Titolo: Adesso - Foglio di critica sociale - Rovereto, 31 dicembre 2002 - Numero 11

Guai ai ricchi

Dopo tre mesi di assenza, eccoci con un nuovo numero di Adesso. Tre mesi densi, indubbiamente, sia per gli attacchi statali e padronali sempre più pesanti (basta pensare alla sospensione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, al giro di vite complessivo con il pretesto della guerra al "terrorismo", alle leggi ancora più infami contro gli immigrati, eccetera), sia, nel nostro piccolo, per le iniziative in cui siamo impegnati (in particolare quelle contro il manicomio dorato di Madonna bianca a Trento).

Sperando di far circolare quanto prima dei testi sugli scellerati accordi europei in materia di "terrorismo" (con cui si criminalizza ogni forma di dissenso, dall'occupazione di edifici allo sciopero autorganizzato, dal blocco stradale alla guerriglia urbana), usciamo con alcuni racconti diretti e qualche riflessione su di un avvenimento che ci allarga il cuore: le sommosse generalizzate in Argentina.

Non ne parliamo per esotismo rivoluzionario (belle le rivolte... ma dall'altra parte dell'oceano), bensì perché i fuochi di Buenos Aires illuminano possibilità anche nostre. Contrariamente a quanto affermano gli apologeti della società tecnologica; contrariamente alle pretese dell'utopia capitalista di farla finita con ogni desiderio di rovesciare questo mondo, le insurrezioni non sono scomparse. La sommossa è stato il dato continuo dell'America Latina dalla fine del 1999 ad oggi. Tanto per citare gli eventi più significativi:

- lo sciopero generale e gli scontri fra proletari e polizia in numerose città del Paraguay;

- le barricate e gli assalti ai centri del potere in Ecuador (con gli insorti di Quito che si impossessano, per distruggerli, del palazzo del governo, del parlamento, della Corte suprema di Giustizia, di diversi ministeri e della Banca centrale);

- la radicalizzazione delle lotte e l'occupazione delle terre in Brasile;

- la perseveranza nelle vendette contro i boia dello Stato in Argentina;

- l'uso della dinamite contro le cave da parte dei minatori in rivolta in Cile;

- le importanti manifestazioni di sfruttati e i relativi scontri in Costa Rica e in Messico;

- la rivolta generalizzata in Bolivia.

Di tutto ciò la stampa europea non ha fatto cenno, oppure ne ha mistificato la natura, dividendo le sommosse di classe in tanti particolarismi sociologici ("manifestanti", "studenti", "giovani", "contadini", "indios", eccetera), al fine di seppellirne la portata sovversiva sotto le maschere corporative o etniche. In realtà, se è unico il processo che oppone lo Stato e i padroni ai poveri, uniche sono le ragioni della rivolta di questi ultimi.

La distanza compiaciuta in cui i giornalisti mantengono simili esplosioni "da sottosviluppo" diventa goffa e maldestra nel caso delle sommosse argentine. L'Argentina rappresenta l'esempio delle più attuali e civilizzate politiche neoliberali, altro che "terzo mondo"! L'Argentina è davvero dietro l'angolo. Non solo perché i responsabili diretti dell'affamamento e della miseria di laggiù sono sotto casa nostra, ma anche perché le condizioni sociali di qui vi assomigliano sempre di più.

Se a politici e mass media è stato possibile, ad esempio, ridurre le giornate di Genova a una protesta di militanti (alcuni "buoni e pacifici", altri "violenti", ma pur sempre militanti), ben diverso è quando in strada scende una classe nemica dell'ordine che è (quando - poco importa il numero dei rivoltosi - i distributori di pizza a domicilio lottano assieme ai vecchi dei quartieri, i giovani delle periferie assieme agli operai, i bambini lanciano le pietre contro la polizia e le donne distruggono il ruolo sociale che è loro imposto...). La guerra sociale è un futuro che ci guarda di spalle.

Più lasceremo soli gli insorti d'Argentina, più saremo soli con noi stessi, sempre più in compagnia dei nostri oppressori.

