Che se ne vadano tutti
(per uno sciopero elettorale generale)
«Quando il padrone o la padrona chiamano un servo per nome, nessuno di voi risponda, altrimenti non ci saranno più limiti alla vostra oppressione. E i padroni stessi ammettono che, se un servitore viene quando è chiamato, basta». Jonathan Swift, Istruzioni alla servitù
Li sentite? I nostri padroni ci stanno chiamando. Ci stanno dicendo che i prossimi 13 e 14 aprile, per l’ennesima volta, si voterà. Dovremo andare alle urne a mettere una croce sulle nostre aspirazioni, delegandole ad uno dei tanti candidati che ci verranno propinati. Uno qualsiasi, a nostra scelta, tanto non c’è differenza. Chiunque verrà eletto non cambierà nulla della nostra miserabile esistenza su questa terra sempre più inquinata, avvelenata, corrosa. Continueremo a tirare a campare, impoveriti dei nostri sogni e desideri, stremati da una giornata di lavoro, spenti davanti a un televisore acceso. Nel corso degli anni i governi si sono succeduti l’uno dopo l’altro, l’uno dopo l’altro hanno fatto promesse più o meno mirabolanti, l’uno dopo l’altro non le hanno mantenute. Mentre chi abbiamo mandato a scaldare gli scranni del Parlamento gode di immensi privilegi ed ha accumulato sostanziose fortune per sé e la sua famiglia, a noi è rimasto solo di morire in una qualsiasi ThyssenKrupp o di soffocare sommersi dalla spazzatura.
Sappiamo bene cosa ci aspetta nelle prossime settimane. Un’estenuante campagna elettorale condotta da vecchi e giovani saltimbanchi della politica, pronti a tutte le lusinghe e raggiri pur di estorcerci il voto. Guardateli come si stanno travestendo, assumendo nuovi nomi per rendersi più presentabili. Ascoltateli come si riempiono la bocca di Popolo e Democrazia, queste allucinazioni collettive che vengono evocate di continuo solo per attirare i gonzi. Eppure, ormai lo hanno capito anche i bambini: fra destra e sinistra, fra un Berlusconi e un Veltroni, non ci sono sostanziali differenze. Sono come la Coca e la Pepsi, che si contendono il mercato offrendo il medesimo prodotto, limitandosi a confezionarlo in maniera diversa. I rispettivi piazzisti possono anche litigare, insultarsi, ricorrere a colpi bassi, ma la comune identità di obiettivi resta inalterata. Sentiamoli sulle questioni più controverse del momento: tutti sono favorevoli alle missioni militari all’estero, all’alta velocità in Val Susa, all’ampliamento della base NATO di Vicenza, ai centri di permanenza temporanea, alle “leggi scellerate” sulla sicurezza… né si può dire che si differenzino granché per le loro ricette in materia economica. Le prospettive sono talmente intercambiabili da spingerli a scagliarsi reciproche accuse di plagio.
Di questo sistema sociale che, di emergenza in emergenza, di catastrofe in catastrofe, ci ha condotti sull’orlo del baratro, nessuno mette in discussione il SE, ma solo il COME. Quale che sia il governo in carica, i programmi restano immutati; devono solo decidere se realizzarli con il bastone o con la carota. Questa uniformità nell’abiezione, questa assoluta mancanza di alternative, ci ricorda qualcosa. I vecchi regimi totalitari si caratterizzavano per il dominio assoluto di un unico partito, che costringeva i partiti avversari all’esilio o alla clandestinità. Ma quei partiti erano considerati avversari proprio perché portatori di valori diversi e opposti. Oggi viviamo in una sorta di totalitarismo democratico che tollera l’esistenza di più partiti, ma solo perché giurano fedeltà ad un medesimo modo di vita sottomesso alla dittatura del mercato. Le odierne diatribe fra le varie cricche politiche assomigliano alle dispute che un tempo dilaniavano le diverse “correnti” all’interno del partito unico; ma se gli orrori dell’antico totalitarismo hanno provocato dissidenza e ribellione, quelli perpetrati ai giorni nostri hanno potuto contare sull’obbedienza. Fino ad ora?
