Adesso - Foglio di critica sociale - Rovereto, 13 ottobre 2005 - Numero 22

UNA PESTE CHIAMATA DIALOGO (FITTIZIO)

Se esiste un vero e proprio anestetico della coscienza, questo è la convinzione che il dialogo sia sempre e comunque un fatto positivo. Indipendentemente dal contesto e da chi è coinvolto nella discussione, rifiutare il confronto sarebbe di per sé intolleranza, violenza, oppure spocchia e chiusura mentale.

Non ci stancheremo mai di ripetere che un dialogo è tale quando gli interlocutori sono su un piano di reciprocità, liberi nel porre i problemi e nel cercare le soluzioni. Quando le decisioni sono già state prese e la discussione è una messa in scena per far meglio accettare il potere di alcuni sugli altri, allora non c’è dialogo, ma solo un’impostura ben rodata.

Facciamo alcuni esempi tratti da esperienze recenti.

Venerdì 30 settembre e sabato 1 ottobre si è svolto a Rovereto, nella sala conferenze del Mart, un convegno su come ricostruire nelle situazioni di “post-conflitto”. All’iniziativa hanno partecipato alcuni “studiosi pacifisti”, seduti allo stesso tavolo di chi la guerra la vuole, la fa, la arma e la finanzia. Nel volantino e nel resoconto di cui riproduciamo ampi stralci in questo numero di Adesso spieghiamo in modo più preciso chi erano gli invitati e perché, assieme ad altri antimilitaristi, li abbiamo rumorosamente contestati.

Quello che ci ha sbalordito (la nostra capacità, per qualcuno patetica, di sbalordirci e di indignarci ce la teniamo stretta, accarezzandola e affinandola) è stato l’atteggiamento di chi ci invitava a discutere con generali e fabbricanti di armi. Non ci riferiamo ovviamente alle consuete falsificazioni o ricostruzioni interessate da parte dei giornali, ma alle affermazioni di chi ci ha detto che “tutti hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni”. Come se bombardare popolazioni intere o produrre missili fosse un’opinione; come se i “signori della guerra” invitati al convegno si limitassero ad esprimere dei pareri e non producessero dei fatti. Solo percependo la guerra come un avvenimento lontano – un’immagine televisiva o una notizia di cronaca – ci si può permettere un simile atteggiamento. Chiediamolo ad un iracheno a cui la guerra ha sterminato i cari o distrutto il villaggio se è disposto a discutere democraticamente con chi ha votato, finanziato, realizzato quel massacro chiamato “operazione umanitaria”. Qui invece, al riparo dalle bombe e accecati dall’indifferenza, dialogare con degli assassini di professione diventa addirittura un segno di superiorità morale. Come se qualcuno potesse perdonare violenze che non ha subìto, facendo l’animo nobile a spese di altri esseri umani per i quali non ha mai mosso un dito. Che meraviglia, questa civiltà del dialogo.

Una simile “nonviolenza”, in fondo, è un perfetto alibi per imbalsamarsi nella comodità e nell’inerzia, è una costante, subdola diseducazione etica e sentimentale che consiste nel chiudere gli occhi di fronte alla vita reale e ai vivi, per volteggiare in un cielo vuoto dove ognuno è separato dalla propria pratica e le idee circolano come merci. Questo grande spettacolo, in cui le opinioni sembrano governare il mondo, ha un nome ben preciso: Politica.