I fuochi di Buenos Aires

Testo ripreso da un articolo de "Il viaggio" (numero 3, gennaio 2002)

Il contagio della sommossa

Viste la mancanza di informazione indipendente e le falsità della propaganda dei "media" a proposito della situazione argentina, specialmente riguardo alla criminalizzazione di tutti gli individui che hanno resistito e combattuto contro la repressione poliziesca, vogliamo farvi arrivare queste righe su ciò che è realmente accaduto.

Anche se lo sfruttamento esiste da sempre in Argentina, negli ultimi anni la situazione dei lavoratori ha continuato a peggiorare, fino ad arrivare, oggi, ad un punto mai visto. L'applicazione del modello neoliberale ha mostrato la faccia più selvaggia dello sfruttamento capitalista, con un altissimo livello di disoccupazione, educazione e salute pubblica ridotte a uno stato penoso (come sempre...), il costo della vita alle stelle, i salari più bassi nella storia, poiché, essendo la moneta equiparata al dollaro, le merci hanno lo stesso valore di quelle americane. Di conseguenza, è impossibile vivere con stipendi da 150 pesos mensili e prezzi da USA.

Nella prima settimana di dicembre alcuni settori industriali, finanziari, sindacali e dell'opposizione peronista al governo di De la Rua hanno iniziato a sobillare la popolazione contro la svalutazione del peso rispetto al dollaro, la quale ha provocato la fuga di alcune decine di miliardi di dollari, mettendo in crisi il sistema finanziario.

Questo denaro è stato ritirato da grandi gruppi economici e dalle alte sfere del potere, messi al corrente a tempo debito dagli stessi banchieri. Il governo e il ministro dell'economia Domingo Cavallo (riciclato della dittatura militare e del governo menemista) hanno preso la misura di sopprimere i pagamenti in contanti, imponendo un limite di 250 pesos (o dollari) settimanali per i prelievi in banca. La mancanza di denaro liquido ha provocato la caduta a picco delle attività commerciali, file interminabili nelle banche e rotture nelle catene dei pagamenti. Il malcontento popolare è andato crescendo, un malcontento che già s'era fatto vivo durante le ultime elezioni di ottobre, in cui, nonostante l'obbligatorietà del voto in Argentina, l'astensione, i voti annullati o in bianco superavano il 30%.

Il partito "Justicialista" (peronista-menemista) ha tramato, appoggiato dalla CGT ufficiale e da quella dissidente (la CGT, infatti, è il sindacato maggioritario, peronista, che conserva un'ala "dissidente"), per destabilizzare e fa cadere il governo di De la Rua e tornare al potere (così come fece nell'89 contro il governo dei radicali di Alfonsin) che aveva lasciato nel '99. Attraverso i suoi dirigenti di quartiere ha incitato ai primi saccheggi nei supermercati (che questa fosse una buona cosa, lo si sussurrava già da un paio di mesi...), i quali nel giro di due giorni si sono velocemente diffusi, sfuggendo clamorosamente al controllo di chi li aveva organizzati. La partita gli è scappata di mano: come si sa, chi gioca col fuoco, si brucia.

In un paese dove ci sono 4 milioni di disoccupati e 14 milioni di uomini e donne vivono nella povertà; dove i negozi e i centri commerciali esibiscono in vetrina, nel miglior stile consumista, i prodotti più cari e quelli di lusso per il natale della gente agiata, arricchitasi durante la dittatura e più tardi con le privatizzazioni e le tangenti dell'epopca Menem, i saccheggi si sono presto convertiti in un atto di massa in tutte le zone più povere. Si portavano via carrelli e buste della spesa con carne, pasta, pannolini, prodotti casalinghi, ma anche lavatrici, frigoriferi, stereo, televisori... qualsiasi cosa.

Il 19 dicembre la polizia ha iniziato a reprimere duramente. Le grandi catene di supermercati hanno iniziato a distribuire buste di cibo per non essere saccheggiate (buste di cose per meno di 5 dollari di fronte ai miliardi di perdita negli espropri).

Ma nemmeno in questo modo è cessato l'effetto "contagio". La situazione si è fatta più difficile e intorno alle 23 dello stesso giorno il presidente De la Rua ha decretato lo stato d'assedio in tutto il paese per 30 giorni. La polizia è rimasta nei commissariati, e la "casa rosada" (dimora del presidente) e il Congresso protetti da forti dispiegamenti di poliziotti.

