Un, due, tre... liberi tutti!
Da qualche giorno, moltissime carceri italiane sono uscite dal silenzio in cui vorrebbe relegarle la buona coscienza collettiva.
Con modi diversi (sciopero dell'aria e della fame, rifiuto dei colloqui, incendio di lenzuola e giornali e, soprattutto, rumore assordante di pentolame contro le sbarre), migliaia di detenuti sono in lotta. Cosa mai chiederanno? Uscire il più presto e nel maggior numero possibile, ovviamente, e migliori condizioni per coloro che resteranno rinchiusi. Dopo il massacro – ordinato direttamente da Roma – dei detenuti sardi da parte dei secondini, questa volta sono i prigionieri a prendere l'iniziativa.
Siamo solidali con tutte le donne e gli uomini che combattono la propria prigionia, non certo con chi vuole migliorarne la miseria. Ma cosa vuol dire essere solidali? Semplicemente, sentirsi accomunati dalla volontà di rompere tutte le sbarre e tutte le costrizioni. In un mondo in cui donne e uomini sono chiusi in galera, e che assomiglia esso stesso ogni giorno di più ad un immenso carcere, noi non saremo mai liberi. Non esiste soluzione in questa società: finché esisterà il denaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti; finché esisterà la proprietà, ci sarà il furto; finché esisterà l'autorità, nasceranno i suoi fuorilegge. Non si tratta allora solo di criticare lo strumento-carcere (allontanamento fisico, reclusione, privazioni, eccetera), ma anche il suo scopo (terrorizzare i poveri, punire i ribelli, difendere i privilegi dello Stato e della classe dominante).
Non vogliamo essere magnanimi con i "criminali", come le tante dame di carità, bensì commettere il più grande dei crimini: sovvertire l'esistente – questo carcere che contiene tutti gli altri – per creare sulle sue macerie le possibilità del libero accordo e della libera risoluzione dei conflitti. In questa prospettiva, la sola riforma possibile delle prigioni è raderle al suolo per non costruirne mai più.
La solidarietà non oltrepassa solo i muri, ma anche le frontiere. Così, nelle nostre teste e nei nostri cuori, il fuoco e il rumore delle carceri italiane si legano alla lotta che da parecchi mesi diversi prigionieri stanno conducendo in Spagna contro l'isolamento carcerario (chiamato F.I.E.S.), le torture, i continui trasferimenti e per la scarcerazione dei detenuti malati. Dalla sua instaurazione nel 1991 fino ad oggi, il regime F.I.E.S. ha già fatto undici morti, di cui tre dall'inizio dell'anno. Dal primo al sette di luglio, i prigionieri organizzeranno un nuovo sciopero dell'aria. Ancora una volta, quello che conta è la loro lotta autonoma e diretta affinché lo Stato, per conto suo, ceda su alcuni punti parziali. Il pericolo per le autorità non è rappresentato da questa o quella rivendicazione, ma dal fatto stesso che i detenuti si autorganizzino, in Italia come in Spagna, e che la loro rabbia possa incontrare quella di tutti i poveri che stanno "fuori". Non si tratta infatti di chiedersi perché alcuni individui trasgrediscono le leggi, bensì come mai, in una società che ci spossessa e ci avvelena tutti i giorni, ce ne siano così pochi.
La forza dell'abitudine e la paura, i mille ricatti della sopravvivenza quotidiana – ecco il fondamento di questa società. Quanto dovranno ancora battere su quelle sbarre i detenuti perché gli ammutinati della prigione sociale ne ascoltino il grido di libertà?
27 giugno 2000
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