processi che sicuramente si terranno. Non solo al processo di appello, ma anche al processo stralcio che sicuramente faranno contro i compagni nominati dalla "pentita".
Come si vede, se lo scopo degli inquirenti era quello di chiuderci la bocca, si sono sbagliati in pieno.
Dal verbale di udienza del tribunale di Trento, 16 gennaio 1996.
Stralci tratti dall’interrogatorio di Mojdeh Namsetchi.
Prima della rapina
"Lei è partita il giorno prima da Roma, il giorno prima della rapina, era partita da Roma per Milano?" - "Sì, mi sembra di sì"
"A Milano ha pernottato una o più notti?" - "Una"
"Quando è partita il giorno prima da Roma?" - "Di sera"
"Intorno a che ora?" - "Non ricordo"
"Non può fare uno sforzo?" - "No, non ricordo"
"Ricorda a che ora è arrivata a Milano?" - "Mi sembra di notte"
"Ne è sicura?" - "No, mi sembra"
"È partita intorno alle ore 20.00 da Roma, possiamo ipotizzare?" - "Forse, non ne sono sicura"
"Lo possiamo ipotizzare?" - "Tutto possiamo ipotizzare..."
"Quando dice di avere pernottato una notte a Milano, può essere già la notte di un arrivo tardi, o no?" - "Purtroppo non ricordo molto bene"
"Avete raggiunto l’obiettivo in treno?" - "Si"
"Dove si è fermato il treno?" - "Non conosco bene il posto"
"Era una Stazione grande o piccola?" - "Piccola"
"Prima di Trento o dopo?" - "Non glielo so dire"
"Comunque è scesa in una stazione che non è Trento? Poteva essere Rovereto?" - "*Forse"
**Durante la rapina***
"Quando è entrata in Banca che attività ha svolto?" - "Non ricordo bene"
"Lei ricorda come era vestita?" - "Più o meno sì"
"Ce lo vuole descrivere?" - "Avevo dei pantaloni e un berretto, ma non ricordo molto bene"
"Gli altri componenti come erano vestitti, perlomeno quelli che hanno partecipato alla rapina presso la Banca in cui ha operato lei, lo ricorda?" - "Sì, avevano delle tute da lavoro" (ndc, le immagini riprese dalle telecamere mostrano un individuo con giacca e cravatta, l’altro con cravatta e cappotto)
"Ha preso il denaro?" - "Non ricordo"
"Che cosa è stato fatto con il denaro?" - "Quale?"
"Ha indossato guanti?" - "Non so dirlo, non mi ricordo"
"Lei dice di essere stata in possesso di una pistola?" - "Sì"
"Ne ricorda il colore?" - "Scuro"
"Cosa intende per scuro? Grigio, nero?" - "Non ricordo precisamente, comunque era un colore scuro"
"A quanti colpi, lo ricorda?" - "No"
"Dove la teneva?" - "Nella cinta dei pantaloni, mi sembra"
"Di come si è mossa all’interno della Banca, lei non ricorda proprio nulla?" - "No"
"Lei è entrata per prima, per seconda o per terza?" - "Non ricordo"
"Era a volto scoperto o no?" - "Sì, mi sembra a volto scoperto"
"Come si chiama la Banca?" - "Non ricordo"
"Non ricorda il nome della Banca che lei assume di avere rapinato?" - "No"
"Può descrivere appena questo edificio?" - "No"
"È ad un piano o due piani?" - "No"
"Non ricorda neanche l’edificio?" - "Era un edificio basso, ma non ricordo molto bene"
"Lei era armata?" - "Sì"
"Aveva mai usato armi da fuoco?" - "Tesseri in passato, prima della rapina, mi ha insegnato ad usare delle armi"
"Ricorda se ha passato la pistola a qualche complice durante la rapina o se l’ha tenuta sempre lei?" - "Non ricordo"
"Non le sembra che la situazione di partecipare a una rapina debba restare nella memoria?" - "No, perché al momento della rapina ero spaventata, era una situazione nuova"
"Durante la rapina a lei cadde la pistola?" - "Non ricordo bene"
Durante la rapina lei inciampò?" - "Non ricordo bene. Ero molto agitata, era la prima volta che tenevo un’arma"
"Le partì un colpo della pistola?" - "Non ricordo bene"
"Ricorda se indossava scarpe di gomma?" - "Può darsi. Può darsi di sì, ma può darsi di no"
"Sa quale è stato in concreto il ruolo della persona che è rimasta all’esterno della Banca?" - "Si trovava fuori dalla Banca con una radio sintonizzata sulle frequenze della Polizia e dei Carabinieri. Doveva controllare che la situazione sia tranquilla"
"Si è allontanata insieme a voi?" - "No"
"È rimasta lì sul posto?" - "Non so come sia andata via"
"L’avete vista che era fuori?" - "Sì. Sapevamo che c’era"
"L’avete vista, arrivando sul posto?" - "Si, mi sembra di sì"
