Non è facile trovare un posto dove fumare in pace se sei degente in un reparto pieno di vecchiette... così io facevo la guardia mentre lei fumava in bagno.

Roberta l’ho conosciuta in ospedale. L’avevano ricoverata dopo una pesante intossicazione da barbiturici.

Ci aveva provato un’altra volta e un’altra volta senza riuscirci. Fra una sigaretta e l’altra veniva fuori la sua storia, un racconto tremendo in cui, in un paesaggio di invincibile solitudine, si avvicendavano avventure rocambolesche e sofferenze insostenibili: aveva solo venticinque anni e molti, troppi TSO alle spalle.

Nel labirinto mostruoso della psichiatria Roberta ci era entrata poco più che adolescente, come tutti quelli che ci entrano anche lei ci è entrata per forza.

Caffè, sigaretta, caffè… Nei reparti di psichiatria tutti ti ripetono che lo schifo in cui vivi è solo colpa tua… alla meglio trovi operatori che mascherano il loro sconcerto dietro modi gentili e misurati, professionisti del Buon Senso che provano ad insegnarti a dare il meno del fastidio possibile.

Quando di notte riuscivo a smontare le sbarre del suo letto, pianissimo per non svegliare le altre, i suoi occhi si riempivano di una soddisfazione complice e sincera: qualcosa che non si vede mai sulle facce dei soggetti col cervello biochimicamente normale, quelli con la materia grigia talmente in regola che il grigio in esubero li segue un po’ dovunque.

Slegarsi dalle cinghie, fare pace con il proprio cervello, evadere dal labirinto di solitudine e colpa che come un parassita si impossessa della tua mente non lasciando quasi più spazio ad altro… sono queste le necessità impellenti, i chiodi fissi, i sogni di libertà…

Come per qualunque rinchiuso, forzato, carcerato, l’obiettivo di Roberta era la libertà.

Ci è riuscita pochi mesi fa quando, con un volo dal terzo piano, è sfuggita per sempre ai suoi aguzzini… quelli in carne ed ossa e quelli no.

Per molti come lei l’unica decisione libera che resta è il suicidio, e in un insopprimibile impeto di ribellione, molti riescono a farla finita.

Caffè, sigaretta, caffè… lei andava avanti fra sorriso e pianto: quando cominci col TSO sai che sarà difficile scappare e che i medici, gli operatori sociali, talvolta la famiglia e la polizia saranno per sempre il nemico da cui dovrai nasconderti.

Il TSO è il trattamento sanitario obbligatorio som-ministrato a coloro i quali vengono riconosciuti malati di mente: cicli infiniti di terapie farmacologiche, sedute di controllo, iniezioni di farmaci a lungo rilascio e ricoveri coatti.

Non di rado capita che sia proprio la polizia a trascinare questi disturbatori della pubblica decenza in ospedale e spesso non è nemmeno necessario dare in escandescenze o usare violenza su qualcuno, basta anche solo stare in disparte e farsi i fatti propri, magari sdraiarsi su un marciapiede e addormentarsi un poco per attirare l’attenzione dei tutori dell’ordine… per il tuo bene.

Questo è quello che stava accadendo la notte del 12 ottobre [2007] a Bologna; una notte come tante: in piazza Verdi una giovane donna dormiva in terra ma il suo sonno veniva interrotto bruscamente da un’operazione di contrasto al degrado urbano: il degrado era lei, il suo corpo disteso, la sua presenza in quella città, la sua stessa esistenza in quella notte come le altre.

Però qualcuno quella notte si è messo di mezzo, ha cercato di difendere la donna dalla violenza dei poliziotti e di sottrarla al TSO; ne sono seguite botte, manganellate e inseguimenti, il tutto fra lo sdegno inerte dei passanti.

Accusati di resistenza e lesioni – e pure di rapina aggravata (di un paio di manette perse dagli sbirri durante il parapiglia) – i cinque sono tuttora in carcere (mentre si scrive). Non basta: pochi giorni dopo altri cinque sono finiti in carcere, con l’accusa di aver scritto sui muri frasi contro il TSO e in solidarietà agli arrestati. Processati per direttissima, hanno ricevuto condanne fino a dieci mesi di carcere.

A voler essere ingenui verrebbe da chiedersi, ammessa pure l’esistenza di un disturbo o di una più generica sofferenza della mente, come mai il trattamento medico è obbligatorio, come mai – come accadrebbe per qualsiasi altra patologia – il malato, o chi per lui, non può scegliere ciò che è più giusto per se stesso?

Gli specialisti a tale proposito forniscono una falsa risposta: col ricovero coatto si prevengono possibili comportamenti pericolosi verso se stessi o gli altri.

Ragionamento perfettamente coerente perché non manca di continuità con le moderne strategie preventive di cui il potere si serve per molteplici scopi: per muovere guerra ad altri Paesi o per criminalizzare in anticipo intere categorie sociali, per creare allarmi xenofobi e quant’altro.

Il TSO non potrà mai curare nessuno: è solo lo strumento con cui lo Stato, per mano della pseudoscienza psichiatrica, cerca di conservare l’ordine dispensando la società dei normali dalla nota stonata della diversità, e ancor di più, dalla ansiogena idea di incontrollabilità.

Evidentemente non essere conformi al modello consumista del buon cittadino lavoratore, avere un dio all’infuori di quello concesso, credere davvero nell’utopia ed esprimerlo nella propria esistenza è un fatto intollerabile per il potere.

In questo si somigliano i ribelli con i pazzi. È questione di nervi.


 
 

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