Prendiamo il circo delle primarie. I “disobbedienti” – che in parte escono da quella che fu l’autonomia operaia – hanno sottoscritto il programma di governo dell’Unione. Tra i punti per loro irrinunciabili ci sono il ritiro delle truppe dall’Iraq, la chiusura dei CPT (i lager per immigrati senza documenti) e la lotta alla precarietà. Ma come si fa a pretendere di perseguire simili obiettivi assieme a chi ha bombardato in Kosovo e appoggiato l’invio di truppe in Afghanistan, quando non addirittura in Iraq stesso; assieme a chi i CPT li ha istituti con la legge Turco-Napoltino (passata anche grazie ai voti di Rifondazione Comunista e dei Verdi); assieme a chi (dai Ds a Bertinotti) ha varato il “pacchetto Treu”, quell’insieme di norme che ha legalizzato tra l’altro le agenzie interinali, cioè la compravendita di manodopera da subappaltare? Semplice. Ancora una volta, in nome del dialogo fra posizioni diverse – come se la guerra, i lager e la precarietà fossero delle “posizioni” e non una realtà sociale.

Visto che le pagliacciate non vengono mai da sole, questi “antagonisti” hanno un loro “candidato senza volto”, Simona Panzino, la quale indossa il passamontagna “zapatista”, per l’occasione agghindato con i colori dell’arcobaleno della pace. Anche i “disobbedienti” trentini della Tana partecipano con un loro rappresentante al tavolo dell’Unione. Hanno fatto spesso finta, questi “incursori del movimento nelle istituzioni”, di indignarsi quando li attaccavamo in quanto collaborazionisti dello Stato e nemici di ogni autonomia reale, ora si presentano alle elezioni con il passamontagna. La chiarezza è sempre una bella cosa. Le critiche argomentate possono ormai tranquillamente cedere il posto a una distratta scorreggia.

Ma lasciamo queste cornacchie della politica istituzionale per concludere con una nota di speranza. Un inizio incoraggiante di dialogo pratico lo abbiamo trovato in Val di Susa, in Piemonte, tra una popolazione in lotta contro il progetto (sostenuto soprattutto dai Ds per conto della Fiat) di un Treno ad Alta Velocità. La gente di lì si oppone ormai da quindi anni a una simile opera che devasterebbe una valle intera per far viaggiare più rapidamente merci e manager. Da giugno, i terreni dove i signori del Progresso vorrebbero cominciare i sondaggi sono presidiati in permanenza dai comitati No Tav. Via via, grazie alla collaborazione di molti abitanti, i presidi si sono trasformati in luoghi di socialità e di riflessione collettiva, frequentati da bambini, adulti e vecchi. Dalla convivialità alla documentazione, dalle assemblee alle iniziative di lotta, i comitati popolari sono un piccolo esempio di autorganizzazione, di decisione orizzontale, di autoeducazione alla libertà. È a partire da esperienze simili che si può immaginare un modo collettivo di affrontare i problemi e di cominciare a risolverli, senza separazioni fra chi decide e chi esegue. È a partire da questa “politica”, nata in strada, e non certo tra l’aria insalubre delle sedi di partito, che si può immaginare la possibilità di creare le basi per una vita senza deleghe né false partecipazioni.

Lampi

Nella notte fra il 15 e il 16 settembre, a Rovereto, la sede della Banca Nazionale del Lavoro è stata bersagliata con la vernice rossa. Secondo i giornali, in un volantino si faceva riferimento alle sue responsabilità nel finanziamento della guerra. La stessa banca era stata colpita anche durante il corteo del 12 marzo contro ogni fascismo.

Martedì 4 ottobre il consiglio comunale di Trento ha votato a favore della realizzazione dell’inceneritore ad Ischia Podetti. La minoranza (fra cui Rifondazione) ha avuto la brillante idea di proporre lo scrutinio segreto, sperando di racimolare così il voto contrario di qualche consigliere della Margherita o dei Ds. E’ avvenuto l’esatto contrario, ed ora non si sa neanche chi ringraziare personalmente per questa ennesima scelta del profitto e dell’inquinamento. Benché serva ancora l’approvazione in consiglio del progetto definitivo, si può dire che la partita si giochi ora nelle piazze. Lì si vedrà l’opposizione reale.