Una cosa è certa. Mai come in questo momento il sonno degli abitanti del Palazzo è tormentato dallo spettro della cosiddetta antipolitica. Da molto tempo non serpeggiava tanta preoccupazione: caduti nella polvere della storia i grandi ideali che una volta spingevano a lottare per la trasformazione sociale, nelle alte sfere si era diffusa la sciocca convinzione che la pace sociale fosse un dato di fatto acquisito, quasi una caratteristica biologica di questa società. Così non è. Solo che oggi il potere non deve più difendersi dall’utopia, sepolta ancora sotto una montagna di becero realismo e di pragmatismo bottegaio, bensì da un avversario che nell’ultimo periodo è montato inarrestabile: il disgusto. Quel disgusto che prende alla bocca dello stomaco sempre più persone nel vedere l’ennesimo candidato parlamentare, nell’udire l’ennesima promessa elettorale. Un tale disgusto da rendere sordi alle sirene della propaganda politica.
Molti segnali indicano che l’antipolitica si sta diffondendo ovunque. Sotto una forma ambigua, è vero, che non si fonda su una radicale critica della delega e dell’esercizio del potere. Si tratta perciò di un rifiuto dei partiti esistenti per lo più istintivo e inconsapevole, che trova sostenitori soprattutto fra chi è in cerca di nuovi partiti, fra chi vuole dare vita a una nuova politica — fra chi intende per lo più rinnovare una classe dirigente ormai screditata e decrepita. Ma sarebbe comunque stolto, da parte di accaniti astensionisti quali noi siamo, non soffiare su questo fuoco — che è sempre stato il nostro elemento — solo perché ad alimentarlo attualmente ci sono alcune anime belle del cittadinismo. Anche se si tratta di un astensionismo occasionale, come quello oggi invocato in una Val Susa delusa dal governo Prodi che appena ieri aveva contribuito ad eleggere.
Quella che si sta prospettando è un’occasione piuttosto singolare. Una volta tanto, la classica obiezione con cui è sempre stato liquidato l’astensionismo viene meno in partenza. Infatti oggi nessuno, nemmeno il più ottuso dei militanti di sinistra, può seriamente accusare l’astensionismo di «fare il gioco della reazione». Un po’ perché decenni di «mali minori» e «compromessi tattici» hanno reso evidente che la reazione è trasversale e va dall’estrema destra fino all’estrema sinistra. Un po’ perché mai come in queste elezioni l’esito finale sembra scontato, mai come ora la destra non ha bisogno dell’astensionismo per far perdere voti alla sinistra. Se due anni fa la prospettiva di un governo di centro-sinistra che ponesse fine al regime di Berlusconi è riuscita ad affollare le urne, oggi non c’è ragione alcuna che possa giustificare il voto. Anzi, la decomposizione della politica è talmente palese da consentirci di rinfacciare ai nostri critici la loro stessa accusa: chi vota fa il gioco della reazione. Il centro-sinistra non ha grandi speranze di vincere e comunque ha già dimostrato di essere del tutto uguale al centro-destra. Quanto alla cosidetta “sinistra radicale”, può vantare ancor meno speranze di successo elettorale con la sua collaborazione di sponda alle più infami politiche del governo Prodi.
Illustri politologi, venuti in soccorso di una classe politica in agonia, non mancano di far notare come l’astensionismo in sé non modifichi nulla dell’assetto istituzionale. Qualunque sia il numero dei votanti, chi vince le elezioni va a governare: quindi, a che pro astenersi? Gli esempi degli Stati Uniti o della Svizzera, paesi dove va a votare un quarto circa della popolazione adulta, sono indicativi. Ma questo genere di considerazioni, per quanto piene di ragionevolezza, trascurano intenzionalmente un aspetto fondamentale. Mentre in quei paesi l’alto astensionismo è frutto di un’indifferenza ormai normalizzata in consuetudine, in Italia rappresenterebbe una manifestazione di protesta impossibile da ignorare.
Cosa accadrebbe se il numero degli astenuti fosse superiore a quello dei votanti?
Del resto, se un eventuale alto tasso astensionista fosse davvero un fattore irrilevante, perché tanto affanno nel condannarlo? In realtà, sarebbe impossibile non tenere conto del significato di un massiccio astensionismo: la plateale delegittimazione del governo eletto. Il trionfo dell’astensionismo costituirebbe un’arma formidabile da usare contro il prossimo governo, qualsiasi esso fosse. Se poi riuscisse addirittura a sfondare la quota del 50% degli aventi diritto al voto, l’annunciata vittoria della destra si sgretolerebbe irrimediabilmente.
La menzogna democratica si basa sul consenso. Per imporre la propria volontà, chi governa sbandiera la vittoria ottenuta in un gioco elettorale a cui ha partecipato la maggioranza della popolazione. Ma se questo gioco venisse snobbato dalla maggioranza della popolazione, allora il risultato finale non potrebbe che essere derisorio. Questo mancato riconoscimento anticipato non impedirebbe l’insediamento del nuovo governo, ovviamente, ma darebbe forza ad ogni futura contestazione.
