Nella sua esigenza di totalità, di sconvolgere il mondo che conosciamo nel suo insieme, la rivolta non può non estendersi anche all’ambito delle parole e delle immagini, dove l’arte occupa uno spazio predominante. A sua volta l’arte non sopporta limiti e regole, di cui è nemica per natura; ecco perché spesso si è giunti a legare intimamente l’arte alla rivoluzione, a vedere gli artisti come rivoluzionari e viceversa.

Per questi motivi, le avanguardie artistiche che si sono richiamate più o meno esplicitamente al progetto rivoluzionario (dadaismo, futurismo, surrealismo, Internazionale Situazionista) sono state sovente portate come dimostrazione pratica della sostanziale complicità fra arte e rivoluzione ed hanno sempre esercitato un certo fascino, rappresentando secondo alcuni il "superamento dialettico" dei limiti dell’arte e della politica.

In sostanza sono state date tre interpretazioni dei rapporti che dovrebbero intercorrere tra arte e rivoluzione. C’è chi pensa che entrambe debbano mantenere la propria autonomia, trattandosi di due ambiti differenti con principi propri, che non bisogna confondere se non si vuole correre il rischio di fare una cattiva arte e una rivoluzione sulla carta. C’è poi chi sostiene che l’arte debba essere messa al servizio della rivoluzione, diventandone la reclame pubblicitaria, uno strumento fra mille altri da impiegare per la causa. Infine c’è chi considera la rivoluzione un soggetto poetico, una fonte da cui prendere spunto per creare nuove opere d’arte, poiché come tutti sanno le rivoluzioni passano mentre l’arte è eterna.

Ma si sa che, pur invertendo i fattori di una operazione, il risultato finale non cambia. In effetti ci sembra che un dibattito così impostato si basi su un presupposto di fondo che riteniamo privo di fondamento, cioè l’accettazione dei concetti di "arte" e "rivoluzione" così come ci sono stati tramandati dalla cultura istituzionale: l’arte intesa come produzione di opere in possesso di un loro valore intrinseco e la rivoluzione intesa come l’abbattimento più o meno violento del vecchio ordine statale per l'instaurazione di uno nuovo.

In realtà a porsi questo genere di problemi sono gli artisti e i politici, ripugnanti razze di specialisti spesso alle prese con i propri problemi di coscienza e di strategia, affetti dalla convinzione di possedere una funzione sociale infinitamente superiore a quella della maggioranza degli individui. Sono proprio gli artisti ed i loro adulatori i soli a non avere compreso che «l’arte è un prodotto farmaceutico per imbecilli» (Picabia).

Noi la equipariamo ad un supermercato dell’estetica, ad un letamaio per maiali compiaciuti, ad un trampolino di lancio per miserabili in cerca di successo e di gloria. L’artista, questa meschina vittima delle proprie angosce e nevrosi esistenziali, questo castrato che quando frequenta la rivolta lo fa solo per trarne ispirazione e che crede davvero che la sua "creatività" (cioè la sua efficienza lavorativa) possa essere utile a qualcosa che non sia il suo conto in banca. Si considera artista chiunque si compiaccia di firmare autografi o di venire intervistato, chi per differenziarsi dal gregge umano sente il bisogno di salire sul piedistallo artistico per usufruirne dei privilegi.

Ogni tentativo di rivalutare l'arte è destinato al fallimento, perché l’arte porta in sé le cause della sua miseria. È inutile versare fiumi di inchiostro per decantarne il valore, gli effetti terapeutici, l'origine primordiale. Persino la distinzione fra arte accademica e arte sovversiva, l’ipotesi dell’esistenza di un’arte rivoluzionaria (così come l’hanno immaginata i dadaisti, i surrealisti e i situazionisti) serve a dare ossigeno ad un cadavere che bisogna seppellire una volta per tutte.

Allo stesso modo bisogna farla finita con un altro cadavere che continua a impestare l’aria, la politica, che non è espressione della vita umana, ma ne è la regolamentazione, la sottomissione ad uno Stato cui viene delegata. Tutto ciò che abbiamo detto sugli artisti si attaglia bene anche ai politici, a queste canaglie che modellano l’esistenza in base a programmi e risoluzioni, mozioni d’ordine e candidature, congressi ed assemblee, commissioni e partiti. Così, mentre l’artista misura il suo successo in base alla vendita delle copie dei suoi prodotti, delle recensioni ottenute, dei passaggi televisivi; il politico trova la dimostrazione della propria ragione d’essere nel numero di tessere del partito cui appartiene o dei voti ricevuti durante le ultime elezioni.

Ecco perché i cosiddetti artisti rivoluzionari non possono costituire il superamento di vecchi limiti, avendo unito alla tara artistica quella politica. Solo a partire dalla distruzione di arte e politica si apre una possibilità di trasformazione.