Sempre il 4 ottobre, il consiglio provinciale di Trento doveva decidere in merito alla riforma dell’Itea voluta dalla Margherita e dai Ds. La mattina qualche centinaio di inquilini aveva manifestato la propria contrarietà alla privatizzazione delle case popolari. La discussione è stata rinviata a fine mese. Il centro-sinistra è riuscito finora in un’impresa davvero notevole: far esprimere i consiglieri di Forza Italia contro la svendita dell’edilizia pubblica e per la difesa dei “ceti più deboli”…

Domenica 9 ottobre, a Rovereto, il Museo della guerra ha portato in piazza carri armati e altri reperti del secondo conflitto mondiale. Gli anarchici erano attesi come contestatori della presentazione ufficiale affidata al sindaco e ai responsabili del museo. Diversi poliziotti e carabinieri presidiavano la zona. I compagni sono arrivati prima del previsto e, dopo aver appeso uno striscione che diceva “Guardare le armi del passato per disertare le guerre del presente”, hanno stravolto il senso dell’iniziativa spiegando di aver portato lì quegli strumenti di morte per ricordare che la guerra è ancora una realtà, per pretendere il ritiro delle truppe dall’Iraq e per scusarsi con la cittadinanza, a nome del Museo storico, per gli assassini invitati al Mart la settimana prima…

Contro la frenesia del produrre e la nefasta nozione di progresso, ecco un programma sensato:

“Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunciare a quelli che ha. (…) Agli inizi formeremo appena delle piccole comunità, isolette sparute in mezzo allo sciaguattare dell’attivismo (…). E un giorno saranno gli altri, gli attivisti, a ridursi in isola; poche decine di longobardi febbrili aggrappati a rotelle e volani, con gli occhi iniettati di sangue (Luciano Bianciardi, La vita agra*, 1962)”.*

SIGNORI DELLA GUERRA NELLA “CITTÀ DELLA PACE”

Oggi [30 settembre] e domani, nella sala conferenze del Mart, si svolgerà un convegno dal titolo: “Le armi della Repubblica. Forze armate, ONG ed Industria nelle situazioni di post-conflitto”.

All’incontro parteciperanno, oltre a professori universitari e studiosi, generali dell’esercito, alti gradi dei carabinieri, della Marina militare e della Guardia di finanza, diplomatici della Nato e dell’Unione Europea, rappresentanti della Banca Mondiale e di alcune delle maggiori aziende produttrici di armi (fra cui l’Iveco Difesa e l’Oto Melara). In tale contesto, diranno la loro anche alcuni responsabili della Caritas e di diverse Organizzazioni Non Governative.

Il convegno è promosso dal Museo Storico della Guerra, da “Mine Action Italy”, un’associazione per lo sminamento, e dalla Società Esplosivi Industriali, un’azienda che fabbrica armi dal 1933 e che si occupa – come recita il suo sito internet – “di sviluppo e produzione di Teste in Guerra per Bombe, Missili, Siluri, Mine […]”. Il tutto, sponsorizzato da nove multinazionali che producono armi o supporti logistici per l’esercito (come la Selex communications, la MBDA Italia, la Oerlikon Contraves, la Calzoni).

La guerra, i massacri, la distruzione, i genocidi diventano così un semplice tema da conferenze, con portavoce di veri e propri organismi di assassini (Nato e Banca Mondiale) che discutono con sedicenti pacifisti su come ricostruire nelle situazioni di “post-conflitto”. Produttori di armi e medici senza frontiere, generali e giornalisti, tutti assieme per dei “risultati utili”, “oltre le ideologie e la polemica fine a se stessa” (come ha dichiarato Michele Nones, dell’Istituto Affari Internazionale, sul Trentino di ieri). Come se esistesse un “post-conflitto” senza prima bombardamenti e morti; come se la guerra non fosse ormai una condizione permanente imposta dagli Stati e dal mercato. Come se il governo italiano non fosse già impegnato in un’“operazione umanitaria” che, dal 1991 ad oggi, ha provocato più di un milione e mezzo di morti in Iraq.

