Sul rovescio dell’etichetta

Quello che benetton non dice

Il 3 dicembre 2003, a Cles, si celebra il processo nei confronti di due anarchici fermati dalle forze dell’ordine nel dicembre dell’anno scorso: i due entrarono nel locale negozio Benetton imbrattando e rovinando con della vernice svariati capi d’abbigliamento. La completa schiavitù di un uomo al proprio lavoro, lo zelo di uno sbirro fuori turno all’interno della bottega, ne permise l’identificazione. Su di loro pende ora l’accusa di danneggiamento aggravato. Questo ciò che hanno da dire a riguardo, per difendere e diffondere quel gesto.

Un gesto di cortesia

Se abbiamo deciso di spendere qualche parola in tale occasione, non è per raccontare "la nostra versione dei fatti" né, tanto meno, per chiedere clemenza. Ciò che diremo è proprio tutta la verità, perché ci sembra valga la pena esprimere le nostre idee anche in questa occasione, con determinazione e chiarezza. Lo facciamo per solcare ancora una volta le acque che, di questi tempi, separano le cose che si dicono da quelle che si fanno; per non affogare in quel mare di incomprensione reciproca che ci divide dagli altri, ove solo è possibile, d’altro canto, incrociare le rotte proprie con quelle altrui. In questo senso consegnamo alla deriva le nostre parole, esse sono un augurio nella bottiglia. Con il desiderio che qualcuno, magari un perfetto sconosciuto, prenda e comprenda tali parole al punto di volerle praticare; convinti che chiunque possa intendere pienamente il senso di quello che è stato fatto e di quello che si dirà a riguardo. Per parte nostra non ci stancheremo mai di continuare a ribadirlo, appunto, con le parole e con i fatti.

Non siamo entrati in un negozio qualsiasi per imbrattare con della vernice maglioncini o camicette. Che non si tranci corto nei nostri confronti definendoci genericamente "vandali", con tutto il rispetto che merita chi scelga come propria tale definizione. Ci si accusa di aver lanciato del colore sugli scaffali del locale negozio Benetton. A riguardo possiamo soltanto dire questo: abbiamo cercato di mirare bene e di tirare il più dritto possibile, con tutta la forza delle nostre convinzioni. Ci hanno preso, e sotto tale particolare aspetto ci è andata male.

La nostra volontà, per quanto possa sembrare strano, era principalmente quella di compiere un semplice gesto di cortesia nei confronti di ignoti, di trovare una sorta di buona maniera per ringraziarli di un dono ricevuto. Insomma, era la volontà di esprimere solidarietà al popolo Mapuche, il quale, nell’estremo sud dell’America Latina, difende se stesso e la propria terra, resistendo alla prepotenza coloniale delle grandi multinazionali, Benetton in testa. Sotto quest’altro aspetto pensiamo di aver centrato i nostri scopi, oltre ad un orrendo paio di pantaloni.

Chiariamo subito le ragioni che ci hanno spinto ad entrare in quel luogo con intenzioni alquanto diverse da quelle che solitamente muovono dei normali clienti. Per cogliere la natura del fatto minimo che costituisce il nostro capo d’imputazione bisogna però essere disposti a guardare oltre i confini apparenti del proprio meleto, inquadrandolo nel contesto generale in cui rimane inserito. È per fare questo che sposteremo l’attenzione su ciò che succede in terre lontane.

"Sono arrivati i nuovi padroni ed hanno comprato tutto, terre, fiumi, animali e perfino le persone" (detto delle comunità Mapuche).

Ci permettiamo ora di citare ciò che un compagno anarchico scrive a proposito di quella multinazionale, proprietaria di più di 900.000 ettari di terreno in Patagonia. Lui stesso, in questi giorni, ha dovuto affrontare un processo in cui era accusato di aver qualificato con lo spray un negozio Benetton con l’unico appellativo che esso merita, quello di sfruttatore: "(...) Le feroci repressioni che nel corso dei secoli hanno decimato le popolazioni originarie che abitavano le terre di Patagonia, hanno fatto di quelle terre l’immenso latifondo che per decenni ha rappresentato l’indegna ricchezza delle più potenti famiglie dello Stato argentino, fino a che, con l’inizio degli anni ‘90, per tutta una serie di fattori economici, quest’immenso capitale fondiario si è tramutato in una lauta possibilità di nuovi guadagni per il Capitale internazionale. Con cifre ridicole i grandi ricchi nordamericani ed europei hanno così iniziato ad acquistare porzioni immense di territorio patagonico: pascoli, terreni coltivabili, nonché un patrimonio pressoché illibato di riserve minerarie ed energetiche. Va da sé che, con l’acquisto di estesissime porzioni di territorio, a cui viene dato il nome di estancias (alcune delle quali superano i 200.000 ettari), i capitalisti del ‘mondo avanzato’ si sono garantiti anche lo sfruttamento di quelle che chiamano le ‘risorse umane’, ovvero le comunità originarie che dalla notte dei tempi abitano l’estremo del Cono Sur.
E come ci si può immaginare non è che sia uno sfruttamento ‘tenero’, se mai ne possa esistere uno così definibile: quando il ricatto per cui ‘o stai buono o perdi il lavoro’ (essendo i padroni di tutto, terra acqua, risorse, va da sé che sono anche i padroni della mano d’opera) non basta più e la gente si ribella ai continui soprusi ed alla rapina della propria terra, le armi del convincimento sono allora la polizia, l’esercito, la prigione e l’allontanamento dalle terre in cui si è sempre vissuto.
Così molte comunità native, ed in particolare il popolo dei Mapuche, stanno conducendo una determinata lotta di resistenza per opporsi ai criminali progetti di sfruttamento dei grandi capitalisti che hanno invaso la Patagonia, ed alla politica di emarginazione e repressione che viene loro riservata dallo Stato argentino e da quello cileno per pacificare le floride
estancias . (...)"