"Lei sapeva che ci sarebbe stata?" - "Sapevo che c’era, personalmente non l’ho vista"
Dopo la rapina
"Quando siete usciti dalla banca vi siete infilati tutti nella stessa macchina?" - "Sì"
"Cioé in quanti?" - "Eravamo in sei"
"Come vi siete posizionati nella autovettura?" - "Quattro dietro e due davanti"
"Chi ha tenuto le armi?" - "Non ricordo"
"La macchina con la quale lei dice di essere fuggita dalla Banca, quale tipo di marca era?" - "Credo una Fiat Uno, mi sembra di ricordare"
"Il colore lo ricorda?" - "Era chiaro" (ndc, i testimoni affermano che l’automobile era rossa)
Il pentimento
"L’idea di parlare di quello che era successo si è concretizzata su sollecitazione di qualcuno o spontaneamente?" - "Spontaneamente"
"A chi ne ha parlato per la prima volta?" - "Al maresciallo Farino"
"Come ha avuto modo di conoscere questo maresciallo?" - "L’ho conosciuto nel posto dove lavoravo" (night club)
"Questo maresciallo, in questo posto, era per qualche motivo attinente a questa indagine o comunque a qualche indagine su questo gruppo anarchico?" - "No, era lì per motivi di lavoro, altri motivi"
"Era della buoncostume il maresciallo Farino?" - "No, era lì per altri motivi"
"Vorrei saperli" - "Non posso saperlo"
"Come l’ha conosciuto? Come si è presentato?" - "Era lì per lavoro, quindi non si è presentato"
"Come ha fatto a capire che era maresciallo?" - "In seguito me l’ha detto"
"Quando?" - "Dopo un po’ di giorni"
"Ha avuto una certa parte il maresciallo Farino quando si è rivelato come funzionario pubblico? Ha avuto una certa influenza su di lei per prendere le sue decisioni? L’ha aiutata, l’ha presentata al giudice?" - "Sì, mi ha presentata al giudice, ma è stata una mia scelta"
"La relazione giuridica con il maresciallo Farino si è fermata lì o in seguito l’ha seguita e consigliata?" - "Sì, mi ha seguita"
"Che garanzie le sono state date per essere venuta oggi a deporre?" - "Cosa intende?"
"Cambio di abitazione, cambio di connotati, stipendio mensile, cose di questa natura." - "Preferisco non rispondere"
FIGURE E FIGURI
ANTONIO MARINI
Magistrato romano, pubblico ministero in molti processi contro le Brigate Rosse, ha costruito la propria carriera sui così detti “processi politici” di cui è diventato un esperto. Ovunque posa gli occhi vede organizzazioni para-militari e militanti clandestini. Avendo esaurito gruppi e gruppu-scoli della estrema sinistra rivoluzionaria da reprimere e ormai sul punto di spremere le ultime gocce dal quinto processo Moro, si è trovato in una situazione di stallo: a un passo dalla pensione e senza alcuna prospettiva di lavoro, poiché come ogni persona dall’intelligenza poco elastica Marini, fuori dell’àmbito “politico”, è capace di fare niente.
Dal 1989 Marini è titolare dell’inchiesta, voluta da Sandro Pertini, sui 120 italiani “desapa-recidos” in Argentina durante la dittatura. Dopo sette anni di indagini e numerosi elementi raccolti contro generali e uomini dell’esercito, di recente ne ha chiesto l’archiviazione, forse per non importunare i buoni rapporti commerciali tra la Fiat e il governo argentino. La sua decisione è stata contestata dagli avvocati di parte civile, che stanno vagliando l’ipotesi di rivolgersi al Consiglio superiore della magistratura e che hanno accusato Marini di “macro-scopiche e censurabili carenze investigative”. Non sono comprensivi questi avvocati nei suoi confronti. Non si rendono conto che per prendersela con un governo straniero e con la più grande industria nazionale ci vuole una persona di qualità. Un giudice che ami la verità, e che non ricorra a false testimonianze; un giudice che abbia coraggio, e che non mandi allo sbaraglio i suoi colleghi più giovani e inesperti; un giudice che sia determinato, e che non sia servile nei confronti del potere.
Insomma, l’esatto contrario di Antonio Marini il quale, pur di concludere in bellezza la propria carriera, si è inventato una inchiesta contro decine e decine di anarchici, istruendo a dovere una ragazzina che recitasse il ruolo di “pentita” per giustificare il suo operato e servendosi di un magistrato trentino che lo avallasse nella squallida operazione.
