A proposito del «caso diossina»
Contrariamente a certi timori espressi
in un primo momento, l’origine della contaminazione
sarebbe sempre la stessa.
(Libération, 25 luglio 1999)
I padroni dell’agro-alimentare e i loro politicanti non si accontentano di avvelenarci; essi osano, come se questo non bastasse, venire a parlarci di salute e di igiene e ad imporci la delirante concezione che ne hanno, facendo passare nuove leggi e regolamentazioni contro ciò che resta dei contadini e della produzione artigianale, nello stesso momento in cui gli ultimi risultati catastrofici dell’agricoltura industriale si spandono nei nostri piatti.
La produzione industriale si sforza così di far sparire tutto ciò che le è estraneo, e che resisteva ancora con la sua mera esistenza all’impoverimento generale, per non lasciarci altra scelta che i suoi surrogati avvelenati, e per sopprimere ogni termine di paragone, che è sempre così evidentemente a suo sfavore.
Nel momento in cui la “crisi della diossina” faceva parlare di sé, la Comunità Europea pubblicava una direttiva relativa ai modi di produrre gli alimenti e ai locali dove vengono prodotti. Questa ha la pretesa di obbligare i produttori a seguire delle “regole igieniche” precise e molto rigide; nei fatti le regole favorevoli al modo di lavoro della grande produzione industriale, asettico nella forma e immondo nella sostanza, che ha prodotto la mucca pazza, il pollo alla diossina e altre listeriosi.
Ne risulta che, in Italia per esempio, il 90% dei formaggi e dei salumi prodotti artigianalmente dai contadini e dai pastori o in piccoli laboratori sarà fuorilegge e ne sarà vietato il commercio. Dal 18 giugno, sulla base della stessa regolamentazione, bisognerebbe anche andare al mercato con un guanto di plastica, per il divieto di toccare frutta e verdura a mani nude “per ragioni di igiene”.
Per contro, i polli allevati a diciotto per metro quadrato, nutriti con farine e grassi riciclati, conditi occasionalmente con veleni diversi, senza che neanche importi quali, e uccisi dopo quarantacinque giorni, rachitici e gonfiati, questi sì che sono abbastanza buoni per noi: potremo mangiarli in tutta tranquillità, perché le “regole igieniche” saranno state sicuramente rispettate.
Questo “super-igienismo” non ha certamente nulla a che vedere con la pulizia e l’igiene vere e proprie. Si sa che, nel caso della contaminazione da listeriosi, è precisamente l’alleanza di un igienismo draconiano e dell’uso intensivo di molteplici antibatterici insieme alla produzione massiccia e concentrata di alimenti (in questo caso i formaggi) ad aver selezionato questi batteri indistruttibili e micidiali; esattamente come negli ospedali della medicina industriale, colonizzati in maniera sempre più incontrollabile e catastrofica da “ceppi di microbi multiresistenti”.
Contro tutte queste evidenze, e contro ben altre ancora conosciute da molto più tempo (sulla qualità gustative di questi prodotti, ad esempio), in questi ultimi tempi i media non smettono tuttavia di ripeterci che il cibo che mangiamo non è mai stato di qualità tanto buona come quella di oggi. Insomma, le difficoltà attuali dell’industria agro-alimentare super-regolamentata sono la prova della scadente qualità della produzione antica e artigianale, poiché, come si sa, all’alba del XXI secolo c’è necessariamente un progresso in ogni cosa. E quindi, se oggi gli alimenti sono un po’ avvelenati, è necessariamente che in passato era anche peggio. Perciò, ben presto, non c’è da dubitarne, mangeremo cento, mille volte meglio dei nostri antenati – quei barbari che hanno inventato la cucina – quando, con la benedizione delle regolamentazioni sanitarie, non ci sarà letteralmente più niente da mangiare se non delle sostanze vitaminizzate e della schiuma di proteine accuratamente preparata e confezionata nei laboratori dell’agro-industria. Tutti i “rischi sanitari” saranno stati allora radicalmente soppressi insieme a ogni salute e a ogni vita sulla Terra, che non siano sotto perfusione industriale e mercantile, per la più grande soddisfazione del razionalismo morboso dei burocrati, degli affaristi e dei loro servi mediatici.
L’Agence Féderale pour la Sécurité Alimentaire che vogliono venderci oggi non avrà alcuno degli effetti salvifici che si aspettano i giornalisti. Essa è visibilmente ricalcata sulla Food and Drugs Administration americana che, notoriamente, è corrotta fino al midollo: molti dei suoi tecnici e funzionari sono, o sono stati, al servizio delle multinazionali delle quali si presume debbano controllare la produzione e hanno coperto, ogni volta che è stato necessario, gli avvelenamenti da pesticidi, da concimi chimici, da ormoni e adesso da organismi geneticamente modificati (Ogm), di queste ditte. Sicuramente l’imitazione belga sarà ancora peggio dell’originale; ma alla fine, cos’altro ci si poteva aspettare dallo Stato?