Immediatamente los cacerolazos (pratica che consiste nel battere pentole e quant'altro per protestare) iniziarono a risuonare dalle finestre dei quartieri di Buenos Aires. Se fino a quel momento la protesta si egira concentrata nelle zone più povere, adesso anche le "classi medie" cominciavano ad uscire per strada.

Alcuni non avevano soldi, altri non ne potevano disporre. La gente si è radunata in modo spontaneo, uscivano nelle piazze donne e uomini con bambini, anziani, giovani, altri che, mentre tornavano a casa dal lavoro per cenare, decidevano di rimanere in strada e spontaneamente iniziavano a confluire verso piazza del Congresso e plaza de Mayo, sede del parlamento una, residenza del presidente l'altra... insomma, lo Stato. Gli argentini sono stanchi della miseria in cui sono costretti da anni e per la prima volta, mettendo da parte i loro leader e dirigenti tradizionali, si sono autoconvovati attraverso los cacerolaaos, o di bocca in bocca, chiamandosi al telefono, facendo blocchi stradali; attraverso la diffusione della notizia delle mobilitazioni per radio e TV si è generato un effetto contagio. Se ciò che pretendeva il governo era che la gente si chiudesse in casa, ha ottenuto esattamente il contrario. Ma quel che è iniziato come una manifestazione pacifica al grido di "lo stato d'assedio se lo mettano in culo" che rimbombava in tutta Buenos Aires assommandosi al baccano di pentole sbattute, clacson impazziti di macchine e taxi che si univano, è diventato verso le 3 della notte una immensa nuvola di gas lacrimogeni e incendi squarciata da pallottole di gomma, devastazioni, centinaia di arresti, per finire con le dimissioni del ministro dell'economia Domingo Cavallo.

Il mattino seguente, plaza de Mayo si riempiva nuovamente di gente. Iniziava tutto un'altra volta pacificamente, si sentiva cacerolazo, e partecipavano bambini, pensionati... Oltre allo stato d'assedio ora si ripudiava anche la repressione del giorno prima. Le grida di disprezzo non risparmiavano nessun partito politico, inclusa l'opposizione di sinistra, e non si è permes­so (come nella notte e nei giorni precedenti) che fossero innalzati striscioni o bandiere di partiti. Il MAS, il PTS, il PO, Izquierda Unida (PC e MST) hanno avuto un comportamento vergognoso, anche se alcuni militanti di questi partiti non hanno resistito al contagio e hanno partecipato individualmente, a dispetto dell'inerzia delle proprie organizzazioni. Alcuni gruppi organizzati hanno preso parte, senza identificazioni partitiche, e molti sono stati i compagni anarchici.

Il discredito della politica risultava evidente. In plaza de Mayo era manifesto anche il rifiuto delle dirigenze sindacali (vere e proprie mafie organizzate e in grandissima maggioranza peroniste), il settore industriale (incluse le banche), tutti i politici e i funzionari, tanto del governo come dell'opposizione, e le forze dell'ordine. De la Rua si trovava nella Casa Rosada e a mezzogiorno dava l'ordine di "ripulire la piazza", così che gli sbirri si sono lanciati indiscriminatamente sulla gente, trascinando via gli arrestati per i capelli. Durante tutto il pomeriggio i manifestanti hanno resistito e tenuto la piazza. I lacrimogeni, le pallottole di gomma, le cariche li facevano retrocedere, ma immediatamente essi innalzavano altre barri­cate e srotolavano fil di ferro lungo le strade per impedire il passaggio ai cavalli e tornare verso la piazza. La gente ha bloccato tutti gli accessi scontrandosi con la polizia mentre al centro "las madres de plaza de Mayo" e altri gruppi pacifisti venivano violentemente sgomberati dai poliziotti ormai completamente fuori controllo.