Per la cronaca, in una recente intervista televisiva concessa alla trasmissione Format, Marini ha riconosciuto l’importanza e la validità dei “veggenti” in qualità di collaboratori della giustizia. Come a dire che dove la giustizia non riesce ad arrivare, ben venga la fantasia.
Ma questo, è davvero un uomo?
BRUNO GIARDINA
Magistrato di Trento, giovane e veste casual, ricopre il ruolo di pubblico ministero nel processo contro quattro anarchici imputati di rapina che terminerà a fine gennaio. Eccessivamente ambizioso, dopo alcune udienze si è reso conto che le “prove” in suo possesso non erano sufficienti per ottenere una condanna: un paio di riprese fotografiche incomprensibili, qualche mezzo riconoscimento.
Ad accorrere in suo aiuto è il suo collega di Roma, Antonio Marini, che gli offre su un vassoio d’argento la prova tanto agognata: una “pentita” che ammette di aver partecipato alla rapina e disposta a inchiodare gli imputati. Ai primi di novembre Giardina si reca a Roma ed interroga la “pentita” assieme a Marini. Stabilite le clausole, l’affare viene fatto. Giardina si assume il rischio di utilizzare per primo la falsa “pentita” al fine di vincere la causa. Marini gliela presta perché la sperimenti, in modo da poterla utilizzare successivamente senza correre il rischio di magre figure.
Il 16 gennaio Giardina procede all’interrogatorio della teste di fronte alla Corte. Consapevole della delicatezza della circostanza, comincia formulando, non le domande, ma le risposte di cui chiede solo conferma: “È vero che il tale giorno lei ha fatto la tale cosa?”. Il trucco è palese, quasi infantile, e dura pochi secondi. Costretto dagli avvocati della difesa, passa alle domande di- rette, cercando di non uscire dal copione prestabilito.
Alla fine, sicuro dell’appoggio della Corte e della stampa, si lancia nell’elogio sperticato di una deposizione che farebbe inorridire il più cieco e sordo dei garantisti. Giardina no, lui sorride trionfante. L’infamia è fatta, basta solo aspettare la sentenza di colpe-volezza del 31 gennaio.
MOJDEH NAMSETCHI
Ventunenne di origini iraniane ma residente a Roma, è la falsa “pentita”. Dopo un’adolescenza un po’ turbolenta, incontra un anarchico e se ne innamora. Inizia un rapporto che durerà alcuni anni e che sicuramente non deve essere stato per lei facile, in quanto il suo ragazzo passerà quasi due anni in prigione per poi ritornarvi nel settembre del 1994. E a lei, che anarchica non è, la cosa deve essere pesata parecchio. Ad ogni modo, dopo pochi mesi dall’arresto del suo ragazzo cessa di andare a trovarlo in carcere, troncando ogni rapporto. Una ragazza giovane e belloccia come lei merita di meglio. In attesa del principe azzurro per sopravvivere fa l’entraîneuse in un night-club nei pressi di Roma, lavoro di pochi guadagni e nessuna soddisfazione. Un giorno entra nel suo locale il maresciallo dei carabinieri Farino, capitato lì “per caso”, con cui allaccia un’amicizia. Cosa sia avvenuto in seguito non ci è dato di sapere nei particolari.
Sta di fatto che la signorina Namsetchi si deve essere resa conto che è meglio guadagnare un somma considerevole bene-ficiando dello status di “collaboratrice di giustizia”, piuttosto che continuare a farsi toccare il culo dalla fauna notturna che affolla i night-club del litorale romano. Inizia così a “collaborare” con il pm Antonio Marini, il quale è talmente consapevole delle menzogne su cui si basa la sua indagine che si guarda bene inizialmente dal procedere con gli arresti.
Come abbiamo già detto, il debutto pubblico della signorina Namsetchi avviene a Trento, dove la ragazza, vestita in modo castigato, fornisce in tribunale una esilarante ricostruzione della rapina a cui giura di aver partecipato. Non sa in quale stazione ferroviaria è scesa, non ricorda cosa sia avvenuto durante la rapina, sbaglia tutti i tempi, non ricorda l’ammontare della somma, afferma che aveva un’arma “piccola e scura alla cintola”, sostiene di essere fuggita coi propri complici accalcandosi in sei in una sola auto, e comunque coinvolge il suo ex ragazzo e i suoi amici e fa anche i nomi di altri anarchici, accusandoli di aver partecipato all’organizzazione e al compimento della rapina. Quando non ha la risposta pronta opta per un diplomatico “non ricordo”, che risuonerà in maniera ossessiva per tutto l’interrogatorio. Per ben due volte scivola su domande inerenti al denaro, forse confondendo il denaro che afferma di aver rapinato con quello che le è stato promesso per i suoi servigi.