Quello che in pochi hanno detto per anni oggi viene reso pubblico: fra gli eserciti e le ONG non c’è né opposizione né incompatibilità, bensì totale complementarietà (“soggetti eterogenei ma spesso compartecipi”, ci informa il dépliant). Qualcuno produce mine, qualcun altro dopo le toglie. Qualcuno distrugge, qualcun altro ricostruisce. Qualcuno bombarda, qualcun altro discute. Viva la democrazia. […]

Non permettiamo che questo incontro di professionisti della guerra e dei loro falsi oppositori si svolga tranquillamente. Non permettiamo che la politica del massacro diventi una mera opinione. Il comune di Rovereto – che l’ipocrisia ufficiale chiama “città della pace” – dovrà assumersi le proprie responsabilità. […]

(volantino distribuito a Rovereto il 30 settembre e l’1 ottobre)

UN’INIZIATIVA ANTIMILITARSITA E UNA PROPOSTA

(resoconto diffuso nei giorni successivi)

Il banchetto della guerra ospitato dal Mart è stato pubblicizzato assai in sordina, quindi lo abbiamo saputo all’ultimo momento. Così, dopo aver volantinato per tutta la giornata di venerdì, abbiamo dato appuntamento agli antimilitaristi per il sabato mattina. A una ventina di anarchici – il cui striscione diceva “Eserciti, produttori di armi assassini, fuori le truppe dall’Iraq” – si sono uniti alcuni studenti medi che avevano letto il volantino la mattina stessa. Il convegno è stato rumorosamente contestato (sirene, petardi, fischietti, pentole…), costringendo i relatori a parlare protetti prima da alcune divise e poi da un plotone di carabinieri e celerini. Dopo qualche ora i contestatori sono partiti in corteo spontaneo per la città, spiegando al megafono chi erano i trafficanti di morte invitati a Rovereto. Dopo vari interventi, gli antimilitaristi ritornavano al Mart assieme a qualche passante solidale che si era unito alla manifestazione. I turisti in visita al museo sono dovuti passare attraverso un cordone di polizia, mentre i nostri continuavano a parlare, fischiare e distribuire volantini. Qualche altro studente si univa, qualche visitatore si fermava. Finito il convegno, produttori di armi e militari sono dovuti andarsene da un’uscita secondaria, dopo che i manifestanti avevano bloccato un’auto con a bordo due generali, scortati a piedi dai carabinieri. Dal davanti sono usciti solo i relatori “pacifisti”. Sicuro dietro il suo atteggiamento di “uomo di sinistra”, il direttore del Museo della Guerra – colui che ha organizzato il convegno – pensava di risolvere il tutto con una serena chiacchierata. Si sbagliava, ed ha rimediato un uovo in testa. Come se invitare rappresentanti della Nato, della Banca mondiale e altri produttori industriali di cadaveri fosse un’opinione! I giornali hanno taciuto sia il convegno che la contestazione, oppure hanno riferito solo l’episodio dell’uovo. Non una parola sui fabbricanti di armi e gli altri galantuomini invitati al Mart. Ricorderemo a lungo questo convegno al Comune di Rovereto, che si fregia ipocritamente dell’appellativo di “città della pace”.

L’aspetto positivo della giornata è che siamo riusciti a fare ai produttori di morte la pubblicità che meritavano. Quello avvilente, l’essere stati in così pochi a farlo: le varie associazioni pacifiste o non c’erano, oppure erano presenti fra il pubblico, a spiegare le ragioni della pace a chi ha fatto soldi e carriera sulla guerra…

E’ evidente che con una opposizione al militarismo e al suo mondo così compromissoria e collaborazionista non si va da nessuna parte: ci vuole un rifiuto ben più fermo, ostinato e coerente per contrastare la guerra degli eserciti e la pace dei capitali. Innanzitutto, per pretendere il ritiro delle truppe dall’Iraq.