Insomma, mai come in occasione delle prossime elezioni il germe dell’astensionismo può trovare un terreno fertile su cui attecchire: un motivo in più per intervenire e ribadire ancora una volta le nostre idee in proposito. Ecco perché vogliamo rispolverare la vecchia idea di uno sciopero elettorale generale. Se di fronte ai soprusi e all’arroganza degli industriali i lavoratori possono ricorrere ad una o più giornate di sciopero, perché ciò non dovrebbe accadere anche per protestare contro i soprusi e l’arroganza dei politici? Disertiamo i seggi elettorali così come si disertano i posti di lavoro. Uno sciopero che deve essere lanciato in tutto il paese, per superare quei localismi (Val Susa, Vicenza, Campania) che vorrebbero giustificarlo solo contro singole cattive amministrazioni. Uno sciopero che invita a svuotare i seggi, per non avallare il salvagente offerto alla politica dalle liste civiche. E, soprattutto, uno sciopero che non avanza rivendicazioni specifiche, che non si limita a dire no a Tizio o a Caio, a questo o a quel progetto, ma che sfida l’intero ordine politico: CHE SE NE VADANO TUTTI, di destra e di sinistra, vecchi e giovani, corrotti e rispettosi della legge!
A scanso di equivoci, vogliamo chiarire che non siamo interessati a indire una qualche assemblea permanente sull’argomento, né a costituire fronti più o meno uniti di lotta astensionista. Non abbiamo alcuna intenzione di colmare, in nome di necessità strategiche, le distanze che separano le varie componenti del movimento: abbiamo troppo a cuore i nostri amori e i nostri odii per sospenderli anche solo momentaneamente. Non abbiamo linee d’azione da far seguire, né patti da far sottoscrivere. Al contrario, ci piacerebbe provare a mettere in pratica fin da subito un’azione antipolitica che — proprio in quanto tale — rifiuti esplicitamente la tirannia del numero, così come l’autoreferenzialità. La nostra proposta a chi condividesse le nostre intenzioni è semplicemente questa: invitare allo sciopero elettorale generale attuando un boicottaggio sistematico della prossima campagna elettorale. Molestare tutti i politici che nelle prossime settimane verranno ad infestare le piazze delle nostre città. Rendere loro la vita impossibile mettendoli alla berlina in tutte le maniere. Seppellire di ridicolo ogni aspirante parlamentare. Bollare col marchio dell’infamia ogni forma di politica. Non ci sono limiti per realizzare questa opera meritoria. Si può agire da soli o accompagnati, di giorno o di notte. Come meglio si preferisce. I mezzi a disposizione della fantasia di ciascuno di noi sono infiniti. Una rapida occhiata a chi ci ha preceduto su questa strada è indicativa: c’è chi ha candidato un asino conducendolo per le strade della città a ricevere l’applauso del pubblico, c’è chi ha oscurato la pubblicità elettorale con un manifesto invitante alla scheda nera, c’è chi si è dedicato alla chimica per mandare in fumo le schede elettorali, c’è chi ha deturnato i manifesti affissi dai vari partiti, c’è chi ha organizzato esilaranti comizi di finti candidati, c’è chi ha contestato rumorosamente le parate degli aspiranti parlamentari, c’è chi ha sabotato appuntamenti propagandistici con telefonate minatorie, c’è chi si è intrufolato nei dibattiti politici per sottolinearne le menzogne e le contraddizioni, c’è chi ha divulgato scandali e malefatte dei nostri sedicenti rappresentanti, ecc. ecc.: non ci sono limiti se non quelli della nostra immaginazione.
Come stimolo iniziale, mettiamo a disposizione quanto abbiamo realizzato saccheggiando il ricco arsenale dell’astensionismo sovversivo. Si tratta di spunti rigorosamente anonimi, per evitare di cadere in quell’autopromozione che è uno dei tratti più odiosi della politica. Chi li condividesse e volesse diffonderli, può scaricarli e riprodurli sotto forma di manifesti, volantini, adesivi. L’auspicio è che chiunque è interessato ad aggravare la crisi in cui versa la politica faccia altrettanto, realizzando idee e materiale astensionisti e mettendoli a disposizione di tutti.
Per porre fine all’oppressione in cui vegetiamo è indispensabile iniziare col non rispondere alla chiamata dei nostri padroni. Abbiamo un paio di mesi di tempo per spargere la voce fra i nostri compagni di sventura, proponendo uno sforzo minimo ma dalle enormi potenzialità.
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