A dire il vero la sua prima apparizione in pubblico non è stata particolarmente brillante, ma non a caso per il suo esordio è stato scelto il modesto palcoscenico del tribunale di Trento, il cui pubblico è di bocca buona e senza troppe pretese. A quando le luci della ribalta sotto la regia del suo pigmalione Antonio Marini?
PIERLUIGI VIGNA
Procuratore capo della repubblica di Firenze. Forse molti si domanderanno cosa c’entri costui in questa vicenda che sembrerebbe dipanarsi tra Roma e Trento. Eppure Vigna c’entra dappertutto. Sempre pronto a estendere il proprio impero, è convinto di essere il Napoleone della giustizia. Megalomane cronico, ficca il naso dovunque, in tutte le indagini in corso della magistratura sull’intero territorio nazionale — arrivando persino in Giappone. Per gli anarchici inoltre ha sempre nutrito una passione particolare: spedirli in galera rappresenta per lui una sorta di orgasmo.
In effetti diversi quotidiani hanno scritto che l’indagine condotta a Roma da Marini è in realtà partita da Firenze, quindi dal solito Vigna. Il quale Vigna è indubbiamente un’istituzione, e non solo a Firenze. Tuttavia non è personaggio amato e rispettato. Per niente, in realtà è circondato da odio e paura: le sole cose che ha seminato nella sua lunga carriera di inquisitore. Chi esercita il mestiere di sequestratore per conto dello Stato non può pretendere di essere amato, soprattutto se nel farlo ci mette un accanimento tale da superare di gran lunga gli obblighi imposti “dal proprio dovere”. E Vigna si sente realizzato solo quando veste i panni del boia. Il suo furore persecutorio è rinomato: quando azzanna una preda non molla più la presa.
Come non bastasse, è anche vanitoso e detesta perdere. Quanto gli sta accadendo in questi giorni è significativo. Lui, che ha finora spedito al fresco estremisti “rossi” e “neri”, anarchici, pastori sardi, malavitosi, mafiosi, malca-pitati qualsiasi, non poteva certo tollerare di non essere riuscito ad acciuffare il Mostro di Firenze. Proprio lì, nel suo territorio, un assassino in libertà: impossibile. Così ha sbattuto in galera un poveraccio adatto alla bisogna, senza nemmeno preoccuparsi di trovare le famose prove. Poi quando un suo sottoposto ha mandato il disgraziato assolto in appello, è andato su tutte le furie. Ed eccolo tirare fuori nuovi supertestimoni, pronti a confermare ciò che lui ha deciso da tempo. Chissà come se la caverà con quel poliziotto, vicequestore a Milano, che è stato assolto dopo essere stato arrestato e incarcerato per alcuni mesi su ordine della procura fiorentina, in possesso dell’ennesimo pentito in vena di fantasie. Come si vede, Vigna non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai suoi scagnozzi che — si mormora — gli augurano alle spalle le peggiori cose.
Dimenticavamo di dire che nel tempo libero Pierluigi Vigna va a caccia di animali. Tanto per tenersi sempre in forma.
LA STAMPA
Chi sono i responsabili di una montatura giudiziaria? La risposta appare fin troppo semplice: la magistratura e le forze dell’ordine.
Ma se è senz’altro vero che proprio negli uffici delle Procure e delle Questure si mettono a punto tutti gli elementi che costituiscono una montatura poliziesca, è anche vero che difficilmente l’attuazione di simili progetti sarebbe possibile senza il contributo della stampa e dei grandi organi di informazione. Laddove l’operato degli inquirenti non ha minimamente il pretesto dell’applicazione del codice penale ma consiste nel puro arbitrio, è alla stampa che si affida il compito di giustificare e sostenere un simile comportamento. E più il sopruso è grande, più forte i giornalisti devono strillare al fine di nasconderlo.
È quanto è avvenuto anche in questa occasione.
Che l’abbia fatto pressata dalla curiosità suscitata dal manifesto nazionale diffuso da molti anarchici, o che l’abbia fatto con l’intenzione esplicita di prepararsi il terreno, rimane il fatto che all’inizio dell’anno la Procura di Roma ha emesso un comunicato in cui si fornivano informazioni sull’inchiesta aperta nei confronti di decine e decine di anarchici, e che si avvarrebbe della preziosa collaborazione di una giovanissima "pentita".