Verso le 18 il centro di Buenos Aires risultava spaccato in due: la parte dall'avenida 9 de Juho verso plaza de Mayo era sotto il controllo della polizia, mentre dalla stessa strada verso il Congresso la gente riempiva le strade e innalzava barricate. Nella 9 de Julio continuavano gli scontri tra il fumo delle barricate e dei lacrimogeni, tra il rumore delle marmitte dei motoqueros [sindacato indipendente nato da poco, formato da giovani motociclisti che lavorano con le consegne, molto agguerriti e ben organizzati; a più riprese si sono scagliati con le moto contro gli schieramenti della polizia, cavalli compresi, mentre subito dietro altri gruppi attaccavano lanciando pietre e molotov; tra loro si contano due morti. ndt] che facevano scorribande burlando la repressione. Lì, arrivavano blindati e jeep della polizia facendo fuoco dai finestrini, e gli sbirri in moto (che seguivano i blindati e i camion-idranti), i quali, a tutta velocità, sparavano nel mucchio. Ma nonostante la violenza la gente non lasciava le strade; addirittura, nei dintorni di plaza de Mayo ormai completamente presidiati, essa continuava a urlare contro la violenza brutale degli sbirri. Già circolava la voce che erano stati assassinati sette giovani a fucilate. Dai balconi si lanciavano bottiglie d'acqua e limoni per aiutare gli incappucciati che resistevano (vecchi e bambini già si erano allontanati) ed il clima era euforico e solidale tra la gente che continuava ad arrivare. La polizia aveva con grossa fatica allontanato i manifestanti dal centro, ma non riusciva a prevalere su quelli che continuavano negli immediati dintorni a distruggere e saccheggiare i simboli del sistema capitalista: banche, uffici pubblici, commissariati, assicurazioni di pensioni private e di sicurezza sul lavoro, gli uffici commerciali dell'impresa elettrica EDESUR, Mc Donald's, Blockbuster, la catena di discoteche Musimondo. Avenida do Mayo e quella di Corrientes presentavano un aspetto insolito tra il fumo, il fuoco e le devastazioni.

Alle 19.30 vengono rese pubbliche le dimissioni di De la Rua. Il saldo di questi due giorni è di 30 morti (la maggior parte caduti durante i saccheggi, fucilati dai commercianti, gli altri nei dintomi di plaza de Mayo, per lo più ventenni, ma anche un uomo di 57 anni e una bimba di 13), centinaia di feriti, 3.000 arrestati e torturati nei commissariati (alcuni tuttora detenuti), 200 e più saccheggi a supermercati, un miliardo di dollari di perdite per le imprese attaccate, i cui profitti sono in gran parte causa della miseria popolare. Le ribellioni sono scoppiate in tutto il paese (coinvolgendo più di 30 province) e si sono scatenate ancora di più quando arrivavano notizie delle battaglie di Buenos Aires. Per generare paura tra la popolazione, polizia e televisione hanno diffuso la notizia che bande di saccheggiatori si stavano dirigendo verso le abitazioni private per assaltarle, incitando gli abitanti ad armarsi per difendersi dai "vandali".

I peronisti hanno interpretato male il messaggio degli argentini: anche contro di loro era diretta la protesta, non solo contro i leader sindacali, gli industriali, le banche e l'FMI. I sorrisi a festa di Menem, Duhalde (ex governatore della provincia di Buenos Aires), Rodriguez Saà (in quel momento governatore-padrone della provincia di San Luis), Ruckauf (governatore di Buenos Aires) e di altri gerarchi del "justicialismo" (peronisti) hanno iniziato a scomparire la notte del 28 dicembre, quando un altro cacerolazo si è trasformato in una battaglia campale. Già nella mattinata dello stesso giorno i lavoratori delle ferrovie avevano iniziato blocchi stradali reclamando i propri salari arrestati. Ciò ha provocato il collasso del servizio e la rabbia della gente che al pomeriggio non poteva tornare a casa. I "clienti" si sono aggiunti allo sciopero pretendendo il rimborso di biglietti e abbonamenti. Di fronte al rifiuto dei rim­borsi da parte dell'impresa che gestisce le ferrovie, 9 vagoni sono stati interamente incendiati, le biglietterie e altri beni dell'azienda distrutti. Quando i pompieri si accingevano a spegnere il fuoco si sono trovati con i manicotti degli idranti tranciati. Incendi e devastazioni hanno avuto luogo anche nella stazione di Castelar.