Il solo risultato che otterrà questa agenzia di controllo sarà quello di aumentare ancora la burocratizzazione a scapito dei piccoli produttori e conseguentemente di aggravare la concentrazione e la centralizzazione della “catena di produzione”. Ciò rafforzerà le condizioni responsabili degli avvelenamenti a ripetizione che conosciamo e in ogni caso della loro massiccia diffusione. Nel caso della diossina, ad esempio, la concentrazione della produzione è tale che, se si crede alle versioni ufficiali, è stato sufficiente che un solo produttore di mangimi per animali distribuisse dei prodotti adulterati per contaminare un’intera nazione.
Lo sviluppo che d’ora in avanti conoscerà l’agricoltura etichettata come “biologica”, metterà così completamente d’accordo i nostri dirigenti: costoro non avevano forse proclamato in Francia, quasi due anni or sono, la loro ambizione di vedere la produzione “biologica” (che termine stupido e disgustoso!) rappresentare da qui a una decina d’anni il 10% dell’agricoltura nazionale?
Il dieci per cento, dunque, di alimenti più o meno normali e senza veleni. Ma non di più, beninteso. Una produzione di lusso per coloro che potranno pagarsela, un nuovo mercato molto redditizio; a fianco del restante 90% di veleni prodotti dall’agro-industria che, questione che non si potrà mai più tirare in ballo nel quadro di questa società: bisogna pur nutrire i poveri e far andare gli stabilimenti chimici (a questo proposito ricordiamo, per esempio, che più della metà della produzione farmaceutica mondiale è utilizzata negli allevamenti sotto forma di antibiotici, di tranquillanti, ecc.).
Per una sinistra ironia, lo sviluppo del marchio biologico parteciperà anche alla scomparsa della piccola produzione contadina tradizionale. Le costrizioni combinate del mercato moderno, dei regolamenti statali e della uniformazione dei modi di vita faranno sì che presto sarà impossibile rimanere piccolo contadino e produrre semplicemente dei buoni alimenti più o meno sani con dei metodi artigianali per una clientela che vive nei paraggi: bisognerà o industrializzarsi o, per consentire e giustificare il mantenimento della vecchia qualità, diventare “biologici”; con tutte le costrizioni, i controlli e, di sicuro, l’aumento di prezzi e la trasformazione della clientela che esso trascina.
(Non parleremo qui della industrializzazione di questa trafila e dell’ammorbidimento continuo delle norme che definiscono le etichette, tutte cose inevitabili non appena lo Stato e il mercato se ne immischiano.)
Il senso di tutto ciò è sempre lo stesso: sopprimere ogni differenza per rendere tutto identico e ugualmente insipido: gli alimenti, quelli che li producono, quelli che li mangiano. La produzione automatizzata di massa fa scomparire l’esperienza, la saggezza e l’indipendenza degli uomini per ridurli al rango di servitori delle macchine – animali domestici della tecnologia. E questo è vero per tutto ciò che ci circonda: le città, per esempio, si degradano e si uniformano esattamente come ciò che ci troviamo nei nostri piatti, esattamente come le campagne che ce lo forniscono.
Come diceva poco tempo fa, con una certa rassegnazione, una madre di famiglia poco sospetta di rivoluzionarismo: «Tutto è marcio; bisognerebbe ricominciare tutto daccapo». Forse una tale conclusione non è che sia così rara nelle teste e sulle labbra, in questi ultimi tempi.
Ma dove si vedono delle persone trarre le temibili conseguenze da una così evidente constatazione, sul piano dell’insieme della società e semplicemente, per cominciare, su quello della propria esistenza?
La rassegnazione e l’impotenza sono tali che persino dei misteriosi avvelenamenti di massa a ripetizione non suscitano più alcuna reazione né opposizione seria. In ogni altro tempo ci sarebbero state come minimo delle sommosse. Oggi sono sufficienti degli “ecologisti” al governo per placare ogni inquietudine.
Eppure, il minimo che si possa dire è che urge trarre le conclusioni dalla situazione senza uscita a cui ci ha portato la società industriale e il dominio dell’economia. Trarre queste conclusioni e tentare di plasmare la propria vita di conseguenza rimane nonostante tutto possibile, checché ne dica il tanto comodo “è così e non ci possiamo fare niente”. Basta per ciò un po’ di coraggio, quello di fare una scelta di campo e di denunciare attorno a sé la menzogna che si spande ovunque.
Quanto ai mezzi per il «ricominciare tutto daccapo», alle possibilità di risolvere il “problema sociale” nel suo insieme, che pare oggi così tragicamente inestricabile, li si comprenderebbe e li si individuerebbe già meglio andando a trovare un po’ più di mezzi per difendere, su ciò che resta della pubblica piazza, il punto di vista dell’emancipazione umana, vale a dire la possibilità per ognuno di rendersi padrone e possessore delle condizioni della propria esistenza.
Presto sarà troppo tardi, ammesso che non lo sia già. E la diffusione accelerata degli Ogm nell’agricoltura, che si svolge sotto i nostri occhi, ridurrà ancora più radicalmente le possibilità di una autonomia qualunque dalla società industriale, mentre ci prepara nuove catastrofi e mai viste penurie.
Se niente e nessuno riesce a opporvisi con successo.
Alcuni nemici del“migliore dei mondi” tecnologico
Bruxelles, agosto 1999
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