Mercoledì 3 gennaio la canea giornalistica si scatenava. Su quasi tutti i quotidiani apparivano articoli in cui veniva dato grande risalto al coin-volgimento degli anarchici indagati con alcuni sequestri di persona avvenuti in Italia negli ultimi anni. E si parlava di rapine effettuate allo scopo di finanziare un fantomatico gruppo anarchico, responsabile inoltre di attentati dinamitardi. Membri di questo gruppo sarebbero anche gli anarchici attualmente detenuti, chi perché condannato per sequestro di persona, chi perché condannato per rapina. Il ragionamento era elementare: poiché questi anarchici sono stati condannati per dei fatti specifici, è facile ipotizzare che abbiano commesso altri fatti dello stesso genere e che fra di loro intercorra un legame preciso, e cioè l’appartenenza a una organizzazione i cui altri "militanti" sarebbero gli anarchici che manifestano solidarietà nei loro confronti.
Inutile dire che tutto ciò è soltanto un mucchio di menzogne, un parto della mediocre fantasia di un pubblico ministero che, pur di concludere trionfalmente la sua carriera, non sta esitando a ricorrere ai mezzi più infami, come la costruzione di una falsa pentita. Ora, esaminare uno per uno gli articoli apparsi il 3 gennaio richiederebbe troppo tempo e spazio, ed inoltre ci ripeteremmo poiché tutti riportano i dati contenuti nel comunicato della Procura romana. Eppure alcune considerazioni vanno comunque fatte dove più palesemente emergono contraddizioni e menzogne.
Prendiamo per esempio l’accusa su cui maggiormente i giornali hanno calcato la mano, quella dei sequestri di persona. È un dato di fatto che in nessun avviso di garanzia notificato agli anarchici compare l’imputazione di "sequestro". Perché dunque una simile accusa? Naturalmente perché quando si parla di sequestri di persona, la mente si riempie subito di immagini strazianti: sofferenze patite dai prigionieri per mesi e mesi, bambini strappati alla loro infanzia, orecchie mozzate come mezzo di persuasione, cadaveri dati in pasto ai maiali, e via dicendo. Di fronte ai sequestri di persona, la condanna morale è unanime e senza appello. Chi oserebbe mai difendere individui simili? Nessuno — così come nessuno osava prendere le difese degli anarchici nei giorni successivi alla strage di Piazza Fontana — ed è proprio per questo che se ne è fatto tutto questo gran parlare. Certamente sono passati i tempi in cui gli anarchici venivano definiti "mostri", come nel dicembre del 1969. Ed è proprio per rendere questa menzogna più convincente che tutti i giornali hanno tenuto a precisare che gli anarchici inquisiti non fanno parte della Federazione Anarchica Italiana — a cui spetterebbe quindi il compito istituzionale di raccogliere tutti gli anarchici veri, quelli "galantuomini", quelli "buoni".
Che dire poi dei fantasiosi nomi attribuiti a questo "gruppo anarchico" che da un decennio compie ogni genere di misfatto? I più lo hanno definito "Frangia insurrezionalista anarchica", altri non si sono presi la briga di dargli un nome, mentre il Giornale ha coniato per l’occasione un "Anonima anarchica" dal suono particolarmente truce. La palma dell’idiozia l’ha però vinta l’Alto Adige che il 17 gennaio, in una pagina dedicata al processo in corso a Trento di cui si parla altrove su questo dossier, ha messo alla luce una organizzazione chiamata "Anarchici individualisti". Anche in questo caso, le calunnie non sono semplicemente frutto dell’ignoranza ma rispondono a un’esigenza ben precisa della magistratura. Se Marini vuole riuscire a condannare qualche decina di anarchici per "banda armata", deve pur dare un nome a questa benedetta organizzazione.
Fra tutti quanti, l’articolo che ha battuto ogni concorrente nell’arte della mistificazione è quello, anonimo, apparso su la Repubblica. Dal titolo al contenuto, qui tutto è menzogna, tutto è peggio che velina poliziesca. "Fatta luce su 10 anni di sequestri, indagati 60 estremisti anarchici", tuona con sicumera il giornale di Scalfari che — vale la pena ricordarlo — è attualmente in affanno alla ricerca della morale perduta. "Grazie alle rivelazioni di una giovanissima pentita, il pm Antonio Marini è riuscito a individuare alcune persone che hanno avuto un ruolo importante in alcuni rapimenti". L’anonimo giornalista, nella fretta di riportare fedelmente la voce del padrone, deve avere scordato la più elementare norma democratica in questa materia: far precedere l’aggettivo "presunti" quando si parla di persone indagate ma non ancora condannate. Poi, dopo aver evocato la presenza di "altri collaboratori di giustizia" tanto per rendere più oggettive le illazioni di Marini, il giornalista scrive: "Sono quindi scattati degli accertamenti, sono stati riaperti alcuni vecchi fascicoli e sono stati trovati i riscontri alle prime dichiarazioni della ragazza. In uno scantinato sulla via Cristoforo Colombo, a Roma, i carabinieri hanno scoperto numerose armi e munizioni. Ma, soprattutto, decine e decine di divise della Guardia di Finanza. Divise che hanno subito portato verso quattro sequestri le cui modalità erano state pressoché identiche: i banditi si presentavano vestiti da finanzieri". Si può mentire più spudora-tamente? Allo scantinato sulla via Cristoforo Colombo, Marini e i suoi sgherri non sono affatto arrivati grazie alle rivelazioni della "pentita", non ci sono proprio mai arrivati giacché la sua scoperta risale al maggio del 1990! In altre parole la Repubblica bara sui tempi, oltre a nemmeno descrivere con accuratezza quella scoperta, e trasforma un episodio vecchio e sepolto in un sensazionale e attuale "riscontro" giudiziario.