Proponiamo a tutti gli interessati di realizzare una mappatura dell’industria bellica in Italia (e della relativa ricerca scientifica e tecnologica, legata anche alle università). Dare ai bombardatori e ai loro stretti complici nome e indirizzo è un passo necessario per un’opposizione concreta ai signori dello sfruttamento e della guerra. L’indirizzo per contattarci è: navedeifolli@gmail.com

antimilitaristi senza se e senza ma

(Tra le varie informazioni spediteci, che raccoglieremo successivamente in un dossier, segnaliamo quelle locali: L’Iveco, che a Bolzano produce blindati per l’esercito, è finanziata dalla Banca Intesa e dalla Banca San Paolo Imi. La Banca Intesa è oggi proprietaria della maggioranza del pacchetto azionario della Banca di Trento e Bolzano).

Marginalia

In questa rubrica segnaleremo, di volta in volta, alcuni libri che ci sembrano degni di nota.

Michel Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

Un’analisi lucida e senza fronzoli della società israeliana. Pubblicato in Francia da La Fabrique – punto di riferimento per gli studi sul conflitto israelo-palestinese e per la critica senza ambiguità del sionismo e di ogni forma di nazionalismo –, il libretto di Warschawski è ora disponibile in italiano. L’autore è un dissidente israeliano che da trent’anni si batte contro la guerra e contro la segregazione dei palestinesi. Non si tratta di un rivoluzionario, bensì di un coraggioso e conseguente democratico radicale.

La tesi centrale del libretto è che la disumanizzazione degli arabi condotta dallo Stato di Israele ha portato ad una crescente disumanizzazione della stessa società israeliana, sempre più militarizzata e paranoica, in preda al fanatismo e all’aggressività. Mano a mano che cresce il potere dei vertici dell’esercito, l’atteggiamento brutale del colono si diffonde tra i giovani e pervade le forme della vita quotidiana, irregimentandola. L’equazione “palestinesi=terroristi”, rafforzata in seguito alla martellante propaganda che i partiti di destra come di sinistra hanno orchestrato dopo l’11 settembre, giustifica apertamente rastrellamenti, massacri indiscriminati e continue vessazioni, e costringe gli stessi israeliani a vivere in una sorta di cittadella in cui ogni libertà individuale è cancellata. Quando i partiti di sinistra lanciano lo slogan Separazione subito, qualche sionista di estrema destra può spingersi fino a scrivere Shoah per gli arabi! (nel testo di Warschawski c’è una sezione dedicata alle scritte murali e agli autoadesivi che l’autore ha osservato e annotato a Gerusalemme). In un simile clima, gli uomini politici discutono tranquillamente, nel corso di dibattiti televisivi, dell’eventualità di bombardamenti nucleari. Lo Stato di Israele – in cui non esiste costituzione e qualsiasi garanzia legale può essere sospesa in una sorta di stato di emergenza permanente – sembra l’avamposto di una tendenza planetaria. Quello che A precipizio sobriamente contiene “altro non è che il grido della dignità umana e del rifiuto di capitolare dinanzi alla brutalità”.

LAMPI

E’ stata rinviata al 28 gennaio l’udienza del 27 settembre contro una quindicina di anarchici per l’ occupazione del “Bocciodromo 3”. Per l’occasione i compagni sono scesi in piazza contro la repressione e per gli spazi autogestiti.

Il 12 ottobre, invece, 7 anarchici sono stati assolti in corte d’appello, a Trento, per “furto aggravato di energia elettrica” (con questa accusa nove erano stati arrestati durante lo sgombero dell’ultimo Bocciodromo e sette condannati in primo grado a sei e a otto mesi di carcere).

Nella notte fra l’11 e il 12 ottobre, le vetrine di tre agenzie immobiliari roveretane sono state sfasciate. Un giornale – ottimista – ha scritto che simili azioni si ripetono ogni due, tre mesi.