Di Benetton molti conoscono e taluni apprezzano la spregiudicatezza con cui, attraverso le scioccanti campagne pubblicitarie, il gruppo si dimostra tanto sinceramente turbato dalle piaghe che affliggono l’umanità intera. Parecchi sono disposti a riconoscere a questa gente, sulla base di una politica aziendale che di volta in volta sposa le cause di un po’ tutte le minoranze oppresse, non solo di avere l’animo colmo di buoni sentimenti, ma anche il merito di prodigarsi concretamente affinché il mondo possa diventare migliore, un giorno. È veramente bello e generoso da parte loro.

Beh! Siamo davvero spiacenti di deludere i fans: la Benetton è essa stessa una piaga del nostro tempo, i suoi dirigenti di colmo hanno soltanto il portafogli e se il mondo è sempre un po’ peggiore di prima lo dobbiamo indubbiamente anche a costoro. Dietro la facciata da paladino della società multirazziale si nasconde infatti la faccia da culo di una delle società per azioni più direttamente responsabili di quelle stesse ingiustizie così provocatoriamente denunciate dalla corrente artistica legata all’ineffabile Oliviero Toscani (cresciuto proprio con Benetton).

Questo il nostro vero obiettivo: sporcare quella bella immagine fatta di colori sgargianti e colpi ad effetto; evidenziare ciò che non si riesce a leggere sul rovescio delle etichette appiccicate a quei capi di abbigliamento: i nomi dei tanti che sono stati spogliati di ogni cosa per permettere a pochi di accumulare privilegi, agi, ricchezze, per "costringere" molti altri ad indossare giubbini e T-shirt di marca. Nomi di migliaia di uomini e donne cui sono state tolte le case, la terra, l’acqua, nomi di poveri di cui non conosciamo né i volti né la storia personale, vite oltraggiate di cui possiamo avvertire soltanto l’eco di un dolore sordo. Un’eco fragile eppure piena di una dignità intatta, che persuade e incita, se non si è completamente rincoglioniti, se si intuisce di trovarsi, come è del caso nostro, tutti sulla stessa barca. Sono gli sfruttati del nostro tempo quelli sloggiati dall’arroganza capitalista di Benetton, che al posto loro ha messo a pascolare centinaia di migliaia di pecore politicamente corrette. Noi, per considerazioni su cui non serve dilungarsi oltre, non ci riconosciamo affatto fra le pecore, e ci sentiamo piuttosto al fianco degli sloggiati.

"La Benetton" è dunque tra i maggiori responsabili della sottomissione di un intero popolo, della negazione della sua cultura tradizionale. Contemporaneamente si adopera nel saccheggio di un’intera regione, introducendo l’allevamento industriale di ovini in luogo delle colture originarie, accaparrandosi il corso dei fiumi, privando i villaggi dell’acqua. Se è evidente che soltanto togliendo di mezzo la gente che ci abita è possibile appropriarsi di un territorio, altrettanto evidente dovrebbe essere la conseguenza di tutto questo: mancando di coloro che vivevano in modo armonioso con la terra, quest’ultima si impoverisce. È un dato di fatto che l’arrivo di Benetton in Sud America sia stato socialmente ed ecologicamente devastante. Ciò non può sfuggire a chiunque si interessi della questione, a chiunque abbia la curiosità e il coraggio di sbirciare dietro le etichette. A testimoniare quanto, per la portata del suo crimine, sia divenuto quasi banale criticare Benetton, basti ricordare che la campagna di mobilitazione contro la multinazionale, anche nel solo territorio italiano, a cominciare dal 1996, ha comportato decine e decine di volantinaggi, presidi, inviti a boicottare i prodotti e i servizi del Gruppo, piccole e grandi azioni di sabotaggio, raccolte di fondi per l’acquisto di bestiame da parte dei Mapuche e a sostegno di quanti, a seguito della repressione, sono reclusi nelle carceri cilene e argentine. Innumerevoli individui hanno concretizzato così la volontà e il desiderio di solidarizzare con gli oppressi nel migliore modo possibile: estendendo la loro lotta proprio nel paese da cui provengono gli oppressori. Insomma, non siamo stati né i soli né i primi, e men che meno i più brillanti, ad aver avuto la bella idea di criticare praticamente la ditta del sior Luciano, questo sarto brizzolato che, con il filo dell’ipocrisia, cuce insieme i sentimenti più nobili ed elevati di amore per il prossimo con le peggiori forme di schiavitù economica e sociale.