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Le avanguardie artistiche e quelle politiche hanno molti difetti in comune. Entrambe certe di possedere una capacità superiore agli altri nel proprio campo specifico, pretendono di erudire "chi è rimasto indietro", finendo così con l’indicare, il teorizzare, lo scomunicare. Il lato comico è che non si rendono conto che alla stragrande maggioranza delle persone non interessa proprio nulla della loro attività specifica, e che la rivoluzione di cui vanno cianciando non si farà grazie al loro apporto ma contro di loro. Se gli artisti rappresentano la vita e i politici la amministrano, a noi interessa viverla, godercela il più intensamente possibile.

Solo in una data prospettiva è possibile fare una distinzione fra artisti e politici. Se questi ultimi agiscono in funzione del potere, fra i primi si possono trovare persone che credono malgrado tutto alla "purezza" dell’arte. Nel passato, quando il mercato dell’arte non era sviluppato com’è oggi e la sirena del denaro non era in grado di attrarre gli arrivisti che oggi costituiscono l’insieme del panorama artistico, molti artisti erano animati da genuine aspirazioni creative, senza fini commerciali. Ciò che questi (pochissimi) artisti hanno realizzato teoricamente e praticamente, pur con tutti i loro limiti, spesso non manca di avere aspetti interessanti.

Ecco perché i contributi che le avanguardie artistiche hanno dato devono sì venire sottoposti ad una serrata critica, ma non possono venir tralasciati o sottovalutati. Per questo motivo intendiamo esaminare la storia e l’opera delle varie avanguardie artistiche, o di singoli artisti, per vedere se e come sia possibile rivitalizzarne quegli elementi che riteniamo validi ed attuali.

Così, piuttosto che censurare o esaltare le diverse correnti artistiche, cercheremo di strappare alla loro parzialità quegli strumenti che, posti in una dimensione rivoluzionaria, possono acquisire forza e vigore.

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**Jules-François Dupuis, *Controstoria del surrealismo***

pp. 104 - Euro 4,70

Uno dei primi libri che pubblichiamo è la "Controstoria del surrealismo" *di J.-F. Dupuis (Raoul Vaneigem), perché riteniamo che dopo il surrealismo non possano esistere più dubbi circa la funzione sedativa della produzione artistica. I libri dei surrealisti sono oggi ben allineati nelle biblioteche e nelle librerie di tutto il mondo, i loro quadri adornano le pareti di musei e gallerie. Questa abbondanza di opere, se da un lato decreta il loro successo, dall’altro evidenzia il fallimento di quella tensione libertaria che animava in origine il movimento surrealista. Infatti di tutta la loro vasta ricerca, ricavarono essenzialmente un metodo di scrittura o di pittura, finendo coll’indirizzarsi verso una produzione che sacrificava ogni principio e aspirazione sovversivi alle necessità delle opere, accentuando così l’importanza di quadri e libri. L’altra possibilità, quella che riuscirono soltanto a rasentare e che costituisce il motivo del nostro interesse per il surrealismo, metteva decisamente in secondo piano la produzione di opere per evidenziare invece l’esistenza. Partire dalla coscienza del valore del Meraviglioso non per produrre ma per vivere: ecco una via che avrebbe potuto condurre alla sovversione sociale e che i surrealisti non ebbero il coraggio di percorrere.
Oggi non ci sono più equivoci — tutti coloro che continuano a definirsi artisti sono semplicemente servi, miseri lacché dell’ordine sociale. Vantarsi di essere un artista è disprezzabile quanto il vantarsi di essere un politico, un operaio o un intellettuale.
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**Benjamin Péret, *Non ne mangio di quel pane***

pp. 80 - Euro 2,60

Per motivi analoghi consideriamo importante l’opera di Benjamin Péret, poeta surrealista e rivoluzionario. Di fronte a Péret, che mai giocò a fare il veggente, il maledetto, il posseduto; che scriveva le sue poesie tutte d'un fiato, senza correzioni, come si beve un bicchiere di vino o si accarezza la persona amata; che davanti agli amici che gli citavano i suoi stessi versi rimaneva perplesso, non riuscendo mai a indovinarne l’autore; che non diede mai un prezzo a ciò che scriveva, campando coi lavori più semplici ed umili; di fronte a lui gli artisti odierni mostrano ciò che sono: impotenti funzionari dell’estetica, porci che si rotolano nella propria presunzione e vanità, tossici spacciatori di mediocrità.
Di Benjamin Péret pubblichiamo le poesie dissacratorie di
"Non ne mangio di quel pane", assieme ad alcune lettere spedite ad André Breton dalla rivoluzione spagnola a cui partecipò prima nelle file dei comunisti antistalinisti e poi a fianco degli anarchici, per indicare una delle figure che più si avvicinarono ad incarnare quella unione fra sogno e azione tanto auspicata dai surrealisti e la cui realizzazione significherebbe la definitiva scomparsa degli artisti e dei politici, degli intellettuali e dei militanti, di tutte le categorie e le specializzazioni che strangolano questo mondo.
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Due libri per cominciare a sottrarre allo spento grigiore dei cenacoli culturali i vivaci colori della rivolta vitale.

 
 

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