Dopo alcuni giorni di apparente tranquillità, in cui la gente confidava nel ritorno alla stabilità monetaria, la protesta ha riguadagnato le strade quando Saà, eletto presidente con l'appoggio dei peronisti, ha deciso di nominare Grosso (ex sovraintendente di Buenos Aires che nel '91 aveva dovuto lasciare il suo incarico per corruzione) quale presidente dell'assessorato (le denunce per arricchimento illecito riguardano lo stesso Saà) e nel contempo programmava di nominare varie altre vecchie figure della corruzione degli anni precedenti. Grosso rinunciava all'incarico, ma la notte portava con sé una cinquantina di altre detenzioni e alcuni feriti. Negli scontri veniva incendiata un'ala del Congresso, e per la polizia non si è messa molto bene: i manifestanti hanno ferito gravemente due repressori a sassate e pugni provocandogli fratture in tutto il corpo... questa volta i feriti gravi li contano loro.

Anche in questo caso la manifestazione è stata autoconvocata, senza bandiere di partito e ha visto partecipare molti compagni anarchici. Anche se non ci sono stati morti, Stato e forze dell'ordine non potevano rimanere a mani vuote. All'alba del 29, quando gli scontri stavano terminando, tre ragazzi vengono ammazzati da uno sbirro in pensione della policia federal. L'assassino dei giovani (ex autista del tiranno Jorge R. Videla - capo dell'esercito durante la dittatura militare) li ha fucilati nel bar che sorvegliava. Vedendo le immagini dei manifestanti che pestavano gli sbirri la notte prima, i tre ragazzi stavano commentando con soddisfazione "stavolta è toccata a loro". Lo sbirro macellaio Belastiqui li ha fucilati sul posto, per poi trascinarli fuori, lasciando un coltello vicino ai corpi per dichiarare in seguito di essere intervenuto in un tentativo di rapina. Gli abitanti del quartiere hanno tentato di linciarlo, scatenando una nuova battaglia campale in tutto il quartiere. Ora chiedono lo smantellamento totale del commissariato di zona, decisi a manifestare ogni sabato fino ad ottenerlo.

Il presidente Rodriguez Saà ha promesso in sette giorni l'impossibile. Si è riunito con tutto l'arco parlamentare, da sinistra a destra, con i sindacalisti della CGT, quelli della corrente classista e combattiva, e con le madres de plaza de Mayo. Ma questo "collage" si è disintegrato quando Saà ha perso l'appoggio dentro il suo stesso partito. Saà ha dovuto dimettersi già il 29. Il suo successore è stato Duhalde, noto repressore e autoritario della prima ora, peronissa, narcotraffrcante... Alla proclamazione della sua elezione, decine di migliaia di persone sono scese in piazza nel giro di qualche minuto, radunandosi in plaza Congresso e riempendo plaza de Mayo.

Questo cacerolazo, durato fino alle tre del mattino, è stato pacifico, visto il dispiegamento poliziesco a guardia dei due palazzi del governo. I media hanno completamente ignorato questo enorme e spontaneo concentramento avvenuto pochi minuti dopo l'elezione di Duhalde.

La situazione è esplosiva. Le "basi" hanno scavalcato i propri dirigenti (ora sicuramente pentiti di aver spinto ai primi saccheggi). Nessun politico, dirigente sindacale o industriale conserva prestigio in Argentina. La gente canta: "Che se ne vadano tutti, che non ne rimanga nemmeno uno", "Si esto no es el pueblo, el pueblo donde està? ", "Sin policias, sin militares vamos a viviv mejor ..".

Gruppo "Libertad"

Buenos Aires, 31 dicembre 2001

(si tratta di un gruppo anarchico di Buenos Aires che pubblica un giornale omonimo. Il titolo del testo è nostro) .

La normalità capitalista non è ancora all'orizzonte in Argentina. In particolare, le giornate e le notti del 10, del 19 e del 24 gennaio sono state caratterizzate da concentramenti di massa e da attacchi a tutti i simboli del capitalismo: banche, Mc Donald's, uffici istituzionali, eccetera. Nelle distruzioni e negli scontri con la polizia la teppa si è trovata fianco a fianco con insospettabili signori di mezza età... Il contagio della rivolta continua.

 
 

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