RAPPRESENTAZIONE DI UN CONFLITTO: CIAK, SI FILMA!
Il 22 febbraio 2003 si è svolta a Ferrara una manifestazione contro la guerra e la NATO nel corso della quale due sbirri si sono visti sfilare la telecamera con cui riprendevano il corteo. Ne è nato uno scontro da cui gli sbirri sono usciti piuttosto malconci.
Il 25 marzo quattro compagni di Bologna si vedono notificare degli avvisi di garanzia con annesse misure restrittive piuttosto particolari: obbligo di dimora nel comune di residenza, divieto di uscire di casa dalle 14 alle 19, obbligo di firma in questura ogni mattina e obbligo di comunicare qualsiasi spostamento nell'arco delle ore in cui è permesso uscire di casa.
Dopo aver rigettato il primo ricorso e dopo altri due ricorsi rigettati dal gip, il tribunale della libertà attenua le misure (resta solo l'obbligo di dimora nel comune). Dopo altri due ricorsi, ad inizio agosto il tribunale fa decadere i provvedimenti per tre compagni e il 22 dello stesso mese per il quarto.
9 aprile - Assemblea pubblica: Violenza sociale e Movimenti pacifisti
Su tale vicenda, seppur per inciso, e più in generale sul pessimo costume di usare macchine fotografiche e telecamere all'interno dei cortei ad opera degli stessi manifestanti, alcuni compagni hanno redatto alcune note critiche.
RAPPRESENTAZIONE DI UN CONFLITTO:
CIAK, SI FILMA!
Nell’epoca della realizzazione della separazione, della separazione compiuta dell’uomo dalla vita e della conseguente perdita del senso dell’esistenza stessa, l’immagine funge da schermo protettivo rispetto all’agghiacciante realtà.
Foto, filmati e documenti visivi riempiono la testa e le mani non più solo di birri e magistrati ma anche, se non di più, degli attori nella scenografia delle manifestazioni del falso dissenso.
Già si è detto e ripetuto, peraltro inutilmente, quanto l’uso nei cortei della macchina fotografica e delle sue consorelle tecnologicamente più avanzate sia una pericolosa arma boomerang utile per la repressione; viene la nausea a doverci tornare sopra. Non si comprende perché si debba collaborare a raccogliere materiale utilizzabile per autoimbrigliarci nella strangolante rete delle maglie dei procedimenti giudiziari. Una foto fa da prova, e non c’è bisogno d’altro. La pratica irresponsabile della raccolta ossessiva di immagini diviene collaborazionismo, e proprio da parte di chi pretende di manifestare dissenso.
Ora non ci si venga a raccontare che le riprese vengono effettuate per incastrare gli sbirri quando esagerano nell’adempimento del loro empio dovere, davvero si pensa che possa bastare una immagine per portare alla galera un poliziotto? e poi soprattutto è nostro compito rivoluzionario fare le veci di un magistrato o i portavoce di chi è assetato di giustizia giudiziaria? quale passo avremo mai fatto in avanti una volta affidata la nostra libertà nelle mani di un magistrato, di un politico o di una nuova, e non se ne sente proprio il bisogno, legge?
Nella gara per la raccolta e diffusione di immagini si finisce poi per rivaleggiare con l’altra bella categoria, quella dei giornalisti.
La frenesia di comunicare l’evento prende il sopravvento sull’evento stesso, tanto che non è necessario nemmeno più che accada, basta che venga simulato per quei pochi istanti richiesti e dettati dai tempi televisivi. Questa smania del giorno dopo sui giornali, o meglio del giorno stesso sui TG ha preso talmente la mano da far perdere l’esserci e il fare nel momento poiché si è già proiettati verso l’immagine da proiettare.
Da questo vortice risucchiante si pensa di uscirne con le autoproduzioni da far girare nei circuiti presunti antagonisti dei centri sociali. Quale modo più semplice per dare ampiezza e risonanza ad un movimento nato morto di quello di farlo vivere internandolo nel neomoderno carcere mediatico?
Sciocchi imitatori, quali schemi rompono, che cosa portano di dirompente se non la loro rappresentazione autocelebrativa? “Contro la guerra dei potenti ora e sempre disobbedienti!” Ah… beh!
Con obiettivi che si intrecciano in un tripudio di scatti incrociati, come a costruire il set di una stanza degli specchi in cui le immagini, di cui godere narcisisticamente, rimbalzano dall’uno all’altro. In un gioco di infiniti rimandi, si allarga a piacimento la situazione fino ad alludere a uno spettacolo per forti emozioni. In scena va la tensione di una guerriglia urbana che pare sempre sul punto di esplodere… ma quel momento non verrà mai.
Basta l’accenno: un casco in testa, il volto coperto, qualche fumogeno e lo spazio predisposto per la finta ritirata. Tutti gli attori in campo conoscono bene il copione ma le comparse inconsapevoli rimangono lì con la loro rabbia in gola, ignare di ciò che realmente è accaduto, assediate, chiuse dai due lati da sbirri e bravi. L’azione è falsa e l’impotenza cresce.
Le mani morbosamente afferrano lo strumento di ripresa, non c’è ora modo di utilizzarle per altri scopi. La mente occupata dall’ansia di carpire l’attimo che al meglio esprima lo spettacolo. Gli occhi fissi nell’obiettivo ed ecco che la separazione dal vivere e dal concentrarsi su ciò che si sta facendo si concretizza nell’essere assenti nel momento in cui occorrerebbe essere presenti. Con questo corpo in tutte le sue parti appesantito da protesi tecnologiche che cosa si vuol manifestare? contro chi si vuole andare? come si può pretendere di cacciare dai cortei poliziotti mascherati da umani e giornalisti avvoltoi quando non si riesce a vedere la differenza tra loro e gli altri?
È uno scontro tra telecamere quello che ammorba le coscienze ed i coglioni.
Allora la repressione non è solo quella che viene dai fantocci in divisa o dalle prove incautamente raccolte per loro, ma anche quella che dall’interno si produce. L’istinto ricondotto a ragione, imbrigliato e annientato dall’ideologia dell’immagine, impedisce il realizzarsi dell’atto autentico della rivolta.
L’immagine svuota l’azione mentre il feticcio succhia il sangue dell’uomo.
Alcuni compagni con le mani libere
Bologna, marzo 2003
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