È il caso forse di sottolineare che non è solo per denunciare le nefandezze che accadono in Patagonia che abbiamo deciso di passare una mano di colore sulla grigia collezione autunno-inverno. Riteniamo che ciò che fa Benetton (uno tra i tanti) nuoccia gravemente alla salute e infeltrisca il piacere che si può trarre dalle proprie esistenze anche qui, imponendo delle condizioni di lavoro sempre più precarie e alienanti, determinando situazioni di sopravvivenza sempre più stentate, colme di desideri fittizi e falsi bisogni.

Sappiamo bene che dentro ogni tribunale in cui vengono giudicati dei reati commessi da individui che si rifanno più o meno espressamente a dei princìpi rivoluzionari, e ancor più nei tempi odierni, quando il solo far valere il puro e semplice istinto di conservazione equivale a mettere in discussione la totalità di ciò che ci circonda, nei tribunali, si diceva, il giudizio si riferisce meno al fatto in sé che non al soggetto che lo compie, alle riflessioni che ispirano quest’ultimo e alle concezioni del mondo che lo caratterizzano piuttosto che ai reati che gli vengono effettivamente contestati.

D’altra parte siamo perfettamente in grado di relativizzare la portata complessiva del nostro gesto come delle parole che lo spiegano: abbiamo l’assoluta certezza che l’intera famiglia Benetton e i loro collaboratori non si stanno certo cagando sotto per quello che abbiamo avuto la sfrontatezza di compiere. Ce ne possiamo al limite rammaricare, ma poiché siamo pastori e perdigiorno non crediamo sia il caso di fare tanto i gradassi.

Ancora due parole per ribadire che i Mapuche non ci sembrano affatto lontani da qui. L’aggressione che essi subiscono è in parte anche quella che patiamo noi; quando siamo in malga con le mucche o a passeggiare sulle cime che non sentiamo di aver conquistato, su quelle montagne che sentiamo nostre, di cui ci sentiamo parte, capiamo sempre di più come ci stiano togliendo il terreno da sotto i piedi. La devastazione dei luoghi in cui siamo nati, e in cui tutt’ora viviamo, avanza a ritmi sempre più vertiginosi, a colpi di impianti sciistici, gallerie, tangenziali, inceneritori, insediamenti industriali e turistici, a colpi di un’assenza di pensiero che intende la natura nella maniera più idiota, quale terreno a completa disposizione della irresponsabilità dominante. Di pari passo a tale devastazione procede la scomparsa di ciò che rappresenta il legame essenziale tra noi e gli altri: la memoria delle gioie e delle fatiche, delle passioni e delle lotte, delle sofferenze e degli slanci di chi ci ha preceduto in queste valli. Ciò che ci attende è la triste sorte di non essere nessuno da nessuna parte.

Ecco, condividiamo lo stesso destino, noi e i Mapuche, il destino di chi rischia di venir braccato e ridotto in cattività. Solo un dettaglio fa la differenza. Un dettaglio a partire dal quale potremmo cominciare, noi, qui, a fare una vita differente: essi conservano ancora la chiara coscienza del mondo per cui si battono. La strenua lotta per resistere allo sradicamento cui vogliono condannarli coincide con quella per custodire l’autonomia nel determinare la propria identità, le loro quotidiane esistenze. Le capacità artigianali che consentono loro di procurarsi di che vivere autonomamente, il patrimonio comunitario dei saperi, la gestione assembleare delle questioni di interesse comune, la stessa incapacità di concepire la proprietà dell’acqua, privata o pubblica che sia, tutto questo è qualcosa di cui non vogliono essere privati, né ora né mai. La possibilità da parte loro di preservare tutto questo coincide con la nostra voglia di riconquistarlo. Un’utopia in atto: è questo il regalo che abbiamo ricevuto quando qualcuno ci ha raccontato per la prima volta qualcosa sul conto dei Mapuche. Così, cercando sull’atlante la strada per raggiungere quell’utopia siamo passati per Cles, dove con tutta la gentilezza di cui siamo maldestramente capaci abbiamo pensato bene di restituire un favore.

Cles, 3 dicembre 2003


[Il processo, a causa di un disguido tra giudice e pm, si è concluso con una condanna a 200 euro di multa. La stessa mattina, a Riva del Garda, l'interno di un negozio Benetton è stato imbrattato]