Un altro esempio stupefacente di calunnia giornalistica l’ha fornito l’Unità, la cui collaboratrice Maria Annun-ziata Zegarelli è riuscita nell’impresa di far ritrovare nel corso di questa perquisizione avvenuta il 9 maggio 1990 il settimanale Canenero, il cui primo numero è nato alla fine di ottobre del 1994. Ah, la buona e vecchia scuola stalinista. Erano proprio loro, gli stalinisti, ad insegnare che la calunnia per poter creare degli effetti non deve essere verosimile. Anzi, più è smisurata e meglio è. Una piccola calunnia può non essere credibile, una calunnia enorme invece si giustifica da sé. Chi la ascolta non può credere di trovarsi di fronte a un tale sproposito ed è portato a concludere che "qualcosa di vero ci dovrà pur essere". Ed è proprio a questo che serve la stampa. Ad amplificare le calunnie che il potere quotidianamente diffonde per far credere a tutti che, sotto sotto, qualcosa di vero ci deve pur essere in ciò che ci viene propinato.
Ma l’Unità non è stato l’unico giornale ad aver parlato del settimanale Canenero. Oltre a Il Tempo (che in un articoletto di poche righe riesce persino a sostenere che "La "banda" gestirebbe anche pubblicazioni come "Cane nero", "Provocazione" e "Anarchi-smo"") e l’Indipendente, con toni che si possono facilmente immaginare, anche il Manifesto non ha esitato ad attingere a piene mani nella diffamazione. "Le perquisizioni fatte in tutt’Italia hanno provocato una dura reazione del gruppo (che stampa e distribuisce alcuni giornali, tra i quali Cane nero, Provocazione e Anarchismo), che ha affisso manifesti nell’università di Roma contro il tentativo della procura di "tappare la bocca" ai propri militanti". Come giornale che si vuole libera voce dell’opposizione sociale nel Paese, non c’è male. La reazione che ha portato all’affissione di un manifesto in tutta Italia, e non alla sola università di Roma, non è opera del "gruppo" inquisito, giacché non esiste nessun gruppo, ma di numerosi singoli anarchici. E non esistendo alcun gruppo, non possono esistere né "militanti" e nemmeno giornali organi del gruppo. Il guaio dei "compagni" del Manifesto è che pensano che tutti siano come loro, militanti di un gruppo dotato di un organo di stampa. In questo, tra il radicale Manifesto e il reazionario Indipendente non ci sarebbe molta differenza, se quest’ultimo non aggiungesse una ennesima perla: "Il gruppo gestirebbe alcune tipografie su tutto il territorio nazionale, in particolare a Roma, Firenze, Rovereto e una in Sicilia". È avvertito il dottor Marini — con tutte queste tipografie a nostra disposizione non riuscirà tanto facilmente a ridurci al silenzio.
Fatto il proprio dovere, la grande stampa si è subito ammutolita in attesa di nuovi ordini. A portare avanti la farsa sono rimasti solo i giornali del Trentino, negli articoli riguardanti le udienze del processo in corso a Trento contro quattro anarchici (l’Adige ha definito la "pentita" niente meno che "l’Eva Mikula dell’anarchia", dimenticando però di dire che i fratelli Savi non erano anarchici ma facevano lo stesso mestiere del giudice Marini).
Bene hanno fatto quei giornalisti che di recente si sono autodenunciati come intrattenitori di magistrati famosi. Del resto, come afferma lo stesso Manifesto, "il confine, il limite fra l’adulazione e la scorrettezza sta nel prodotto finale": ma a noi non possono che disgustare entrambe.
I GIUSTIZIERI IN TOGA E GLI ANARCHICI
Perché gli anarchici?
Domanda fondata. Perché gli anarchici? Una trascurabile minoranza di individui contrari a tutto, incuranti di prendersi cura di se stessi, cioè di accaparrarsi protezioni e benevolenze.
Perché mai uomini seri, anzi serissimi, del tetro colore delle nottole care a Minerva dovrebbero fare carte false per metterli in difficoltà? per condannarli a decenni di carcere?
Possibile che non ci siano, fra le pieghe ammuffite dei codici italiani, leggi sufficienti a frenarli “secondo le regole”, secondo le regole democratiche che uomini comme il faut si sono date e che pretendono imporre a tutti come strumenti di civile convivenza?
Certo, gli anarchici rompono la monotonia concorde del plauso generale al regime che va coagulandosi come il sangue in una ferita mortale. Rompono l’orizzonte di acquiescente certezza nelle capacità dei governanti di fare le fortune dei governati. Rompono.
Bisogna metterli a tacere, e per farlo occorre un bavaglio adatto.
Fra gli uomini in toga c’è un uomo particolare, mi sia consentito questo aggettivo che potrà sembrare fuor di luogo. Quest’uomo particolare si chiama Vigna, Pierluigi Vigna, integerrimo e occhiuto sbirro in toga e codino nero. Non ama gli anarchici. Ebbene, che c’è di strano? Quali sono stati mai i procuratori della repubblica innamorati degli anarchici? Ma questo procuratore, che officia in quel di Firenze, li ha in odio nel vero senso della parola, un odio sopraffino, di quelli che sembrano uscire diretti diretti dalle disavventure familiari; sapete, uno di quegli odi che mandano il sangue agli occhi, che fanno afferrare il coltello da cucina e giù, zàcchete, tagliare la gola alla propria moglie. No, il magistrato Vigna è troppo integerrimo e troppo colto per alimentare odi del genere, almeno non in modo diretto; e poi chi scrive nulla sa, né la sua inadeguata fantasia riesce ad immaginare, delle disavventure familiari del procuratore Vigna: può solo ipotizzarle. Ma cosa volete che sia un’ipotesi, andiamo, per farla ergere a causa di tanto accanimento?
Eppure questo intento perse-cutorio, questo velo all’intelli-genza per non dire alla vista, è documentabile: attraversa la storia giudiziaria degli anarchici degli ultimi venti anni e, di per sé, non è mai arrivato ad azzannare fino in fondo, fino alla carne e all’osso. Qualche morso qua e là, niente di grave. Adesso i progetti di Vigna si fanno all’in grande, come si confa ad un procuratore capo, ufficio elevato nella gra-duatoria dei fornitori delle galere repubblicane.
Ma come ogni artista Vigna ha bisogno di aiutanti, di collaboratori, di altri uomini come lui, animati dal sacro fuoco della verità. E, di recente, ha trovato questi uomini. Il loro motto potrebbe essere quello di Giacomo Ca-sanova: “Vincasi per virtù o per inganno, il vincer sempre fu laudabil cosa”.
Il primo aiutante del famelico Vigna si chiama Antonio Marini ed esercita la sua professione a Roma. Magistrato di non più tenera età, alle soglie della pensione continua a mordere in qualità di sostituto procuratore, e nella sua carriera ha accumulato istruttorie di processi importanti come quelli concernenti il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse, e quello contro l’attentatore del Papa. Ora, Marini vuole chiudere la sua carriera con una grande abbuffata di anarchici. Non che lui sappia chi sono e cosa vogliano gli anarchici (dovere minimo, che si può chiedere persino ad un procuratore della repubblica), la cosa non lo interessa, gli basta che ci sia qualcosa da mettere sotto i denti: si fosse trattato di turchi o cristiani per lui sarebbe stata la medesima cosa. I suoi denti così vogliosi si sono invece rifiutati di mordere quando si è trattato di fare qualcosa contro i generali argentini golpisti, responsabili dell’uccisione e della tortura di centinaia di italiani in Argentina. In questo caso ha deciso il non luogo a procedere.
Il secondo aiutante è un giovane magistrato di Carrara che esercita la sua professione a Trento. Si chiama Giardina, Bruno Giar-dina, e nella sua città d’origine ha ben avuto occasione di conoscere gli anarchici e quindi di sapere cosa vogliono e chi sono. Lui sì che lo sa, ma si guarda bene da proporre obiezioni alla strategia voluta dall’alto (Vigna), messa a punto da Roma (Marini) ed eseguita — fino a questo momento — in quel di Trento, attraverso la gentile collaborazione (via cavo) di una ragazzina che si è auto-accusata di aver partecipato ad una rapina assieme a degli anarchici, causando ipso facto la condanna di questi ultimi, ecc. ecc. Giardina è giovane e alquanto rozzo nelle movenze processuali, ma il progetto regge. Oggi qualsiasi cosa i pentiti dicano, regge a sufficienza, salvo poi a costringere i responsabili alle debite distinzioni quando si tratta di mandare in galera persone come Andreotti. E siccome nessun anarchico si chiama Andreotti, il problema non si pone.
Ma non tutti i progetti repressivi riescono fin nei particolari. Le assurde invenzioni di Vigna, le coordinazioni sbirresche di Marini e le pantomime di Giardina appaiono sempre di più per quello che sono: infondate. I compagni condannati non hanno commesso quelle rapine.
Restano le altre accuse: “banda armata” in primo luogo. Qui la costruzione metafisica dovrebbe assurgere a livelli lirici. A nessun raccontatore di frottole è mai riuscito. Gli anarchici non accettano di essere intruppati in una “banda armata”, la loro riottosa indipendenza di pensiero e d’azione lo impedisce. Vigna lo sa e tace, Marini non lo sa e parla, Giardina conta quanto il due di coppe.
Nessuno aiuta gli anarchici. Questo lo sappiamo bene, ed è proprio per questo che siamo anarchici, per non dovere accettare aiuti pelosi da nessuno. Per lo stesso motivo nessuno sa che farsene della verità, altra faccia, ancora più sbiadita, della giustizia. Non alziamo la voce quindi per la verità contaminata o per la giustizia violentata: della sorte di queste donzelle da postribolo non ce ne importa nulla. Ci facciamo sentire perché questa volta l’artificio accusatorio ha raggiunto il massimo della spudoratezza. Le invenzioni contro gli anarchici questa volta sono talmente grosse da risultare visibili perfino all’occhio reso miope dall’obbedienza e dalla fede nelle virtù progressive di chi ci governa. Insomma, quando le balle sono proprio grosse, anche gli orbi possono vederle.
Nessuno aiuta gli anarchici, forse nemmeno l’evidenza, che facilmente si può coprire col colpo d’ala di una ragazzina male indottrinata da frettolosi sbirri in vena di fantasie erotiche. Ma il caso può venire in aiuto. Sì, proprio il caso, l’evento imprevedibile. La grande forza repressiva di un uomo potente come Vigna improvvisamente si è incrinata. Il processo Pacciani è stato un fiasco colossale. I suoi metodi, che chiunque gli si opponga ha la sfortuna di assaggiare — ricordiamo che durante il processo sull’auto-parco milanese di via Salomone è stato assolto quel vicequestore in carcere da alcuni mesi grazie alle dichiarazioni di un pentito istruito dalla procura fiorentina —, sono finiti davanti agli occhi di tutti. Per Marini ci sono degli esposti per la sua tolleranza eccessiva nei riguardi dei generali argentini torturatori. Come al solito Giardina continua a contare quanto il due di coppe.
Oggi in Italia tira un’aria non proprio favorevole alla magistratura. Certo, ci sono motivi politici di fondo che hanno fatto sollevare questo vento contrario alle toghe. Sappiamo benissimo che si tratta di un tentativo di rintuzzare le velleità di dominio che si sono andate formando nel potere giudiziario. Dopo le fortune di Di Pietro e compagni a Milano, ogni giovincello in toga e pettorina sogna di diventare ministro dell’interno. La distruzione della vecchia classe politica non ha del tutto fatto scomparire gli interessi gestiti da essa, uomini di potere e di borsa sono rimasti ai loro posti e, portando avanti nuovi fantocci politici, stanno ricucendo i vecchi interessi. Craxi non è ancora morto in Tunisia e le sue ceneri non sono state ancora disseminate al vento del deserto. Una lunga mano continua a tessere trame e disegni. E il nemico di questa lunga mano, nemico occasionale, badiamo bene, nemico di oggi, non nemico radicale, ma pur sempre nemico, è la magi-stratura.
Come vanno le cose nel mondo! La magistratura in difficoltà per avere appena appena morsicato gli interessi del potere politico ed economico.
Adesso non deve fare altro che rientrare nel proprio alveo. A spingerla indietro, fra mille contorsioni e mille chiacchiere inutili, è proprio la destra, mentre la sinistra la difende, pensando di trarre ancora un ulteriore profitto dalla distruzione della vecchia classe politica con la quale aveva pur convissuto e grufolato per decenni. Cosa importa? Che ci importa di quello che fanno questi fantasmi nell’àmbito del loro palcoscenico di marionette? Le responsabilità degli uni valgono quelle degli altri. Dei loro progetti sarebbe impresa ardua vedere le differenze. Destra? Sinistra? L’unico aspetto utile di tutta questa imbrogliata vicenda di lotte di palazzo, è che una spregevole montatura come quella organizzata da Vigna, Marini e soci contro gli anarchici, in questo momento, non ha più possibilità di decollare.
Per fortuna il tempo dei giustizieri in toga è passato di moda. O no?
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